L'idea di unità nazionale e il recupero delle identità cittadine
Le scoperte archeologiche e l’interesse per l’archeologia si sono sempre intrecciati con i grandi eventi storici oltre che con i movimenti delle idee e della cultura.
Tra XVI e XVII secolo ad esempio i Medici dedicarono grande attenzione alle scoperte di antichità etrusche in Toscana e gli Etruschi diventarono quasi un supporto ideologico al loro progetto politico di un grande “Regno d’Etruria” contrapposto al Papa e allo Stato Pontificio dato che gli Etruschi in antico già avevano combattuto contro Roma, così come i Medici si proponevano di fare, almeno sul piano politico.
Napoleone Bonaparte nelle sua campagna d’Egitto dette grande spazio ai monumenti dei Faraoni che diventarono parte integrante della sua impresa egiziana.
Nella prima metà del XIX secolo il romanticismo, nelle sue premesse culturali e filosofiche, finì con l’influenzare profondamente l’atteggiamento degli archeologi e degli etruscologi sempre più attratti, romanticamente, dalla emozione e dall’avventura della scoperta archeologica e sempre meno attenti alla riflessione critica da dedicare alla loro interpretazione.
Ma è sicuramente con il Risorgimento e con il lungo processo storico che approdò all’Unità d’Italia che si verifica un profondo intreccio con l’archeologia e in particolare con l’archeologia dei popoli italici in età preromana, tra i quali sono soprattutto gli Etruschi e le scoperte che li riguardano ad avere un peso sulle vicende storiche che precedono e sulle idee progettuali che accompagnano il destino dell’Italia appena unificata. Mi soffermerò su quest’ultimo aspetto e in particolare sulla scoperta degli Etruschi a Bologna, sulle conseguenze che essa ebbe nel progetto culturale nella costruzione del “Museo Civico” inteso come grande archivio per la storia della città, finalizzato alla definizione e al recupero di una solida identità cittadina strettamente funzionale al progetto di unità della nazione.
Il tema degli Etruschi a Bologna, subito dopo la piena unità nazionale acquisita nel 1870, ebbe infatti non solo grande fortuna, ma un ruolo importante e decisivo sia nella progressiva acquisizione del concetto di unità nazionale, che nella ricerca delle proprie radici storiche, due obiettivi solo in apparenza contrastanti. Bisognava infatti da un lato rinsaldare e rafforzare l’idea di unità, ma nello stesso tempo si avvertiva anche l’esigenza di conoscere e valorizzare i documenti e le tracce delle singole identità locali.
Il progetto culturale che scaturì dalla unità nazionale appena acquisita sul piano politico fu proprio quello di rinsaldare l’idea di unità attraverso il recupero delle “storie locali”, di tante e molto diverse “storie locali” come tra l’altro era esplicitato nei documenti programmatici delle Deputazioni di Storia Patria volute nel 1860 proprio a questo scopo da Carlo Farini e create dal Governo dell’Emilia.
Il sindaco di Bologna per motivare l’impegno del Comune in tanti scavi cittadini e l’interesse dello stesso Comune nella costituzione di un Museo Civico[1] in cui raccogliere tutti i materiali rinvenuti, intesi come «memorie storiche della città», diceva: «la nostra regione ha tanta copia delle genti che l’abitarono che è necessario ricercare i monumenti e rinvenire gli anelli della lunga catena delle epoche che si sono succedute. Così verrà dato di ricomporsi sopra solida base la storia dell’agro Felsineo, storia che rivelerà la sua luce sulla storia generale dell’Italia». Con grande lucidità e consapevolezza si sottolineava che solo attraverso le storie locali si poteva restituire e rinsaldare l’identità della nazione avendo ben presente però anche l’esigenza di una autonomia locale di fronte ad uno Stato che mostrava in modo sempre più determinato le sue intenzioni fortemente centralizzatrici. A questo tipo di dibattito si ricollega il grande fervore degli scavi cittadini e la grande fortuna dei Musei Civici intesi come veri “archivi storici” delle singole comunità. Per illustrare questi aspetti mi soffermerò sulla situazione di Bologna relativamente agli scavi, agli studi, al Museo Civico e soprattutto ai protagonisti di questa straordinaria fase storica; e poi passerò a trattare un avvenimento che nonostante l’apparente carattere frivolo lasciò un segno nella storia della stessa città. Mi riferisco al Carnevale degli Etruschi del 1874 e al suo significato per così dire politico e culturale all’interno di questo periodo molto vivace per l’archeologia bolognese che corrisponde grosso modo al decennio compreso tra le inaugurazioni dei due Musei, cioè tra il 1871 e il 1881.
I protagonisti: G. Gozzadini, A. Zannoni, E. Brizio
Per questa breve premessa introduttiva credo sia utile rifarsi ai protagonisti e delinearne brevemente ruolo e posizione nel dibattito scientifico sulle scoperte di Bologna e in quello più generale sull’archeologia e sulla sua evoluzione come disciplina proprio a cavallo dell’unità nazionale.
A cominciare da Giovanni Gozzadini (1810-1887), personalità di primo piano della storia politica e culturale della città [Vitali 1984]. Liberale e convinto risorgimentalista fu in contatto con lo stesso Garibaldi come rivela una lettera del 1859 per una sottoscrizione relativa all’acquisto armi per la spedizione dei Mille. Fu nell’Assemblea delle Romagne (1859) che sotto la dittatura di Carlo Farini preparava il voto e l’annessione al Piemonte analogamente agli “Stati” di Modena, Parma e della Toscana e nel 1860 fu nominato Senatore del Regno. Fu più volte Consigliere Comunale e ricoprì numerose cariche cittadine.
Nella sua lunga militanza archeologica era spesso assistito dalla moglie Maria Teresa di Serego Alighieri che lo aiutava tra l’altro nei suoi studi craniologici e un po’ snobbisticamente diceva: «Io sono cultrice di rose, di cavoli e di insalata e non di scienze. Ho letto i libri di mio marito per poter parlare con lui e per non essergli di noia nella nostra vita solitaria».
Assieme alla moglie fu partecipe e animatore di un importante circolo culturale, privato e familiare, che era «il ritrovo dei migliori ingegni che vissero e visitarono Bologna». Tra gli archeologi si possono ricordare E. Bormann, G.C. Conestabile, E. Desor, G. Dennis, J. Evans, A. Fabretti, G. Gamurrini, O. Montelius, E. Schliemann, G. De Mortillet.
La sua impostazione culturale era di stampo enciclopedico con interessi verso il passato senza preclusioni di temi e di cronologia per cui i suoi lavori spaziavano dalla preistoria, all’antichità classica, al medioevo fino alla storia moderna. Era un atteggiamento che si legava ad un metodo di indagine filologico-antiquariale di chiara derivazione settecentesca e che lui mantenne praticamente invariato dalla metà del secolo fino alla morte (1887), nonostante le novità culturali e storiche che nel lungo arco della sua vita ebbe occasione di osservare.
Per cui dopo gli anni ’70 risultò una figura storicamente superata almeno sotto il profilo della sua produzione scientifica in campo archeologico. Fu lo scopritore di Villanova (1853-1855) e della cultura di Villanova che attribuì agli Etruschi più per non avere alternative che per autentica convinzione. Con una intuizione giusta che proprio per non essere derivata da un solido metodo si rivelò ben presto molto fragile. Al contrario della posizione di E. Brizio, sbagliata nel risultato e nelle conclusioni, ma solidissima sul piano del metodo, che proprio per questo durò quasi un secolo scavalcando le due guerre.
Dal 1862 Gozzadini fu impegnato anche nello scavo di Marzabotto nell’ambito di un accordo tra membri della nobiltà cittadina che lo avvicinò alla famiglia Aria e in particolare a Pompeo Aria. Nello scavo della città etrusca commise l’errore di interpretare come un enorme sepolcreto il vasto complesso urbano per il quale risulta davvero incomprensibile la sua ostinazione a voler classificare tutte le sue strutture come tombe, dai templi dell’acropoli, ai pozzi e alle case dell’area urbana fino alle tombe vere e proprie dei due sepolcreti. Tutto questo appartiene per l’appunto a quella fase della sua vita in cui cominciava sistematicamente a chiudersi alle novità sia sul piano del metodo che su quello dei contenuti.
In virtù del suo ruolo cittadino e della sua storia personale ebbe anche cariche istituzionali importanti: fu Presidente della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna; quando nel 1875 fu istituita la Direzione Generale degli Scavi e dei Musei ebbe l’incarico di Ispettore degli Scavi e dei Monumenti di Bologna e Provincia e quindi, dal 1877, fu Regio Commissario per i Musei e gli Scavi dell’Emilia e delle Marche. A livello cittadino, dal 1878 fu Direttore Generale del Nuovo Museo Civico mentre Brizio era direttore della Sezione Antica e Luigi Frati era direttore della Sezione Medievale. Da questo momento in poi furono moltissimi i contrasti che ebbe soprattutto con E. Brizio, ma anche con A. Zannoni, contrasti che però nulla più tolsero al fervore degli scavi, degli studi, e degli allestimenti museografici, costituendone al contrario quasi un incentivo.
Un altro protagonista di questa fase fu Antonio Zannoni [Morigi Govi 1984]. Ingegnere del Comune oltre che impegnato e diligente scavatore di molti sepolcreti (Certosa, Benacci, De Luca ecc.) e di molti settori dell’abitato etrusco (ricordo in particolare le capanne di via del Pratello e il deposito di S. Francesco). Si tratta di scoperte occasionate dai suoi molti lavori urbani che doveva seguire come ingegnere dell’Amministrazione Comunale. E semplificando un po’ si può dire che in tutti questi lavori archeologici ebbe e mantenne sempre un “atteggiamento da ingegnere”.
Lui stesso diceva: «io sono ben lungi da ogni presunzione di scienza: io sono un operaio, ecco i materiali che ho tolti dalla terra e che porto per un grande edifizio (edifizio della ricostruzione storica). Bisogna che alla costruzione di questo edificio concorrano i maestri tutti». Nella realtà era molto meno umile di quello che traspare da queste sue parole. Sul piano dello scavo mostrò sempre grande rigore nella descrizione e nella documentazione. Alla descrizione obiettiva e puntuale di quanto trovava si accompagna quasi sempre nei suoi lavori a stampa e nei suoi manoscritti, una documentazione molto preziosa fatta di piante e disegni. La stessa esposizione in Museo delle tombe strappate dallo scavo appartiene a questi suoi presupposti.
A tutto questo corrisponde però una grande fragilità sul piano del metodo e su quello delle interpretazioni storiche, cosa che non passò inosservato già ai suoi tempi. Alla inaugurazione del Museo del 1871, A. Zannoni lesse una relazione ampia, enfatica e piena di strafalcioni interpretativi. E qualcuno così commentò «…per l’amore grandissimo portato a questi scavi, Zannoni si vuole dare l’aria di un esperto archeologo. A dire il vero non lo è ancora», anche se, essendo nato nel 1833, nel 1871 aveva già quasi 40 anni. E altri aggiungevano che «…il tono magistrale che traspirava dal suo discorso dava un poco ai nervi degli scienziati illustri che lo ascoltavano».
Lo stesso Cappellini in una lettera personale al Gozzadini non mancò di osservare, in toni assai più severi: «riguardo all’Ing. Zannoni sarebbe tempo che certa genta si persuadesse che scavare od aggiustare qualche oggetto non vuole dire essere uomo di scienza. Gli operai belgi che hanno scavato nelle miniere ne sanno mille volte di più di Zannoni, ma non per questo pretendono di essere professori». E oggi possiamo ritenere un po’ esagerata l’insofferenza da parte del mondo della cultura e della scienza archeologica, specie universitaria, verso questo grande “operatore degli scavi” che sotto questo profilo ebbe molti meriti per avere scavato ed avere assai bene documentato tutti i principali sepolcreti di Bologna da quelli della Certosa (1869 e poi 1876-1884), al sepolcreto Tagliavini (1872); Benacci (1873-1876, con quasi 800 tombe); De Luca (1874-1876); Stradello della Certosa (1874). Senza contare i lavori prolungati nell’area dell’abitato ai quali dedicò ben due monografie.
A. Zannoni è sicuramente stato un grande protagonista di quel fervore archeologico cittadino nell’ambito del quale nacque l’iniziativa del Carnevale degli Etruschi, a cui lo stesso Zannoni partecipò con un ruolo attivo e importante, come vedremo tra poco.
Il terzo grande protagonista di questa stagione è stato Edoardo Brizio, nato nel 1843 a Torino da una famiglia di commercianti originaria di Bra e morto a Bologna nel 1907 [Sassatelli 1984a]. Fu allievo di Ariodante Fabretti, archeologo perugino, esiliato dalla Toscana e rifugiato in Piemonte per la sua convinta e antica fede risorgimentale. Il Fabretti fu professore a Modena e a Bologna di Antiche Lingue Italiche e di Dialettologia dell’Italia Moderna. Nel 1860 era di nuovo a Torino come professore universitario. Di se stesso amava sottolineare che non gli piaceva l’insegnamento che a suo dire trascurava un poco; mentre si sentiva molto più impegnato nella ricerca e all’interno di questa gli piaceva ricordare la sua grande impresa del Corpus Iscriptionum Italicarum pubblicato nel 1867.
Edoardo Brizio laureatosi con lui, fu allievo della I° Scuola Archeologica Italiana voluta dal Fiorelli nel 1866 come luogo della formazione dei giovani archeologi, perché nella nuova situazione politica italiana successiva all’unità raggiunta nel 1860 ci voleva una nuova archeologia italiana.
«L’Italia restituentesi a unità e dignità di nazione ricca di monumenti superbi…aveva bisogno di un’archeologia nostrale viva ed operosa…c’erano fino ad ora cultori vecchi e giovani dell’antico ma operanti isolatamente, disgregati gli uni dagli altri, dediti a ricerche eclettiche: vi era insomma smembrata e sparsa qua e là la dottrina dell’antichità, ma non v’era una scienza italiana di monumenti».
La Scuola fu subito intesa come punto di riferimento nazionale per l’archeologia e come luogo istituzionalmente deputato alla formazione degli archeologi da destinare agli scavi, alla tutela e anche all’insegnamento nelle Università dove era necessario un forte cambiamento, nella convinzione che solo con un radicale rinnovamento della disciplina e del suo insegnamento si poteva fare quel passo avanti decisivo che l’unità nazionale appena acquisita richiedeva.
Nel 1872 entrò nell’organico della Soprintendenza per gli Scavi e la Conservazione dei Monumenti della provincia di Roma come Segretario e in questa veste cominciò ad occuparsi di Etruschi dell’Etruria propria. Già un anno prima però, nel 1871, fu chiamato dal Fabretti a lavorare a Bologna e qui fece il Catalogo del primo Museo Civico Archeologico inaugurato in quell’anno e affidato per il progetto scientifico proprio al suo maestro di Torino. In questo suo primo “lavoro bolognese” il Brizio rivela una conoscenza ancora superficiale dei materiali di Bologna e molta inesperienza nell’affrontare argomenti di archeologia italica. Solo cinque anni dopo, nel 1876 vince la Cattedra di Archeologia e Numismatica all’Università di Bologna dove Francesco Rocchi morto un anno prima aveva lasciato quel posto. Vinse questa cattedra a poco più di 30 anni ed ebbe grandi ostilità da parte della “vecchia archeologia” sia bolognese che nazionale (Gozzadini e Conestabile in particolare). Si diceva allora che a Bologna erano arrivati «neo-archeologi gonfi di presunzione e di ciarle e vuoti d’ogni scienza i quali si impancano a giudicare chi ha consumato la vita nelle ricerche, nelle osservazioni e nello studio profondo. Al tempo dei sacrifici umani si sarebbe immolata una dozzina di questi archeologini ai Mani del Conestabile…».
Rispetto a queste ostilità da parte dell’ambiente bolognese lo stesso Brizio replicava un po’ seccato: «Se io non sono nato a Bologna non ci ho proprio nessuna colpa». Il suo arrivo a Bologna si inserisce in un quadro di profondo rinnovamento dell’archeologia italiana post-unitaria, voluto e perseguito dal Governo con grande determinazione anche mandando i “giovani professori” come il Brizio, nelle principali Università italiane con il compito molto preciso ed esplicito di “rinnovare” l’archeologia nazionale e di educare i giovani a queste novità.
All’interno di questo quadro nazionale Brizio copre una posizione di assoluto rilievo, sia per quanto riguarda l’archeologia bolognese che per quanto riguarda, più in generale, l’archeologia italiana. E questo suo ruolo profondamente innovatore si manifesta sia relativamente allo scavo e alle funzioni di tutela che relativamente alla ricerca e alla formazione in ambito universitario, acquisendo ben presto i connotati di un autentico e profondo ricambio generazionale.
L’archeologia classica fino a Francesco Rocchi, suo predecessore, si configurava essenzialmente come insegnamento delle istituzioni pubbliche e private di età romana, ed era di fatto intesa come scienza delle istituzioni e come epigrafia integrata dalla numismatica, cioè «una scienza di mera e greve erudizione antiquaria» secondo una felice definizione di Pericle Ducati.
E in questo quadro Brizio cominciò ad insegnare la storia dell’arte classica, del suo sviluppo formale, delle sue individualità artistiche, secondo un metodo che aveva appreso a Roma e che fino ad allora era stato patrimonio della scuola tedesca. E anche questo importante ruolo di tramite tra l’archeologia tedesca e la nuova archeologia italiana è uno dei grandi meriti di E. Brizio.
Solo con una archeologia intesa come storia dell’arte si poteva superare l’erudizione antiquaria di tradizione settecentesca. Sono illuminanti da questo punto di vista gli appunti delle sue lezioni e dei suoi corsi tutti conservati nella Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. Su 31 corsi tenuti solo 5 furono dedicati “all’archeologia italica” che invece tanto lo impegnava sul fronte della ricerca e degli scavi; mentre tutti gli altri sono dedicati ai grandi artisti della Grecia arcaica e classica come Fidia, Policleto, Prassitele, Lisippo; o ai grandi complessi monumentali come quelli di Olimpia e di Egina. Era solo attraverso questo tipo di insegnamento che si poteva cominciare ad innovare l’archeologia italiana, formando i giovani che poi avrebbero fatto questa professione anche sul versante della tutela.
L’altro fronte di grande rinnovamento nel quale Brizio fu impegnato fu quello “dell’archeologia italica”. La sua prolusione universitaria letta il 18 novembre del 1876 e pubblicata a puntate ne «La Perseveranza» del 1877, un modesto quotidiano milanese, aveva come tema Gli Umbri nella Regione Circumpadana. Ed in questa prolusione noi troviamo il primo vero tentativo di ricostruzione storica nella quale si cerca di “combinare” le notizie della tradizione storica con le testimonianze archeologiche, adottando uno straordinario metodo innovativo che secondo lo stesso Brizio doveva servire a togliere “dall’anonimato storico” la documentazione archeologica risollevandola dall’ambito della pura sequenza stratigrafica che di fatto l’avvicinava alla geologia. Non bastava individuare le culture antiche e porle in successione cronologica sulla base dei materiali e della loro giacitura, ma bisognava anche dar loro un nome ricorrendo agli storici antichi. Non farlo significava restare nell’ambito della geologia, per quanto riguarda la stratigrafia, o in quello di una tipologia, fine a se stessa e di tipo antiquariale, per quanto riguarda lo studio dei materiali. «Non basta dire sono Umbri, sono Etruschi, sono Pelasgi. Lo saranno. Ma bisogna provarlo. La scienza vuole dimostrazioni nette». Così si esprimeva lo stesso Brizio nella citata prolusione del 1876.
Per la sequenza dei materiali Brizio usò gli strumenti di cui allora disponeva che comunque gli consentivano di individuare almeno 5 grandi sequenza cronologiche: la preistoria, la fase villanoviana, la fase “felsinea”, la fase gallica e la fase romana. Relativamente alla tradizione storica mise in sequenza le seguenti popolazioni: Liguri, Umbri, Etruschi, Celti, Romani. Giosuè Carducci suo grande amico e collega universitario [Rossi 2009] mise addirittura in verso questa sequenza nell’ode Fuori alla Certosa di Bologna: «dormon a’ pie’ qui del colle gli avi Umbri..., gli Etruschi discesi col lituo... i grandi Celti rossastri... l’alta stirpe di Roma».
Alla solidità del metodo corrispose come è ben noto un errore nel risultato dovuto essenzialmente a due ragioni: la prima, di ordine per così dire interno e tecnico, fu quella di considerare in modo troppo meccanico la sequenza dei popoli formata dalla tradizione storica come se tutti i popoli ricordati fossero interessati, in modo geograficamente paritetico all’intero territorio della Regione, ivi compresi gli Umbri che come ben sappiamo furono presenti solo in aree montane e orientali senza mai toccare l’area centrale di Bologna e del suo territorio. Da questo punto di vista sarebbe bastato sfilare gli Umbri dalla sequenza dei popoli della tradizione storica ed attribuire all’unico popolo veramente presente a Bologna, cioè gli Etruschi, sia la fase villanoviana che quella felsinea.
La seconda ragione di questo errore dipende oggettivamente dalla situazione degli studi in qualche modo schiacciata dalla grande diversità “culturale” tra fase villanoviana e fase felsinea per cui era più semplice ipotizzare una successione etnica piuttosto che pensare ad un radicale mutamento dell’assetto culturale complessivo in presenza di una continuità etnica. Per fare questo passaggio mancava a Brizio, come a molti degli studiosi che vennero dopo di lui, l’elemento decisivo della documentazione epigrafica dalla quale risulta ora in modo inequivocabile che si parlava e si scriveva in etrusco sia nella fase villanoviana che nella fase felsinea. Nonostante questo errore, la sua teoria fu molto più duratura di quella di Gozzadini, che era fragile nel metodo, anche se esatta nel risultato.
Relativamente al radicamento di discipline nuove all’interno dell’insegnamento universitario, nell’ambito del progetto di rinnovamento nazionale al quale si è fatto cenno, va sottolineata un’altra importante iniziativa del Brizio. La sequenza storica da lui individuata per Bologna e cioè, esclusa la preistoria, la successione di Umbri, Etruschi e Galli, si tradusse, sia pure soltanto nell’anno accademico 1907-1908, cioè 30 anni dopo la sua prolusione universitaria, in un insegnamento universitario che si intitolava “Antichità umbro-etrusco-galliche”. Credo si possa affermare che questo è il primo insegnamento di Etruscologia impartito in una Università italiana, anche se poi sappiamo che non ebbe lunga vita. Nel maggio del 1907 Brizio morì e già allora l’accademia soffriva del grande male di personalizzare iniziative e proposte con il risultato di renderle fragili non appena scompariva il proponente anche se per alcuni anni questo insegnamento fu tenuto dal suo successore Gherardo Ghirardini.
Sul piano metodologico comunque alla base di tutto questo sta l’importante convinzione che «le antichità preistoriche si possono e si debbono studiare in rapporto con quelle classiche e con la storia».
La solidità della sua posizione metodologica e la coerenza della griglia ricostruttiva degli ethne e delle facies culturali bolognesi si inquadrano molto bene nel contesto dell’unità nazionale appena conseguita e nelle politiche culturali del paese unificato, fortemente sollecitato verso la ricerca e la conoscenza della propria storia più lontana e delle proprie radici più remote.
Credo si possa dire che tutta la classe intellettuale del tempo, con il pieno sostegno della classe politica, si impegnò su questo progetto con l’intento di dimostrare ai cittadini italiani e a quelli europei il glorioso e multiforme passato della neonata formazione statale. Il popolo italiano non era un popolo nuovo, ma aveva una storia e una civiltà di tutto rispetto che, come si poteva ben vedere attraverso l’archeologia, si intrecciava profondamente con la tradizione storica degli antichi popoli italici.
Questa novità elaborata dal Brizio nelle sue ricerche e anche nella sua attività formativa si riverberano immediatamente anche sulle sue attività di scavo. In modo particolare a Bologna, per quanto riguarda il completamento delle esplorazioni nell’area delle necropoli; e poi anche e soprattutto nella città etrusca di Marzabotto dove Brizio inaugurò un nuovo modo di scavare molto diverso da quello di Gozzadini sotto diversi punti di vista. In primo luogo da un punto di vista archeologico perché si tratta ora di uno scavo “governativo”; non più uno scavo “privato” sulla base di accordi più o meno personali. E poi perché finalmente dopo gli errori del Gozzadini lo scavo viene impostato in modo corretto per mettere in luce la planimetria della città in tutti i suoi principali capisaldi (Strade, isolati, case, necropoli e acropoli).
Il Museo Civico e il dibattito fra “archeologia preistorica” e “archeologia biblica”
La solida ricostruzione storica di E. Brizio si riverbererà anche nei progetti museali di Bologna, sia quello relativo al Museo del 1871; sia quello relativo al Museo del 1881.
Il Museo del 1871 era stato occasionato dalla donazione al Comune della Collezione Palagi e dallo scavo del sepolcreto Certosa e oltre che di altri piccoli sepolcreti ad opera sempre di A. Zannoni.
Il giovane Brizio era ancora un po’ inesperto, ma Fabretti, designato da Carlo Farini, lo chiamò a collaborare al museo del 1871, all’interno del quale si decise di dedicare agli scavi bolognesi ben due sale, anche sacrificando l’esposizione dei materiali medievali e moderni e di quelli della Collezione Palagi. E già questa è una scelta importante dietro la quale si palesa un grande interesse per l’archeologia “locale” e “italica”.
Il Museo fu inaugurato in occasione del V Congresso di Antropologia e Archeologia Preistoriche, tenutosi a Bologna proprio nel 1871.
Il Congresso doveva tenersi nel 1870, ma la Guerra franco-prussiana ne causò l’inevitabile rinvio all’anno dopo quando il Congresso fu realizzato sotto la Presidenza di G. Gozzadini e con Cappellini segretario.
Il Congresso fu un evento molto importante da tanti punti di vista. In particolare sul piano politico, per la protezione che la Casa Reale dei Savoia, simbolo dell’unità nazionale appena raggiunta, diede apertamente a questa iniziativa. Anche perché in quella circostanza si affermò la “scienza nuova”, il pensiero laico ed evoluzionistico dell’archeologia preistorica che si contrapponeva al “pensiero vecchio”, legato all’oscurantismo clericale, in cui si identificavano il passato e le eredità dello Stato Pontificio appena sconfitto dai Savoia.
La protezione della Casa Reale ebbe quindi un significato molto preciso sul piano politico e culturale perché il legame tra “scienza” e “politica” in un paese da poco tempo divenuto “libero” e “unificato”, veniva correttamente impostato anche perché si dava il segnale importante che in tale paese c’era spazio per pensiero scientifico laico in sintonia con la politica del governo e contro un certo oscurantismo del clero sempre incombente.
Anche nella stampa cittadina fu dato grande spazio allo scontro ideologico tra i sostenitori dell’archeologia preistorica, evoluzionistica e laica, la “scienza nuova” appunto, e quelli della “vecchia scienza” a cui corrispondeva l’archeologia biblica di Adamo e di Mosè, un’archeologia per così dire “confessionale” che di fatto si identificava con il partito dei cattolici sopravvissuto alla fine dello Stato Pontificio.
Il dibattito scientifico fu aspro e polemico anche perché era ulteriormente inasprito dalle teorie evoluzionistiche di Darwin. Si faceva così strada una fiducia tutta positivista a demandare agli studi naturalistici e in particolare all’antropologia fisica e alla craniologia la soluzione di intricate questioni storiche e archeologiche come quella della identificazione etnica delle civiltà preistoriche e protostoriche, in particolare quelle riferibili alle fasi “senza scrittura”.
Si trattava di un problema molto delicato all’interno del quale va notato che alla fiducia degli archeologi sul fatto che potessero essere i naturalisti a risolverlo sulla base degli studi di antropologia fisica, e in particolare dei crani, si contrapponeva un grande scetticismo degli stessi “naturalisti” e degli scienziati i quali ritenevano invece che le loro discipline non fossero in grado di risolvere la questione e che su di esso potessero dire molto di più proprio gli archeologi. Molto significativo a questo riguardo una fitta corrispondenza tra l’archeologo G. Gozzadini e l’antropologo Luigi Calori. Il primo scriveva al secondo chiedendo lumi sui suoi crani di Marzabotto e aspettandosi da lui una risposta definitiva sull'ethnos a cui tali crani dovevano appartenere. E il secondo gli rispondeva in modo molto pacato, ma anche fermo, che non doveva aspettarsi nulla dalla craniologia e che molto di più avrebbe potuto ricavare dallo studio attento e analitico dei materiali archeologici.
Enorme fu l’importanza del Congresso di Bologna rispetto al dibattito scientifico “italiano” che in questo modo si internazionalizzava collegando quello che si stava elaborando a Bologna con quanto si stava facendo in Europa, sia nelle Università che nelle Accademie.
Il “Carnevale degli Etruschi”
Questo è il quadro dell’archeologia bolognese, oltre che del dibattito scientifico e delle questioni politiche ad esse correlate tra 1871 e 1881. Avendo ben presente questo quadro credo si possa comprendere meglio motivazioni e significato del “Carnevale degli Etruschi” realizzato a Bologna nell’inverno del 1874 [Sassatelli 1984b].
Il fervore delle scoperte, l’animosità del dibattito scientifico e anche i risvolti sul piano politico sia locale che nazionale, avevano sempre avuto grande eco sui giornali cittadini nei quali quotidianamente si trovavano notizie su scoperte e scavi eseguiti in città, riferimenti al dibattito scientifico che ne sortiva, e anche molto spazio alle polemiche politiche con posizioni evidentemente molto diverse da parte dei giornali cattolici da un lato e dei giornali liberali e laici dall’altro. Il dibattito politico-ideologico fra cattolici e liberali, molto acceso dato il periodo, non risparmiò nemmeno l’archeologia cittadina e le sue scoperte oltre che gli studi sulle più antiche fasi di vita della città.
Nel 1871 Bologna aveva inaugurato il suo primo Museo, mentre a Villanova Gozzadini custodiva i materiali del sepolcreto da lui stesso scavato e a Marzabotto Pompeo Aria stava progettando un Museo nel quale ospitare i materiali portati alla luce dagli scavi Gozzadini.
Tra l’altro proprio nel 1873 a Bologna ci fu una ripresa del dibattito sul Museo relativamente al problema edilizio e al problema culturale, con particolare riguardo alla delicata questione della unificazione di tutti i Musei di cui la città già allora disponeva, e cioè i Musei Universitari e la collezione Palagi, da poco donata al Comune.
In questo momento così ricco sul piano delle scoperte, così vivace sul piano del dibattito scientifico e politico e così attento sul piano museografico si inserisce il Carnevale cittadino del 1874.
Il Carnevale cittadino era una manifestazione annuale, programmata e gestita da una apposita associazione, la “Società del Carnevale” che si chiamava anche “Società del dottor Balanzone”, la maschera bolognese per eccellenza che impersonava il medico legato all’antico Studio Bolognese. Della Società facevano parte i cittadini più illustri, dal pittore Luigi Busi (quello che poi nel 1881 decorerà il Salone X del Museo con la galleria della “pittura etrusca”), al Conte Augusto Salina, al Conte Pompeo Aria di Marzabotto. Ogni anno veniva scelto un tema attorno al quale organizzare il Carnevale e la relativa sfilata attraverso la città. Nel 1869 il Carnevale aveva avuto per tema le streghe di Benevento e il pezzo forte della sfilata fu una grande danza attorno ad un albero di noce.
Nei primi anni ’70 però ci fu una crisi per questa iniziativa, poco seguita e poco sostenuta dalla città. Ci si rese conto quindi che bisognava rilanciarla sostituendo «ai corsi mascherati che negli anni precedenti fecero cattiva prova, un nuovo, originale, straordinario trattenimento e cioè una gigantesca mascherata di mille persone circa, le quali, fingendo resuscitati gli Etruschi in pieno secolo decimonono, presenteranno colla maggiore esattezza possibile i costumi, la religione, le arti, la milizia di quel popolo antichissimo». Questo era quanto si proponeva di fare la Società del Carnevale. Ed è interessante sottolineare un primo punto, e cioè la necessità e l’opportunità di rilanciare il Carnevale sfruttando la popolarità degli Etruschi a livello cittadino. Era un popolarità che derivava dagli scavi e dall’eco che tali scavi avevano sui giornali dato che ogni giorno dopo il 1870 c’era su di essi, sia quelli clericali che quelli liberali, almeno una notizia sulle scoperte bolognesi, soprattutto quelle che riguardavano gli Etruschi.
Altro punto interessante riguarda il taglio che si intese dare all’iniziativa concependola come l’arrivo in città degli Etruschi richiamati in vita con un atto di magia, proprio come Antonio Zannoni amava dire di avere fatto con i suoi scavi della Certosa: «dorme nel sonno di venti e più secoli gente che qui in Felsina s’ebbe vita e civiltà; io l’ho desta, io l’ho tolta dal lungo e quietissimo asilo; eccola tra noi tornata…».
Proprio come gli Etruschi del corteo carnevalesco che il Dottor Balanzone, re del Carnevale, sarebbe andato ad accogliere con tutti gli onori ad una porta cittadina (porta S. Stefano), per poi guidarli nel cuore della città, che un tempo fu loro dimora, fino al Parco della Montagnola dove ci sarebbe stata una grandiosa rappresentazione teatrale conclusiva.
Molto interessante anche la fase di preparazione del Carnevale sulla quale i giornali cittadini si dilungano, spesso con dettagli divertenti, informandoci che si andava alla biblioteca per studiare i costumi; che il Museo Civico veniva visitato più volte allo stesso scopo; che la Società del Balanzone fece fare studi e disegni di materiali etruschi conservati anche in altri Musei oltre a quello di Bologna; che si mise in programma il ricorso ai principali testi di archeologia del momento come le pubblicazioni dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica (in particolare i Monumenti dell’Istituto) o i cataloghi dei Musei (in particolare il museo Etrusco Gregoriano, il primo e unico vero “Museo degli Etruschi” allora esistente).
Un altro aspetto molto interessante dell’iniziativa è la consapevolezza di un obiettivo didascalico molto chiaro che gli stessi organizzatori si proponevano. Si voleva infatti «... mettere in pratica l’utile dulci, dilettando ed istruendo...» per cui «più che una mascherata doveva essere una fedele riproduzione degli usi, costumi, abiti, milizia e religione etrusca» proprio come lo studio analitico dei loro monumenti consentiva di fare.
Altro punto molto importante era il fatto che non si trattava di Etruschi in generale, ma degli Etruschi di Bologna immediatamente percepiti come gli antenati dei bolognesi del tempo.
La Giunta Municipale decise così una apertura straordinaria del Museo nei due giorni del Carnevale affinché ognuno potesse rendersi conto, visitando il Museo, della fedeltà dei costumi che vestivano e degli attrezzi che brandivano le persone mascherate da Etruschi nella sfilata carnevalesca.
Sulla base di questo chiaro, esplicito ed insistito intendimento pedagogico, il Carnevale fu immediatamente percepito come una occasione per capire e conoscere la storia della città, e in particolare della prima e più antica città che fu proprio quella fondata dagli Etruschi.
Credo sia legittima a questo punto l’ipotesi di una diretta partecipazione degli archeologi nella ricostruzione della sfilata in riferimento ai costumi, ai personaggi e agli utensili variamente rappresentati sui carri e nel corteo.
La ricostruzione fu molto precisa sul piano filologico e molto raffinata nelle scelte tematiche. Zannoni sicuramente ne fu un protagonista. Ma molto probabilmente anche Gozzadini che tra l’altro mise a disposizione non solo i materiali della sua collezione archeologica (scavi di Villanova), ma anche i libri della sua biblioteca.
Gozzadini al termine dell’iniziativa ringraziò la Società del Carnevale per l’invio di alcune foto, giudicando l’iniziativa un «ricordo eloquente di genti antiche ottimamente ravvivate». Anche se subito dopo si scherniva dicendo «ho fatto ben poco»; ma già dicendo questo voleva dire che almeno qualcosa aveva fatto, credo proprio partecipando all’organizzazione della sfilata e mettendo a disposizione le sue competenze. A Emilio Roncaglia, modesto commediografo bolognese, amico del Carducci e frequentatore con lui della libreria Zanichelli, fu affidato il compito di comporre un poemetto dedicato al Carnevale. E lui scrisse Balanzoneide - Descrizione dell’ingresso degli Etruschi in Bologna e della grande festa alla Montagnola nel Carnevale dell’anno 1874 ‑ una modesta composizione in versi che non sembra avere avuto molto successo.
Anacleto Guadagnini, acquerellista e incisore di buon livello, ebbe invece l’incarico di eseguire il disegno completo della mascherata (vedi fig. 2), disegno che poi fu stampato in litografia e diffuso in tutta Italia prima della sfilata per pubblicizzare l’Iniziativa.
Lo scopo era quello di richiamare gente da fuori, da altre città, anche lontane, presentandola come evento nazionale.
La stessa litografia fu distribuita agli spettatori per facilitare la comprensione della sfilata essendo un'illustrazione completa e fedele della stessa e dei suoi personaggi. Per identificare i carri, le divinità, i temi, i singoli protagonisti e i gruppi di maschere il pubblico poteva fare riferimento a questa incisione del Guadagnini che conteneva in basso una semplice didascalia di ciò che era illustrato.
Alcune fotografie dell’epoca ci garantiscono della relativa fedeltà del disegno stampato nella lunga litografia rispetto alla sfilata vera e propria e ai suoi protagonisti (vedi fig. 3 e 4).
Il Corteo prevedeva che all’inizio ci fossero alcune maschere bolognesi come Narciso, Fagiolino, Tabarrino e ovviamente Balanzone, capo di tutte le maschere di Bologna e capo anche del Carnevale. E poi una serie di maschere rappresentative delle maschere nazionali (un ulteriore e significativo omaggio all’unità d’Italia da poco conseguita) come Cassandrino, Arlecchino, Gianduia, Pulcinella, Meneghino e Stenterello. A tutto questo seguiva la parte del corteo dedicata agli Etruschi, così costituita nell’ordine che compare nella litografia del Guadagnini: carro di spiritisti e magnetizzatori, un riferimento alle scienze occulte usate per richiamare in vita “l’antico popolo di Felsina”; carro dei preistorici raffigurati come scimmie (fig. 5), con una allusione al dibattito su preistoria ed evoluzionismo darwiniano (sappiamo bene ad esempio che Cappellini era guardato con sospetto per la sua adesione a tali teorie e invitava il Gozzadini in questo modo «… venga da noi … qui non si balla ma si ciarla, essendo questo il mestiere dei professori. Invece di andare all’Africana [opera in programma al Comunale Teatro] sbagli strada e venga a trovare gli avvocati delle scimmie», preistorici come lui);
e poi il corteo vero e proprio degli Etruschi composto da guerrieri, musicanti, danzatori, magistrato, dignitario, comandante, nobili, littori, Lucumone con moglie in quadriga (fig. 6), trombettieri e guerrieri, 4 carri di divinità (Tinia, Menrva (fig. 7), Sethlans, Fufluns (fig. 8)), baccanti, comandante e guerrieri, popolo, comandante e arcieri, muli con bagagli.
Per ogni gruppo del corteo e in particolare per i carri delle divinità, oltre che per i singoli personaggi è stato possibile individuare le diverse fonti d’ispirazione che furono da un lato i cataloghi dei grandi musei etruschi del tempo (in particolare il Museo Etrusco-Gregoriano di Roma) e dall’altro i materiali etruschi di Bologna appena scavati ed esposti nel Museo Civico archeologico della città.
Nel complesso risulta abbastanza chiaro il ricorso prevalente a monumenti con cortei o processioni come, ad esempio, i sarcofagi o la situla della Certosa di Bologna che forse ispirò l’idea stessa della sfilata carnevalesca, intesa come rappresentazione dei vari aspetti di vita dell'antico popolo di Felsina. Si può notare inoltre che alcune tombe dipinte tarquiniesi prese a modello per il corteo (Tomba del Triclinio, Tomba del Colle, Tomba della Scimmia, Tomba Golini II) sono le stesse che alcuni anni dopo il carnevale furono riprodotte nel Salone X del Museo Civico nella “galleria della pittura etrusca”. Erano evidentemente già sentiti come i monumenti più rappresentativi di quell’etruscità tirrenica che si tentò di far rivivere col carnevale e che più tardi, con ben altri intenti, si volle rappresentare nel ciclo degli affreschi del Museo per sottolinearne i legami con Bologna.
Dietro gli Etruschi, a concludere la sfilata, ancora i “Balanzonici”, o gruppo di maschere bolognesi.
Attraversata tutta la città e arrivati alla Montagnola, dove era stato allestito un grandioso scenario di cartapesta che raffigurava un castello (vedi fig. 9), si dette inizio alla rappresentazione prevista dal programma, nonostante il freddo di quella giornata senza sole.
Dapprima si ebbe una esibizione a cavallo dei “Balanzonici” che fece ammutolire gli Etruschi. Poi una gara di danza per dimostrare che anche in questo campo i “Balanzonici” erano migliori degli Etruschi. Il Lucumone accettò la sfida e al “ballabile balanzonico” seguì un “ballabile etrusco”. A questo punto i “Balanzonici”, invaghiti delle Etrusche con cui avevano danzato, decisero di rapirle, come avevano fatto i Latini con le vergini sabine, peraltro assecondati in questo loro disegno dalle stesse rapite. Gli Etruschi adirati si apprestavano a combattere.
Vista la mala parata dei propri uomini, atterriti dai colpi a salve fatti furbescamente esplodere da Balanzone, le donne degli Etruschi, in preda alla paura e al rimorso, corrono sul campo e riportano la pace fra le due schiere. Ma intanto la giornata volgeva al tramonto e la festa era finita. Sotto gli occhi sbigottiti dei “Balanzonici” gli antichi abitatori di Bologna abbandonarono la città, lasciando sul campo le loro armi e i loro arnesi, unica traccia del loro passaggio, proprio come era accaduto ai tempo di Felsina quando lasciarono in questa città tante testimonianze della loro vita che poi gli archeologi portarono alla luce con i loro scavi.
I giornali dettero grande spazio all’avvenimento, anche con qualche notazione spiritosa, specie quelli umoristici.
Tutti sottolinearono in primo luogo che ci fu un aumento straordinario dei visitatori al Museo rimarcando il fatto che il primo obiettivo dell’iniziativa, quello cioè di informare i cittadini sulla storia più antica della città e sui materiali archeologici conservati al Museo, era stato pienamente raggiunto.
Non mancarono notazioni antisocialiste da parte dei giornali clericali. «L’Ancora» ad esempio durante la fase preparatoria scrisse che «del corteo avrebbero fatto parte tutte le diverse classi sociali… perché anche allora esisteva il dislivello sociale tanto aborrito dalla Internazionale». Insomma non si perdette l’occasione di leggere il corteo in chiave interclassista ed esso veniva inteso quasi come prova incontestabile del fatto che in ogni società da sempre esistevano ricchi e poveri.
Divertente anche il gioco di parole sul nome degli Etruschi dove con una arbitraria separazione delle due lettere iniziali si arrivava a un “Et-ruschi” con isolamento della parola “ruschi/rusco” che in dialetto bolognese significa “spazzatura”, con l’intendimento non esplicito, ma abbastanza chiaro di equiparare gli stessi resti archeologici che avevano rivelato questo popolo ad una ‘spazzatura’, sia pure dai nobili connotati. Sempre sulla scia di questo gioco di parole si arrivò a coniare in quella circostanza un detto che poi si è radicato nel dialetto bolognese: ampèr un Etròssc (mi sembra un Etrusco) per indicare chi è sporco in viso, con probabile allusione agli Etruschi della sfilata carnevalesca che per accentuare i loro caratteri esotici si erano tinti il volto.
Molti giornali si dilungarono anche sul problema della lingua, chiedendosi, in anticipo sulla sfilata, come avrebbero fatto i bolognesi a capire i loro avi, non conoscendo la lingua etrusca.
Qualche giornale umoristico si soffermava sul fatto che gli Etruschi si sarebbero fermati ad ogni osteria a bere, con un riferimento un po’ superficiale all’idea degli Etruschi sempre a banchetto e molto attirati dal vino. E i bolognesi del tempo, cioè i “Balanzonici”, avrebbero avuto qualche problema per farli rientrare nel corteo proprio perché non ne conoscevano la lingua, che del resto era evocata nel corteo visto che i carri delle divinità recavano il nome, in etrusco, degli dei che trasportavano.
Sempre dai giornali umoristici fu fatta anche qualche considerazione un po’ più seria sulle caratteristiche della sfilata e su come venne percepita dalla folla.
Fu notata e sottolineata la grande somiglianza degli Etruschi antichi e soprattutto dei loro illustri personaggi (magistrati, comandanti, ecc.) coi moderni ortolani, facchini, salsamentari e operai. I giornali scrivevano che l’augusta moglie del Lucumone assomigliava alla nota fioraia del Caffè delle Scienze; che le danzatrici erano tremanti per il freddo; che i guerrieri con fare poco solenne e militaresco si fermavano a raccogliere mozziconi di sigari e per difendersi dal freddo si coprivano con “capparelle” (mantelle) niente affatto etrusche; e infine che i nobili erano salutati dagli spettatori in modo molto confidenziale con frasi del tipo «addio Pirula! at salut Baffiètt!» tanto da ritenerli modesti abitatori dei bassi rioni della città.
E a tutto questo seguiva un commento molto acuto: «si fece troppo a fidanza sugli Etruschi e mancò quello che doveva accalorare il pubblico … mancò l’illusione in quel corteo che era visto troppo da vicino dagli spettatori». Il fascino del tutto immaginario che gli Etruschi esercitavano attraverso le testimonianze archeologiche esposte nei Musei sembrava svanito in quei personaggi reali che avevano percorso le strade della città e che li avevano impersonati.
Il Risorgimento e il binomio moderni-antichi
La manifestazione ebbe comunque un significato molto importante sul piano storico generale e all’interno della politica risorgimentale del tempo.
Essa fu tutta impostata sul binomio tra “noi” (moderni) e “loro” (gli antichi antenati etruschi) i quali furono accolti alla barriera di S. Stefano, furono guidati dai moderni cittadini, cioè dai “Balanzonici”, nella città del loro tempo fino al parco della Montagnola dove ci fu lo spettacolo conclusivo. Questo rimando continuo tra “noi” e “loro” fu una costante del corteo attraverso la città e anche della rappresentazione finale.
Nel poemetto di Roncaglia viene descritta con molti dettagli una gara a cavallo nel corso della quale l’etrusco in gara esclama «la vostra età mette la nostra in sacco». E nella gara di ballo sempre descritta in versi dal Roncaglia si verifica la stessa cosa: «e anche nella danza il tempo nostro il vostro antico avanza». Insomma traspare l’idea di una superiorità dei “moderni” rispetto agli “antichi”, almeno per il ballo e per l’abilità nel cavalcare. Ma da questo punto di vista le cose più interessanti emergono dai commenti sempre dovuti al poemetto di Roncaglia durante l’attraversamento della città. Nel giro attraverso la città gli Etruschi infatti si erano molto meravigliati dall’aspetto attuale della città e ne avevano ammirato le sue meraviglie, dai colli e dal paesaggio circostante al cambiamento dei vestiti.
Li spaventò un poco il «foco» del treno che ai loro occhi sembrava volare, dove fa la sua comparsa l’idea tutta carducciana (se solo si pensa all’Inno a Satana) del treno come segno del progresso. Ma soprattutto gli Etruschi sono ammirati dello straordinario progresso che la “loro” città aveva fatto sia sul piano artistico e culturale, che su quello sociale e civile.
Durante il corteo Balanzone ribadisce più volte di essere orgoglioso di avere avuto simili antenati, così antichi, così importanti, così progrediti nella loro civiltà e nella loro storia. Ma è anche pienamente consapevole di quanti progressi abbia fatto da allora la città di Bologna e mostra agli antenati Etruschi i segni di questo progresso, che lui chiama «le felsinee meraviglie». In primo luogo le Due Torri; e poi il Pubblico Giardino; La Galleria d’Arte Moderna e il Politeama; l’Acquedotto e il Bagno Pubblico; il Mercato Coperto. Sono tutti segni inconfondibili di un progresso culturale, sociale e civile. Qui c’è tutto l’orgoglio di una città moderna e progredita che è fiera di avere un passato illustre, ma che è altrettanto orgogliosa di avere fatto e di continuare a fare progressi su tutti i fronti. Il passato, conosciuto e recuperato con gli scavi e con il Museo, non spinge a consolatori e sterili elogi di un tempo quasi idealizzato; ma diviene spinta e molla per il progresso civile. Credo non ci sia nulla di più autenticamente risorgimentale di questo atteggiamento.
É un momento felice, straordinariamente dinamico sul piano storico e culturale, un momento nel quale la conoscenza del passato viene perseguita con grande impegno proprio perché da essa vengono stimoli importanti per il futuro e per il progresso della città, su tutti i fronti. All’entusiasmo cittadino per le scoperte archeologiche si affianca la fiducia tutta risorgimentale nel progresso della nazione appena unificata. Il passato svelato dall’archeologia non porta ad atteggiamenti nostalgici; ma è stimolo per la crescita culturale e per il progresso civile. É un momento che non si ripeterà mai più. E infatti molti anni dopo, sulla scia di questo grande successo, capitava ancora di vedere «qualche randaggio guerriero etrusco andare tra la folla dei veglioni di Carnevale». Ma i tempi erano cambiati, molto cambiati. E questo «randaggio guerriero etrusco» faceva tristezza.
«A quest’ultimo Lucumone, come superstite smarritosi in tempi nuovi non restava che abbandonarsi su una sedia e bevendo una sbiadita menta al seltz esalare tra un sorso e l’altro la sua antica malinconia». É una notazione che si riferisce già ai primi del ‘900. La fase risorgimentale così grandiosa nei suoi entusiasmi per il passato e nelle sue spinte per il progresso è ormai molto lontana e dimenticata. É iniziata una nuova fase che prefigura decenni assai più sterili e pericolosi sia sul piano culturale e scientifico che su quello storico.
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Note
[1] Per la storia delle scoperte e per la formazione del Museo Civico Archeologico cfr. Morigi Govi C., Sassatelli G. (ed.) 1984; in questo Catalogo si possono trovare le notizie principali sugli scavi e sulle vicende costitutive del Museo Civico Archeologico. Per un aggiornamento su questi stessi temi si veda anche Morigi Govi C., Sassatelli G., Vitali D. 2001.