Se guardiamo oggi alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unificazione statuale italiana che si stanno preparando per il 2011 troviamo una conferma del celebre verso di Mark Strand: “il futuro non è più quello di una volta”.
Chi si trovò nella nostra posizione un secolo fa o mezzo secolo fa aveva davanti un futuro: noi sappiamo che quel loro futuro era gravido di incertezze, speranze, tragedie. Ma a loro appariva piuttosto roseo e ben collegabile all’oggetto della festa.
Il cinquantenario del 1911: "il futuro di una volta"
Se torniamo al futuro d’una volta, a quel 1909 che come noi oggi vedeva sopraggiungere le celebrazioni della unificazione dello Stato, cinquanta anni dopo il compiersi della epopea risorgimentale, ci rendiamo conto che tutti sapevano cosa stava per accadere e perché.
Tutto si apprestava a celebrare un giubileo proprio all’interno di un tripudio generale: il regno che grazie alla spinta risorgimentale aveva saputo dotarsi di ventuno milioni di sudditi; la “religione della libertà” che aveva strappato Roma al papa; la classe dirigente che aveva cercato di stendere la corta coperta della pubblica amministrazione sabauda sullo stivale, lasciandone scoperta tutta la parte meridionale.
In quell’anno 1909 fervevano a piazza Venezia in Roma i lavori che avrebbero dovuto fornire alla prospettiva di via del Corso uno sfondo solenne.
Alla facciaccia del giubileo episcopale di Leone XIII (quello durante il quale i bagarini di piazza san Pietro vendevano agli ingenui pellegrini la paglia su cui dormiva il papa “prigioniero in Vaticano”) – Vittorio Emanuele III si preparava ad inaugurare un monumento pianificato dal 1880 e di cui si attendeva l’ultimazione.
Con un colossale sventramento e la distruzione della rete urbanistica della Roma medievale ancora esistente sul lato del Campidoglio, il Vittoriano doveva presentarsi come sipario d’una gigantesca statua equestre: il bando di concorso architettonico chiedeva ai concorrenti un monumento e inoltre
uno sfondo architettonico di almeno trenta metri di lunghezza e ventinove d’altezza, lasciato libero nella forma ma atto a coprire gli edifici retrostanti e la laterale Chiesa di Santa Maria in Aracoeli
Doveva essere di travertino, il Vittoriano. In qualche coerenza con la solennità della Roma antica e papalina. Ma alla fine venne realizzato in un candido marmo botticino, preso dalle cave bresciane per puro caso insistenti nel collegio elettorale di Giuseppe Zanardelli, ministro dei lavori pubblici del governo De Pretis poi promosso alla già cruciale funzione di guardasigilli con Cairoli.
Nonostante la mancanza di qualche rifinitura scultorea, giunta in seguito, il Vittoriano verrà inaugurato dal re il 4 giugno 1911, 4 giorni dopo il varo del Titanic, il transatlantico il cui nome evoca un’epoca e la sua fine.
L’inaugurazione del monumento di Piazza Venezia – accompagnato della costruzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, del Palazzo di Giustizia, del Palazzo delle Esposizioni, di tre nuovi ponti sul Tevere, della esposizione universale di Roma – celebrava i fasti dell’Italia “unita”.
Quella Italia era stata ritratta pochi anni prima da Bolton King e da Thomas Okey in Italy To-day, opera di propaganda tradotta in italiano da Laterza (che l’ha ripublicata nel 2001) per l’insistenza di un trentacinquenne marxista di scuola labriolana, tal Croce Benedetto: l’incipit di quel libro del 1901 (1904) e qualche riga del primo capitolo mi paiono suggestive:
Uno dei primi fatti che fermano l’osservatore della vita italiana è la confusione e la decadenza dei partiti politici. Essi han perso fede nei loro principî, nel loro paese, in sé stessi. L’azione loro sembra poco meglio di una interessata lotta per raggiungere cariche pubbliche e di una cieca resistenza a forze che non sanno comprendere e assimilare e pertanto temono. Tutto ciò era molto differente una generazione addietro. La politica italiana si è annebbiata: niente lo mostra in modo più penoso della differenza che corre fra la Destra e la Sinistra di oggi rispetto agli uomini che governarono l’Italia nuova nei suoi primi tempi.
King entra più oltre nei dettagli elettorali ed economici del paese: cito ancora
Le elezioni a Napoli furono fatte da un centinaio o due d’influenti elettori che si servirono della camorra per portar su i propri candidati: (...ma) peggio che questa personale influenza, [sono] la pressione del Governo e la corruzione privata [che] raggiungono mostruose proporzioni. La prima è peggiore nel Mezzodì, la seconda nel Settentrione. [...] Nelle elezioni la corruzione sembra sia stata esuberante [...]: ma come regola questo può essere fatto impunemente: e anche quando la Giunta per le elezioni chiede che un collegio sia dichiarato vacante per corruzione, la Camera rifiuta di prenderne atto. [...] È appunto questo manifesto potere della poco scrupolosa ricchezza che i partiti avanzati devono combattere più d’ogni altra cosa. [...] Gli scandali [...] sono ormai storia vecchia: ma il paese tiene ancora per fermo che abbia ad esserci un’essenziale connessione fra uomini politici ed affaristi. [...] un Italiano di oggi stenta a credere che un uomo politico possa essere disinteressato.
Già, perché la pompa del Vittoriano non poteva nascondere che quella unità esaltata dalla retorica era in realtà fessurata da mali allora freschi, di cui nessuno si occupava: non la politica, pronta a consegnarsi a Giolitti, non la cultura religiosa (Pio X, dopo avere sciolto l’opera dei Congressi e condannato la democrazia cristiana di Murri avrebbe vietato a tutti i sindaci cattolici di partecipare ai festeggiamenti dello Stato usurpatore), non la cultura socialista, ipnotizzata dal mito della rivoluzione.
Nel fervore della magniloquente opera di Giuseppe Sacconi restava infatti sullo sfondo quella insoddisfazione popolare esclusa dai diritti e dal voto, che la canzone popolare del 1898, precone delle pistolettate su Umberto I, aveva ritratto con ritmica ira:
Alle grida strazianti e dolenti
di una folla che pan domandava,
il feroce monarchico Bava
gli affamati col piombo sfamò.
Deh, non rider, sabauda marmaglia:
se il fucile ha domato i ribelli,
se i fratelli hanno ucciso i fratelli,
sul tuo sangue quel sangue cadrà.
Del consenso di queste masse escluse si approprierà con la consueta abilità Giovanni Giolitti, portando al paese, certo il voto agli analfabeti e l’INA, ma anche la guerra di Libia, nel ritornante sogno di trovare nel lavacro bellico il patriottismo perduto.
Eppure nel 1911 l’oggetto della celebrazione era ancora una unità di cui si lamentava il tradimento lo scempio, le promesse deluse. Mentre mancano pochi mesi allo sbarco dei bersaglieri a Tripoli, preludio a una serie di disumanità di cui ancora paghiamo il conto, a tre anni dall’inizio dalla impensabile carneficina della prima guerra mondiale – il cinquantenario celebra l’autorità delle istituzioni politiche plasmate dalla storia risorgimentale.
E sarà proprio questo senso dell’autorità delle istituzioni, delle classi dirigenti, dei comandanti, che andrà distrutto per sempre (con buona pace degli amici e dei nemici del '68) nell’apocalisse della modernità che sarà la Grande Guerra , insieme alla possibilità di ricostruire quel «mondo dei padri» che l’occhio acuto di King aveva visto con nostalgia.
Il centenario del 1961
Cinquanta anni dopo il Vittoriano e dopo King, quando il centenario dell’unità si ripresenta alla porta degli italiani con la dovuta solennità giubilare, il futuro non è più quello d’una volta.
Per guardarlo lo Stato stanzia 320 milioni di lire (circa 4 milioni di euro) per rifare la storia del Risorgimento: a valle della dittatura, delle leggi razziali, delle persecuzioni politiche, della guerra mondiale, dell’occupazione, della guerra civile – e nell’enorme tensione politica che precede l’avvicinarsi al governo dei “novelli anticristi” socialisti.
L’Italia del centenario della sua unità sta museificando ideologicamente l’epopea risorgimentale: togliendo ogni spazio all’orrore reale che la separa dai suoi miti fondativi. Lo si capisce rileggendo il volume sulla storia degli ebrei in Italia di De Felice, sforzo di un cantimoriano trentenne che rifiuta il mito della innocenza italica e le parodie guareschiane dello scontro ideologico, sulle cui faglie il sangue secco viene così spesso rimpiazzato da sangue fresco.
Ma questa via storiografica è impervia: e quella della dialettica fra i partiti – nel 1961 nasce tribuna politica – ideologica. Altrove, al cinema, ci sono farmaci contro la memoria assai più efficaci.
Tutti a casa di Luigi Comencini nel 1960 affida ad un indimenticabile Alberto Sordi il compito di sciamano dell’esorcismo collettivo sul fascismo.
Passa nel dimenticatoio le pagine feroci scritte dai soldati italiani nelle carni delle popolazioni di Libia, dei monaci abissini, nei villaggi balcanici; fino alla guerra civile, alla impunità della tortura, alle stragi e a quel Popolo dei morti su cui Leonardo Paggi ha scritto di recente pagine intense.
La formula piena d’autoassoluzione sta nel titolo italiano di un film che Giuseppe De Santis porterà sullo schermo nel 1964 e che rimbalzerà come una formula magica: Italiani brava gente.
In vista del 1961, dunque, il futuro non è più quello d’una volta: e alla retorica dei Savoia in quel di Roma si sostituiscono le celebrazioni di Torino61, la prima capitale dove si predispongono festeggiamenti che servono più che mai a riagganciare il filo istituzionale della continuità dello Stato nazionale ormai repubblicano ad un passato sanificato dalla lontananza.
Torino che del Regno era stata la prima capitale, in quel momento, in pieno boom economico stava diventando grazie all’auto e alla famiglia Agnelli l’approdo della più grande deportazione volontaria di forza lavoro interna al paese e di una nuova urbanistica.
Se nel 1911 il Vittoriano aveva steso dietro il metro e 53 del re Sciaboletta il suo marmoreo sfondo, Torino61 doveva incidere nella capitale dell’auto e del sindacato con l’inchiostro del cemento “armato”. Per Torino61 viene eretto il Palazzo del lavoro e il Palazzo a Vela, viene edificato il quartiere nella zona sud. E lì accanto si realizza l’Esposizione Internazionale del Lavoro, «per illustrare sul piano mondiale il vertiginoso progresso tecnico e sociale e l’evoluzione del lavoro umano nell’ambiente nel quale esso si svolge». Si inaugura la fantascientifica monorotaia Alweg che aveva incantato Walt Disney, il Cinerama, la funivia dal Valentino alla collina e poi la Mostra Storica dell’Unità Italiana, la Mostra delle Regioni Italiane: tutte cose che s’imprimono nella memoria di una generazione (un sito raccoglie ancor oggi le foto delle mamme col cappotto corto e dei bambini col passamontagna, http://www.italia61.it).
Mentre l’accattone di Pasolini viene vietato ai minori di anni 18, Roberto Rossellini racconta l’epopea dei Risorgimento dal basso, difeso da uno stuolo di critici organici: il passato oleografico e vigorosamente antidemocristiano di Rossellini racconta uno Stato incapace di fare i conti col fascismo. E proprio nella città di Gobetti, il fascismo come autobiografia della nazione svanisce nel nulla, fra la rilettura rossellinian-marxiana di Garibaldi, crociana parentesi messa lì, fra il trionfalismo vittoriano del 1911 e quello Fiat.
D’altronde in quello sforzo c’era qualcosa di cui andare perfino orgogliosi.
Se i morti delle fucilazioni non diventarono capostipite di un anticipato decennio di piombo fu grazie alla capacità politica di Moro e Fanfani di allargare le basi effettive della giovane e fragile democrazia costituzionale: e in questo l’enfasi modernistica di Torino61 si presentava come un tentativo di evasione al quale solo un acuto documentario di tale Spinelli, La lunga strada verso l’unità europea, insinua dubbi tremendi...
Le antenne teologiche di Pier Paolo Pasolini sentono l’immensa empietà di quel passaggio di tempo:
Così la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell’empietà.
E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,
e la governa. Non ha certo rimorso,
chi non crede in nulla, ed è cattolico,
a saper d’essere spietatamente in torto.
Usando nei ricatti e i disonori
quotidiani sicari provinciali,
volgari fin nel più profondo del cuore,
vuole uccidere ogni forma di religione,
nell’irreligioso pretesto di difenderla:
[...] E intorno a questo interno dominiodella volgarità, la città che si sgretola
ammucchiandosi, brasiliana o levantina,
come l’espressione di una lebbra
[...] e allinea tempeste di caseggiati,
gore di lotti color bile o vomito,
senza senso, né di affanno né di pace;[...] è morta un’epoca della nostra esistenza,
che in un mondo destinato a umiliare
fu luce morale e resistenza.
Il 150°: il futuro non è più quello di una volta
Il futuro non è più quello d’una volta. Sappiamo già che le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia non avranno la serena arroganza retorica del 1911 e nemmeno l’energia vitale del 1961.
Celebrare l’unità della “nazione” vuol dire riprendersi una delle parole tenute in ostaggio dal fascismo; vuol dire affrontare la sfida del secessionismo di tipo celtico (quello che l’unico sindaco europeo condannato per istigazione all’odio razziale riteneva di dover affidare alle sola alla “razza padana”); e vuol dire misurarsi con le assai più pragmatiche devoluzioni di giurisdizione e di spesa a favore della Gomorra camorrista, delle cosche 'ndranghetose e di cosa nostra. Nel tentativo di lasciare un segno.
Il futuro che ci attende nel 2011 è perciò fatto di opere, come nel 1911 e come nel 1961. Alcune le decise il II governo Prodi pianificando la costruzione di spazi culturali su tutto il territorio nazionale e affidandone il monitoraggio ad un comitato dei garanti presieduto dal presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi [poi sostituito da Giuliano Amato, NdR.].
Altre le ha programmate l’ammirevole capacità sistemica del mondo torinese: dove enti locali fieri di non nascondersi dietro il ditino dei tagli, fondazioni bancarie con una capacità di discernimento culturale adeguata, il sistema universitario e di ricerca, mondo delle imprese e della comunicazione, hanno fatto massa critica talmente bene che il sito www.italia150.it è il loro e non quello del governo.
Nel contempo un “bando” ha chiesto a chi lo avesse desiderato di proporre iniziative per rendere memorabile il 2011. Ne sono uscite proposte per 285 milioni euro di spesa che forniscono un ritratto straordinario del paese.
Straordinaria la varietà dei soggetti: università, centri di ricerca, assessori frustrati, istituti politici, editori in cerca d’affari, loggette di mutuo incensamento, aziendine di public relations, organizzatori di ogni tipo di cultura (quella con la “c”, quella con la “q” e anche quella con la “k”), portatori di smisurati super-ego, singoli personaggi dello spettacolo, del giornalismo – fino a un promettente dottore Vespa Bruno che si candida a fare trasmissioni della tv sul tema.
Straordinaria ed eloquente la minor varietà delle proposte: ricerche, libri, dizionari, manuali, certo; ma poi saloni, fiere, cicli, restauri, valorizzazioni, programmi televisivi, musical, fiction, festival e mostre: al tempo stesso un libro dei sogni, un business plan e una sorta di autodenuncia.
La politica di rigore finanziario di Tomaso Padoa Schioppa e Giulio Tremonti non solo ha molto ridimensionato le ambizioni di un paese che da Italia90 alle Colombiadi aveva imparato che retorica e affari si sposano bene: lo ha anche fatto venire allo scoperto.
Ma ha lasciato sospesa la questione di cosa deve accadere nel 2011 e del perché .
Sul cosa il Ministro Bondi ha messo a punto, in un fitto dialogo col comitato Ciampi, qualche prima idea. I sindaci, questa volta anche quelli cattolici, torneranno all’altare della patria nell’anniversario della legge del 1861. Ai bambini delle scuole sarà proposto il programma didattico “adotta una lapide” (sic) per lucidare e salvare i marmi della retorica massonico-risorgimentale sparsi per le nostre vie. I programmi televisivi manderanno in onda il “TG del Risorgimento” per dare come notizie fresche le battaglie sabaude e garibaldine e vedremo e – che so? – Simona Ventura che annuncia il collegamento con Curtatone.
Insieme ci saranno attività di ricerca, opere storiche dove la comunità scientifica si dividerà fra chi ha filo da tessere e chi no. Forse si avvierà alla fine il Dizionario biografico degli italiani, la più grande impresa di raccolta di profili dei grandi della nazione giunto in sessanta anni alle lettera "M", sulla quale gli scorsi mesi hanno visto svilupparsi una discussione fatta di calunnie e scorrettezze indegne della repubblica delle lettere.
Ma la questione del cosa e del perché resta aperta. Il 150° anniversario dell’unità ci pone ancora una volta davanti al problema di quello che viene grossolanamente definito l’uso pubblico della storia (dico grossolanamente perché la storia ha solo un uso pubblico) e che più pertinentemente Odo Marquard ha chiamato la tribunalizzazione della storia. Cioè quel processo, legato alla fine della teodicea, per cui anziché chiedere a Dio perché se lui è buono c’è il male, si rigira la versione secolarizzata della domanda all’uomo, unico responsabile delle sue azioni.
Ma come ha mostrato Marquard, esattamente come nello schema leibniziano, l’uomo si fa la domanda per uscirne assolto, presentandosi come imputato seminfermo, visitatore alienato di una realtà troppo grande, turista di passaggio sulla scena dove il male storico si compie.
Nelle precedenti occasioni ripensare l’unità nazionale ha voluto dire trovare il modo e il tempo di sfuggire al peso di un passato ancora poco studiato e dominato da una retorica dominante.
Nel 1911 la cultura coloniale era nascosta. Nel 1961 la puntigliosità della legge istitutiva insisteva sulle celebrazioni del solo Risorgimento.
Il 2011 si metterà su questa via? Diventerà “luogo della memoria”, nel senso studiato da Pierre Nora, monumento che nel momento in cui sorge denuncia la consapevolezza dell’oblio e lo accoglie, facendo del fante il cesso del piccione?
La questione, si badi, non è astratta: la Regione Piemonte ha approvato una legge per attirare nella propria area la convegnistica migliore che l’Italia saprà elaborare nel 2011: ma per legge ha stabilito che l’arco di tempo interessato avrà come terminus a quo il 1820 e come terminus ad quem il 1920: e così rimarranno fuori quelli che qualcuno ha definito i “periodi meno felici” della storia italiana.
Su questo vorrei soffermarmi brevemente in conclusione. L’anniversario della telegrafica delibera senatoriale del 1861 non può essere affrontata col candore che poteva essere perdonabile nel Sindaco della Roma d’inizio secolo XX, Ernesto Nathan, e che era comprensibile nell’onorevole Amintore Fanfani.
Il nodo dell’esistenza di questo paese, della sua lingua come strumento di cittadinanza fra diversità non più grandi di cento anni fa, della costituzione come solo oggetto di patriottismo possibile nel paese che inventò il fascismo, il suo disgusto e la sua sete di cultura, è oggi più aperto che mai nel momento in cui, nella costruzione europea, si sbriciolano i grandi miti risorgimentali e la “nazione” diventa un prodotto da agitare contro gli Stati usciti dalla decantazione nazionale del secolo XIX.
Giacché il problema dell’Italia non è quando sia stata fatta o la datazione di una coscienza nazionale che ha preceduto di secoli l’azzardo sabaudo: ma quale coscienza della propria storia ha chi la sta effettivamente facendo.
Per un periodo lungo la formatrice di questa coscienza è stata la deamicisiana maestra dalla penna rossa, il sentimentalismo garibaldino, la coltivazione della arroganza del colonialismo straccione.
Poi è stata la volta della media unificata, quella che don Milani anticipa «studiando storia tutto l’anno» per prepararsi al processo sull’obiezione di coscienza.
Poi è toccato alle superiori post-sessantottine dove “si fa il Novecento”, e poi all’università di massa di una volta, quella dove se chiedevi lumi sul descrittore di Dublino ti davano la bibliografia su James Joyce.
Ma se le rivoluzioni mangiano i figli, le riforme sono corrose dai loro successi. «Tempi nuovi si annunciano» dice Moro nel 1968, quando si rende conto che proprio l’inclusione sociale che la sua politica aveva proposto era riuscita davvero a modificare la scena sociale e chiedeva alla politica un ripensamento del proprio ruolo talmente profondo che lei stessa, che ne era stata levatrice, se ne riconosceva incapace.
E così anche noi oggi vediamo che «tempi nuovi si annunciano»: ma sappiamo che non sono il frutto di un grande progetto di inclusione sociale, di uno slancio culturale, che guardi ai rivolgimenti nei quali ci troviamo coinvolti con le competenze necessarie, la strumentazione adeguata, una idea su come usare l’immenso capitale umano che ogni giorno ciascuno di noi si trova a dover investire.
La nostra collega, fresca "Mittner-Preis", Elena Esposito, ci spiegherebbe con grazia che lo smarrimento che sentiamo è del tutto normale. Prima che il futuro cancelli i mille futuri possibili che oggi intuiamo, non possiamo far altro che sceglierne uno, per calcolo, per moda, per paura. E ha ragione.
Il tempo che ci separa dalle celebrazioni, dunque, dirà al futuro quanto siamo stati capaci di attrezzarci per un avvenire che, per fortuna, non sarà quello d’una volta.
Dirà se e quanto siamo stati consapevoli dell’enorme sproporzione che esiste fra i mezzi con cui la cultura di un tempo affrontava un futuro di cui avrebbe potuto possedere le chiavi – e i mezzi con cui noi guarderemo ad un modo il cui rimescolamento non può essere risolto dall’apotropaica del localismo, dal razzismo piagnone e prepensionato, dalla furbizia di chi grida all’emergenza educativa per tutelare rendite e appalti, dal mai sopito vizio del tirare a campare, dalla indulgenza verso i prepotenti.
Giuseppe Dossetti, il più importante professore che l’Università della Calabria abbia avuto, aveva fatto nell’estate del 1993 alcune considerazioni sul futuro che attendeva il mondo di fine secolo, la cui attualità non torna a nostro onore.
È un rimescolio totale [...] Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti, quelli del 1918 , quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-45, quelli di Yalta, ma sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio.
La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. [...] L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano.
È questa responsabilità, che possiamo reciprocamente consegnarci avvicinandoci all’anno del 150° e sapendo che di qui a poco – due generazioni, cinquant’anni – un nuovo giubileo arriverà a giudicare delle intenzioni di cui avremo dato prova.