Storicamente. Laboratorio di storia
Gli Slavi nelle relazioni dei rettori

In numerosi passaggi delle relazioni dei rettori che amministravano l’Istria in rappresentanza di Venezia, la minoranza slava della regione era fatta oggetto di analisi o di commento. In genere, gli abitanti delle campagne erano scarsamente apprezzati, a causa dell’indolenza e della mancanza di iniziativa. Ma si tratta di una caratteristica che, nelle analisi dei podestà, accomunava abitanti vecchi e nuovi e che potrebbe essere in qualche misura influenzata dalle necessità economiche della potenza dominante o dalle difficili condizioni del contesto.
Un riferimento storicamente interessante appare quello del podestà Vito Morosini, del 1560: nella sua relazione l’ufficiale proponeva di affidare il comando della cernida del territorio di Capodistria al Capitano dei Schiavi, poiché «pratico dei costumi e della lingua, che quasi tutti parlano schiavo, et non intendono fatto altra lingua». Solo lui avrebbe potuto vincolare le milizie alla disciplina necessaria all’addestramento (Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Vito Morosini, 1560, Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, 6 (1890), 73).
Si tratta di una testimonianza interessante per vari motivi: innanzitutto, il podestà ci dice che gli abitanti delle ville e dei castelli del territorio di Capodistria, alla metà del ’500, erano essenzialmente Slavi, dato che le cernide erano reclutate nel territorio, mentre alle città erano riservati i compiti del controllo della costa e del reclutamento dei marinai, dei piloti e dei rematori per le flotte di Venezia. In secondo luogo, la relazione evidenzia le difficoltà di comunicazione tra i nuovi arrivati e gli ufficiali veneti. Si tratta però di una testimonianza che sarebbe indebito generalizzare all’intero contesto territoriale ed all’intero periodo considerato. Siamo alla metà del ’500, la colonizzazione è ancora un fatto piuttosto recente, e la fase indicata dagli storici con il nome di «stabilizzazione», è ancora da venire. Forse il giudizio è da ridimensionare, in quanto il podestà era certamente l’ultimo arrivato e sarebbe stato il primo ad andarsene: la carica aveva una durata limitata, e non era certo la più ambita, tra quelle cui un ufficiale veneto poteva aspirare.
Nel 1583, Alvise Morosini forniva una testimonianza che potrebbe prestarsi a maggiori generalizzazioni, relazionando sulle difese dell’Istria, che erano affidate a sei compagnie composte in gran parte di Schiavoni e Morlacchi: la componente slava delle milizie sembrava ormai prevalente in gran parte della provincia (Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Alvise Morosini, 1583, AMSI,, 6 (1890), 392).
Alla fine del ’500, sono molte le lodi per il modo in cui il Capitano degli Schiavi gestiva i suoi uomini: il suo gruppo era descritto come il meglio addestrato e disciplinato dell’intera regione.

Sulla situazione dei coloni e sul livello di integrazione da essi raggiunto, appare particolarmente interessante la relazione del Provveditore Basadonna, del 1625.
Nel suo scritto, l’ufficiale proponeva una classificazione degli immigrati in base al periodo di tempo passato dall’insediamento in Istria ed una rapida descrizione delle problematiche connesse al loro inserimento. Nella sua analisi Basadonna divideva i coloni in tre categorie, vecchi, novi o novissimi: i vecchi coloni erano quelli integrati nel contesto, nel senso che non fruivano di alcun privilegio fiscale, vivevano del frutto del loro lavoro e non erano sottoposti a giurisdizione separata rispetto agli altri abitanti della città o del territorio. L’integrazione raggiunta dai coloni, in base alla quale potevano dirsi vecchi, era di tipo prettamente economico, o giuridico-formale; gli abitanti novissimi erano invece quelli immigrati da meno di cinque anni, che godevano dei privilegi e delle esenzioni previste per i coloni e che erano sottoposti all’autorità del capitano di Raspo. Nonostante le facilitazioni, tali coloni erano descritti come poverissimi e dediti ad attività criminose, necessitate dalle difficili condizioni economiche e dalla scarsa produttività dei terreni.
Fin qui, tutto nella norma, tutti dati noti. Però nella classificazione di Basadonna sembra esserci una categoria “in più”, rispetto a quelle note e generalmente descritte dalle fonti. La circostanza appare chiara se si analizzano nel merito le caratteristiche di questo gruppo di coloni, le ragioni in base alle quali definire tali novità. Gli habitanti novi di Basadonna, infatti, erano coloni che si erano «fatti novi […] col mezzo di investiture e terreni». L’espressione del rettore alludeva alla pratica di farsi dotare di altre terre una volta scaduti i termini delle esenzioni e dei benefici sulle terre assegnate all’atto dell’insediamento. Si trattava di frodi vere e proprie, con le quali interi nuclei famigliari riuscivano a fare risultare il loro arrivo più recente di quanto non fosse e ad ottenere nuove terre, nuovi crediti e nuove esenzioni. A questi coloni, il rettore affiancava coloro i quali riuscivano ad ottenere con mezzi legali la «proroga delle prerogative e dei privilegi». Non c’era frode, ma il giudizio del rettore sembrava essere ugualmente critico, nei confronti di un ceto che, inevitabilmente, agli occhi degli abitanti e dei coloni più antichi finiva per risultare parassitario (Relazione dell’Illustrissimo Signor Francesco Basadonna ritornato di Provveditor in Istria, 1625, AMSI, 5 (1889), 97-98).
Un quadro delle frodi e delle pratiche evasive dei coloni veniva presentato qualche anno dopo dal podestà di Capodistria Francesco Contarini. In molte comunità, riferiva l’ufficiale, ci si lamentava che i coloni invadessero le proprietà, e soprattutto i pascoli dei vecchi abitanti. È possibile che si trattasse di quei contrasti tra coloni descritti da Ivetic a proposito della conflittualità sociale diffusa nel contesto rurale.
I rettori si lamentavano del fatto che i coloni, finiti i termini per i benefici e le esenzioni, occupassero terre incolte e, presentando titolo d’habitanti novi, chiedessero nuovamente i benefici di esenzione. Altri ancora riuscivano ad inserirsi nei nuclei famigliari di nuovi coloni, estendendo alle loro proprietà ed alle loro famiglie i benefici destinati ai primi. I rettori erano impotenti, poiché la giurisdizione su tutti i coloni spettava al capitano di Raspo. I tempi che occorrevano per informare il capitano di ogni singolo caso e per ottenerne l’intervento erano estremamente lunghi, di modo che «passando senza meta sotto nome de nuovi habitanti si rendano per sempre essenti ne vengon mai a contribuire alle pubbliche gravezze». L’ufficiale proponeva che il controllo sulle comunità dei nuovi arrivati venisse esteso alle podesterie locali e che si effettuasse «una buona revisione di tutte le investiture, con catartico diligente dé beni commessi e con rollo de medesimi novi habitanti da esser tenuto non solo a Raspo, ma in cadauna Cancelleria dei Rettori». Contarini, in pratica, proponeva che si provvedesse ad un censimento dei coloni, con relativa verifica delle terre distribuite, da effettuare luogo per luogo ed avendone parte anche i rettori di ogni singola città, che erano al corrente della maggior parte delle situazioni di abuso (Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Francesco Contarini, 1638, AMSI, 7 (1891), 315).
Le frodi non erano certamente una prerogativa del contesto rurale slavo. Ma le frodi dei coloni assumevano comunque forme specifiche e, per come venivano ricostruite, descritte e contestualizzate dagli ufficiali veneti, sembra che creassero malcontento nella popolazione e determinassero situazioni di conflittualità sociale. Il Seicento sembrerebbe rappresentare un punto critico da questo punto di vista: le denunce erano numerose, e l’immigrazione aveva assunto proporzioni massicce. La situazione era denunciata anche dal podestà Giacomo Contarini, nel 1640 e da Pietro Basadonna, nel 1650. Si tratta degli stessi anni in cui il citato capitano di Raspo Giovan Battista Basadonna esprimeva tutta la sua soddisfazione per il procedere del processo di colonizzazione, a testimonianza del modo in cui le responsabilità ed il punto di vista potevano mutare le prospettive.
A Pola, Dignano e Valle si erano verificati furti da parte degli novissimi habitanti, soprattutto di bestiame, con conseguenti scoppi di tensione e «clamori». L’impegno del capitano di Raspo era giudicato grandissimo, ma una sola carica non era sufficiente ad esercitare un’autorità ed un controllo efficaci su tutte le comunità di coloni della provincia, troppo numerose, e troppo sparse sul territorio. Secondo il podestà occorreva pensare a delle possibili soluzioni di un problema che stava diventando troppo grave, e pregiudizievole per la vita della provincia.
Nell’analisi della situazione delle difese, il podestà Basadonna metteva in evidenza come, nelle terre di Parenzo, Rovigno e Cittanova, vi fossero comunità di contadini che avevano lo status di novi habitanti, in virtù del quale erano esentati dal servire nelle cernide, ma che risiedevano in Istria ormai da 40 anni («sebene conservono il nome di novi habitanti sono venuti alla devozione della Repubblica già anni 40 in circa»). Secondo il Podestà sarebbe stato il caso di fare contribuire alla difesa del territorio, anche questi fittizi novi habitanti, che avrebbero potuto comodamente fornire circa 200 nuovi soldati (Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Pietro Basadonna, 1650, AMSI, 7, (1891), 334). Il rettore Stefano Capello, successore di Basadonna, rincarava la dose:

È tutta l’Istria […] massime la parte bassa, penuriosa d’habitanti, d’agricoltori, e questi anche privi d’industria. Le genti nuovamente ricovratisi assai più proclive al depredare che al coltivare la campagna, onde frequenti si sentono i reclami de naturali sudditi del Paese spogliati spesso d’animali e di altri loro haveri con pericolo anche de peggiori successi [2].

Una certa conflittualità, dunque, sembrava caratterizzare il contesto rurale del ’600. Negli anni successivi gli interventi delle autorità ed il cessare delle ondate migratorie avrebbero progressivamente modificato e definito la situazione: banditi da una parte, contadini dall’altra. Il dato etnico non è chiarito del tutto: si capisce che i danni e le frodi venivano perpetrati dai coloni slavi e albanesi di recentissima immigrazione, ma non è chiaro ai danni di chi. Le attuali ricerche storiche sembrerebbero escludere il conflitto inter-etnico e la circostanza, date la gravità e la diffusione del problema, farebbe quindi pensare, ancora una volta, a due contesti separati: città latine e campagne slave; abitanti diversi, problemi diversi. A conferma della più classica delle rappresentazioni.

Note

[1] A. Petranovic, A. Margetic, Il Placito del Risano, «Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno», 8 (1983-84), 56, 77.

[2] Relazione del Podestà e Capitano di Capodistria Stefano Capello, 1652, AMSI, 7, (1891), 343.