21 gennaio 2011, Padova.
Il 17 marzo 2011 si celebra il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia: un anniversario che sembra rappresentare il bilancio della storia italiana e della sua difficile identità. Rispetto al centenario e al cinquantenario questo anniversario appare molto più difficile, molto più appannato, meno trionfale, forse anche un po' più triste. Se questo è vero (i dati economici del 1911 e del 1961 sembrano confermarlo) quali sono i principali fattori di criticità, a tuo avviso, rispetto ai due anniversari precedenti?
Mi rendo conto che questo terzo anniversario è circondato di amarezza e disincanto soprattutto se guardiamo alla sfera governativa o a quello che si legge sulla grande e piccola stampa. Assai meno, secondo me, se guardiamo a quello che avviene in giro per la penisola, dove viceversa c’è un pullulio di iniziative, che contrastano con quel senso di negligenza e disincanto. È il caso quindi di tenere conto di entrambe le sfere e lo faremo più avanti.
La seconda considerazione: nel 1911 e nel 1961 l’anniversario non era circondato da maggiore immedesimazione e da maggiore entusiasmo rispetto ad oggi, viceversa, se andiamo a verificare gli spiriti generali del tempo, ci troviamo di fronte a qualcosa di abbastanza analogo. Due anni prima del ’11 era uscito quella cartina di tornasole che fu il grande romanzo–spartiacque di Luigi Pirandello I vecchi e i giovani; furono proprio i giovani ad influire sull’opinione pubblica attraverso le riviste e sulle terze pagine della stampa quotidiana, seminando amarezza, disincanto e negligenza rispetto ai miti di fondazione: il Risorgimento come luce spenta, cose da vecchi, roba da musei.
Sono veri i dati economici che ci hai appena ricordato, ma credo fosse presente anche questo orizzonte di disincanto e giustapposizione tra visioni generazionali differenti. Sono gli anni in cui nascono i musei, ma se ne occupano i patrioti che hanno settanta anni di età, mentre i giovani di due generazioni dopo dichiarano sulle loro riviste, con Giovanni Amendola, che “questa Italia così come è non gli piace”. Si tratta di una parola d’ordine generazionale, che si lega al nome di Amendola ma che va bene certamente anche per i Mussolini, e sembra confermare quello che Giuseppe Prezzolini continuerà a dire per tutta la vita: nella «Voce» si erano formati sia i futuri fascisti che i futuri antifascisti.
Se con un balzo ci spostiamo di cinquanta anni, al 1961, io credo di ricordare che non ci fossero tutti questi entusiasmi, e d’altra parte, se analizzassimo le forze politiche che si affermarono al governo o all’opposizione e che organizzarono l’Italia repubblicana dal secondo dopoguerra in poi, rileveremmo come né la Democrazia Cristiana né il Partito Socialista né il Partito Comunista potessero immedesimarsi nella storia nazionale intesa in senso risorgimentale. Quanto al Partito Liberale e al Partito Repubblicano, sebbene fossero portatori di quella eredità, non avevano un sufficiente riscontro elettorale. Non per questo non fu fatto niente, tuttavia andando a vedere la stampa dell’epoca si ritroverebbero discorsi improntati alla freddezza. Ancora una volta le cose sono belle quando non ci sono più e il passato commisurato al presente sembra avere più cose da dire. Io credo che un confronto tra gli anniversari sarebbe una delle ricerche da fare, rientrerebbe pienamente negli studi attuali di politica delle memorie, di studio delle feste e degli anniversari.
Facevo una riflessione molto più impressionistica: il 1911 è segnato un po’ più da toni trionfalistici, apparentemente, (l’inaugurazione del Vittoriano, secondo una formula retorica classica) che però sembrava restituire al paese un suo orgoglio nazionale, contraddetto, come dicevi tu, da voci non del tutto allineate a questo trionfalismo nazionale e nazionalistico. E questo avviene anche nel ’61, quando la grande cinematografia, per esempio la commedia all’italiana, è tutta intonata a una certa nostalgia rispetto ai toni trionfalistici del boom economico. Il cinema sembrava celebrare quella che era un po’ un’innocenza perduta da parte della nuova Italia del boom economico.
Io volevo aggiungere un’altra cosa rispetto al 1911. Dicevi che c’era un trionfalismo nel festeggiare se stessi. Vorrei sottolineare anche la parallela assenza di una canalizzazione della critica in senso politico, sia perché il Partito Repubblicano non aveva la forza per esprimerla sia perché probabilmente il Partito Socialista non era così interessato a farlo. Perciò l’idea di andare oltre il Risorgimento fu espressa dal disincanto generazionale oppure dalla diversa visione dell’idea di nazione che preannunciavano i nazionalisti alla Corradini. Rispetto alla floridezza economica relativa all’età giolittiana e all’empito nazional–colonialista, ci troviamo dunque di fronte ad un quadro un po’ monco verso sinistra. Nel 1961 la questione è completamente diversa e molto complessa: la Resistenza come secondo Risorgimento va a incanalare un modo differente di essere patrioti, come partigiani di “un’altra Italia” e democratici di sinistra. È vero che “patrioti” nel 1961 probabilmente è un termine che non si era troppo propensi a usare, benché nel ‘43–‘45 “Patria”, “patriottismo” e “patriottico” fossero un lessico assolutamente comune al CLN. Tuttavia, ancora oggi, “Patria” fa fatica a rientrare nella terminologia corrente. Sicuramente non utilizziamo più solo la parola “Paese” e ormai da diversi anni diciamo “Nazione” senza problemi, ma “Patria” facciamo ancora fatica a riprenderlo.
Questa precisazione sul ‘11 l’avevo in mente anche io, pensando a tutta la lettura volpiana che vede all’inizio del Novecento la svolta laddove i gruppi nazionalisti e i giovani stanno, a giudizio di Volpe, elaborando un’idea di nazione diversa da quella lasciata dal Risorgimento. Tu affermi giustamente che questo provoca qualche problema a sinistra, dove i repubblicani sono troppo poco rappresentativi dal punto di vista numerico per affermare un’idea diversa di nazione e i Socialisti forse non hanno particolare interesse a sostenerla …
Resta sempre periodizzante, anche se di natura aneddotica, la storia del monumento di Mazzini a Torino. Non in un posto qualunque ma nella città della Monarchia. Vi fu una negoziazione con il sindaco moderato che portò all’installazione in parallelo della statua di Mazzini e di quella di Don Bosco. Mi pare significativo che si fosse arrivati al monumento così tardi e che neanche arrivandoci mezzo secolo dopo sia stato possibile valorizzare Mazzini in proprio, come padre della patria. Fra tanti Savoia al galoppo, lo si raffigura stanco, malato, seduto, e Gramsci in una delle sue note giovanili rileva la perfidia di collocarlo in una piazzetta sbilenca, nello stesso punto dove c’era un vespasiano. Fu il segno di un tempo in cui lo sviluppo della Monarchia e dell’interpretazione monarchico–moderata ed istituzionale della nascita dello Stato lasciò in gran parte cadere la realtà delle cose, cioè i processi reali nella costruzione dello Stato. Se questo è potuto avvenire nella politica è perché i repubblicani non sono riusciti a contrastarlo e anzi persero la capacità di gestire la nazione mazziniana come minimo comune denominatore in cui includere anche gli altri. D’altra parte i repubblicani, prima nella guerra e poi ancor di più nel dopoguerra, mostrano di non saper gestire omogeneamente neanche se stessi, nonché la nazione. Per cui bisognava andare oltre, ma oltre storicamente in quella fase non si era capaci di andare.
Nel ’61 ovviamente le cose sono molto diverse, i partiti di massa, va ricordato, non hanno nella nazione uno dei loro punti culturali più forti, sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista hanno altri paradigmi di riferimento naturalmente.
Nel Partito Comunista convivevano due diverse interpretazioni del Risorgimento formulate da Togliatti e Gramsci all’inizio degli anni Trenta. Il Togliatti di quegli anni non fa certo presagire le Brigate Garibaldine: c’è in lui non solo negligenza ma perfino disprezzo nei confronti dei dirigenti del movimento patriottico, visti come archeologi eruditi, in fondo piccoli uomini. Siamo lontanissimi dal processo che poi farà diventare il Partito Comunista d’Italia un grande partito nazional–popolare, nonostante il nazional–popolare non fosse fuori dalle corde dell’itinerario del Pci, come contemporaneamente dimostrava Gramsci. Naturalmente ho avuto tra le mie letture giovanili e non solo giovanili I quaderni del carcere, ma allora non mi rendevo conto di come le cose sarebbero potute andare diversamente, di come sarebbe stato non innaturale se Gramsci si fosse messo a ragionare sull’Internazionale invece che sulla storia di Italia. Nel secondo dopoguerra avanzato appariva scontato che le cose fossero andate così, ma non lo era affatto dal punto di vista della nascita del Partito Comunista d’Italia e delle vicende politiche europee degli anni ’20 e ’30. Fu una scelta importantissima che uno dei leader fondatori del Pci abbia deciso di mettersi a studiare il Rinascimento e il Risorgimento, elaborando l’idea nazional–popolare a ridosso di un Risorgimento rivisitato criticamente, precedendo e poi – a posteriori – legittimando la nascita della guerra di liberazione nazionale e del secondo Risorgimento nel ‘43–’45. Ciò indica che c’era una gemmazione molteplice dall’interno del corpo di quello che era ancora un giovane partito. Per questo, quando parliamo della freddezza di Togliatti nel muovere le pedine sulla scacchiera, riconosciamo un tratto biografico della sua persona, ma non possiamo arrivare a dire che si sia inventato tutto e che per la via italiana non ci fossero dei fondamenti all’interno del partito: la pianta è cresciuta perché le radici c’erano, e c’erano anche quelle che ancora non si vedevano, ovvero i Quaderni del carcere.
Il Partito Socialista Italiano era il più antico dei tre partiti di massa. Quando nacque, i socialisti degli anni ’90 dell’Ottocento potevano considerarsi eredi e superatori della democrazia risorgimentale, ma non negatori o ad essa stranieri. Io da alcuni anni perciò, leggendo Gioacchino Volpe e intrecciandolo alla concezione clericale dell’Italia reale – la loro – contrapposta all’Italia legale – quella del Re, anemica e senza popolo – ho proposto la formula delle “Tre Italie in cammino” – che ha anche dato il titolo al secondo volume degli Italiani in guerra. Dando per buona la pretesa clericale che una Italia reale fosse quella clericale, mentre l’Italia legale fosse quella monarchica e delle istituzioni in genere, ho però evidenziato come ci fosse anche una terza Italia: una galassia di sinistra più complessa e variegata in cui c’era spazio anche per il nascente Partito Socialista, che si districa dall’anarco–socialismo anche mettendosi a lavorare politicamente all’interno dell’Italia dei comuni, delle campagne, e alla fin fine dello spazio–nazione. Partecipa anche alle elezioni, finendo così per usare i linguaggi e gli istituti della nazione, anche se criticamente.
Tutto ciò è all’origine di un Partito socialista che nel secondo dopoguerra ha come capo Pietro Nenni, cioè un ex repubblicano e un ex interventista. È questa una evoluzione che non viene ricordata spesso, perché in fondo imbarazza tutti. È la generazione di coloro che hanno voluto la guerra, presente anche all’interno della sinistra rifondata in emigrazione, quella dei Rosselli, di Parri, di Lussu, oltre che di Salvemini. La generazione precedente, dei Turati e dei Treves, era anziana: fece ancora in tempo a compiere gli ultimi gesti significativi, appunto quello di avere il coraggio di andarsene, però erano portatori della sconfitta di fronte alla grande guerra, al dopoguerra e al fascismo. Su questi slittamenti generazionali ed eredità storiche c’è una situazione non chiarita negli anni Trenta. La Resistenza non restituisce questo primato a sinistra al Partito Socialista Italiano, perché non ci sono abbastanza partigiani socialisti e perché si diffonde l’idea che il Psi abbia più pensionati che giovani. Resta tuttavia il fatto che elettoralmente all’inizio abbia avuto più voti del Partito Comunista. Questo è il punto di partenza, la composizione generazionale e sociale era già diversa e squilibrata a favore del nuovo partito rispetto al vecchio, fin dall’inizio.
È necessario dunque avere nei confronti del Psi un approccio problematico, come in fondo per il Partito comunista. Ricordo anche uno scritto del ‘17 di Gramsci, quando fu inaugurato il monumento di Mazzini a Torino e ascoltando i discorsi ufficiali affermò: “ma il Mazzini non è mica soltanto quello che ci avete raccontato voi!” Gramsci lo capì già allora, quando ancora non era nato il Partito Comunista d’ Italia, e lo comprenderà ancor di più negli anni successivi.
In conclusione, credo che nel riconoscere come i tre partiti di massa del secondo dopoguerra abbiano poco a che fare con le origini del Risorgimento, dobbiamo tuttavia almeno in parte problematizzare questo rapporto e non considerare l’ufficialità burocratica nel momento degli anniversari.
Questo vale anche per la Democrazia Cristiana che ovviamente nasce in contesti diversi e con presupposti diversi. Però è un altro partito che poi alla fine opera dentro una cornice nazionale ed è abbastanza consapevole di essere una delle leve di sviluppo dello Stato e della nazione.
Questo è un problema che bisogna trattare evidentemente con lo stesso spirito problematico che abbiamo adottato per il Partito Socialista e il Partito Comunista. Personalmente faccio più fatica a riconoscere dei titoli di merito alla DC, in forza del mio bieco anticlericalismo. Dobbiamo comunque riconoscere, sulla scia di Scoppola, che De Gasperi fu il minore dei mali: ci poteva capitare Gedda, e Pio XII pensava a Franco e a Salazar. Tuttavia De Gasperi era un prodotto della politica e della cultura austro-ungarica – il famoso “Trentino prestato all’Italia”. Cosa fa De Gasperi durante la Grande Guerra? Su questo ci sono veli di imbarazzo che soltanto qualcuno nel primo e secondo dopoguerra ha voluto togliere, introducendo uno iato rispetto a quello che scolasticamente parrebbe ovvio, e cioè che la Grande Guerra sia un passaggio collettivo di carattere necessario nella storia d’Italia.
Come spieghiamo dunque l’itinerario di De Gasperi? Si sostiene, e io lo riconosco, che il senso delle istituzioni e dello Stato può valere in se stesso e quindi in seconda battuta a favore dell’Italia e non più dell’Austria, dal punto di vista dell’ordine, della correttezza istituzionale, persino anche del rapporto tra Stato e Chiesa. Ma qui stiamo parlando di un rapporto in via di elaborazione tra passato storico e presente politico, e ragioniamo del relativamente più laico tra i dirigenti democristiani: tutto ciò crea un problema.
Ciò vale, a maggior ragione, se ci interroghiamo su quello che pensavano i parroci e sulle idee che nel 1948 circolavano nei Comitati civici. In passato ho studiato queste idee lavorando alla formazione della Democrazia Cristiana, in particolare nel Veneto, assumendo il Veneto cattolico come modello “iperrealista” rispetto all’Italia. Ne scaturiva un quadro dove lo Stato veniva percepito come irrilevante, mentre le istituzioni di riferimento erano il comune e la parrocchia. La Chiesa rappresentava la grande entità sovralocale e sovranazionale, cosmopolita ed ecumenica: una funzione che può valere molto sul piano della carità cristiana e dell’umana fraternità, ma che, dal punto di vista della gestione delle istituzioni, crea problemi nel momento in cui lo Stato raggiunge certi appuntamenti storici e deve voltarsi indietro per fare un bilancio della propria storia.
Dunque le tiepidezze e le discontinuità dei “nuovi venuti” ci sono e si spiegano storicamente. Io, qui, ho cercato in una certa misura di smorzarle e problematizzarle, ma permangono e le ritroviamo in modo differente sia nel ‘11 che nel ’61.
Ero partita inizialmente da una considerazione sulla debolezza delle attuali celebrazioni, prendendo spunto dal discorso del 21 gennaio di Napolitano. Il Presidente della Repubblica ha affermato che è oggi possibile «celebrare il 150°» perché si sono superate tutta una serie di contraddizioni, di nodi e di tensioni della storia passata. Questa visione di un paese pacificato con se stesso si inserisce perfettamente nelle prerogative di un presidente della Repubblica naturalmente. Sembra però voler sistemare in realtà qualcosa che è molto più complesso, e cioè che il paese in questo momento vive la propria identità in modo molto problematico, sia per ragioni politiche che per ragioni socio–culturali. È per questo che dicevo che nonostante tutti i loro problemi, l’11 e il ‘61 fornivano una prospettiva futura, un orizzonte di aspettative certamente più promettente di oggi.
Se poni la cosa in questi termini sono totalmente d’accordo. In precedenza ho risposto problematizzando perché riflettevo sull’anniversario del ‘11 e su quello del ‘61 in quanto momenti di posizionamento rispetto al passato e di bilancio storico. Se invece ci volgiamo alle “prospettive del futuro”, confrontando i tre anniversari la situazione risulta quella da te delineata.
Nel ‘11 troviamo sia “l’Italietta” giolittiana sia la “grande Italia” dannunziana e nazionalista, entrambe con differenti ambizioni di crescita. Nel ‘61 siamo ormai all’interno del processo che condurrà al centro–sinistra. Gran parte dei democristiani interpretavano tale processo come un’operazione di logorio dei socialisti e di isolamento dei comunisti, mentre molti socialisti lo leggevano come un avanzamento, come un futuro tutto da conquistare con fiducia ed ottimismo.
Se ci volgiamo all’oggi la situazione è completamente diversa. Non ho letto l’ultimo discorso di Napolitano a cui hai fatto riferimento, ma ho ben presente quello del 20 settembre. La chiave è sostanzialmente la stessa: valorizzare la Chiesa e le realtà disposte ad unirsi contro la Lega e contro i processi disgregativi municipalisti, leghisti o clerico–intransigenti e neoborbonici riaffioranti. Nel birignao neoborbonico vi è del folclore, che però non va sottovalutato perché, sebbene non rappresenti una prospettiva politica concreta, ha tuttavia un suo significato, in quanto espressione di un’ostilità di fondo e di una mancata immedesimazione nella storia nazionale.
L’avversario più consistente rimane in ogni caso il secessionismo allegramente sbandierato sui prati di Pontida, le più o meno trucide espressioni di capi e gregari della Lega contro l’Italia, la messa a dimora di un repertorio simbolico antagonista, che da qui in Veneto, dove stiamo parlando – in un Caffè Pedrocchi peraltro ornato di tricolori – vediamo in una prospettiva quotidiana. Naturalmente uno statista come un presidente della Repubblica fa politica e nessuno pretende invece che faccia storiografia. Per noi si tratta di distinguere e io preferirei coltivare l’ autonomia delle sfere tra politica e religione, dal momento che considero l’assenza di questa distinzione uno dei problemi congeniti del nostro paese – l’anomalia italiana – per cui resto sconcertato quando vedo valorizzare gli afflati unitari della Chiesa, sia pur a fin di bene, e cioè per andare contro la Lega. La Chiesa oggi è a favore della conservazione dell’unità d’Italia per la buona ragione che ha ormai allargato la città del Vaticano all’intera Italia e perché è in gran parte riuscita a realizzare il sogno, mai dismesso, di continuare a utilizzare la penisola italiana come la rampa di lancio della potenza ideologica della Chiesa in tutto il mondo. Sarà brusco e schematico metterla giù così, ma così stanno le cose.
Non so quanti siano consapevoli e d’accordo con l’analisi che ho appena profilato. Non escludo che alcuni possano riconoscere come unica possibile grandezza d’Italia proprio il dato di fatto che Roma è in realtà la capitale del cattolicesimo e solo secondariamente, quasi per sbaglio, la capitale di uno Stato che non può essere realmente laico quanto la Francia o quanto la Spagna, proprio in conseguenza della duplicità della capitale.
Detto questo, sono toto corde con il Presidente e con chi sia contro la Lega e contro gli spiriti secessionisti. Non sono neanche un federalista appassionato, perché tutte queste rincorse del federalismo non mi appaiono una scelta in positivo, quanto piuttosto un modo per tenere buona la Lega e i suoi brontolii. In questi giorni osserviamo inoltre che in concreto la legge federale scontenta addirittura i sindaci e i comuni che ne dovrebbero essere invece l’essenza.
Io non ho niente contro una buona legge federale e so che la soluzione di Cattaneo sarebbe stata la migliore, ma “non c’erano i numeri” – come si direbbe oggi. Ciò che mi interessa affermare è che, nel momento in cui si compie una lotta politica da una parte, non si sguarnisca il fronte da un’altra: per essere antileghista io non voglio diventare clericale. Non accetto che si passi in subordine questo tipo di problematiche, che vediamo continuamente risorgere: a livello di scuola confessionale, di università, di finanziamenti, di fine vita, di ritualità sulle coppie, tutto un settore che concerne in senso lato l’etica e che è stato quasi totalmente appaltato alla Chiesa cattolica, tenutaria della moralità di tutti.
Ti sei definito orgogliosamente anticlericale, ma nell’identità nazionale l’elemento cattolico è molto forte, cioè se questo paese sta ancora assieme si ha la sensazione che talvolta lo si debba al mondo cattolico. Lo dico da laica e di famiglia laica. A modo suo il cattolicesimo italiano, rispetto ad altri cattolicesimi europei, ha dato una mano di tanto in tanto a tenere insieme questo paese. L’opzione non può essere tra leghisti e clericali, su questo sono perfettamente d’accordo con te, ma da storici e guardando in lontananza, la componente cattolica in qualche modo, nel male ma anche nel bene, ha tenuto assieme questo paese, non lo pensi?
A differenza di te, io vengo da quel mondo ed è all’interno del mondo cattolico che ho imparato a coltivare certe esigenze e certi rigori, che non avrei certo imparato a coltivare nel mondo socialista così spesso bagolone e approssimativo rispetto a quest’ordine di problemi, o nel mondo comunista così ferreamente determinato al dialogo con i cattolici, fino a subire niente meno l’articolo 7 della Costituzione. Sono dunque sensibile a questo discorso, ne sono perfettamente consapevole, conosco e apprezzo il volontariato e la carità cristiana, ho conosciuto una serie di colleghi nelle scuole dove ho insegnato, sacerdoti attivissimi e impegnatissimi che sarebbero stati schematicamente etichettati come “di sinistra”. Una definizione che ritengo fuorviante – si pensi soltanto a don Milani, che politicamente parlando sarebbe un’eresia chiamare “di sinistra” e che tuttavia ha saputo interpretare tanti principi di critica sociale e proporli all’intera società. Vi è tutta una serie di personaggi del mondo cattolico tra Otto e Novecento a cui la società italiana deve molto: ma la società, non lo Stato. Io vorrei, come lo vorremmo in tanti, che lo Stato fosse l’espressione della società, di un fortissimo intreccio tra società e Stato. Per questo non posso disinteressarmi degli spiriti che corrono dentro una società in cui vedo che spesso i sensi civici non si riferiscono allo Stato ma alla Chiesa, non si riferiscono alla cittadinanza ma alla carità cristiana.
Contemporaneamente non accetto la deriva di quei gruppi che una volta si sarebbero chiamati della “nuova sinistra”, nella misura in cui ancora sopravvivono e a cui pur sempre faccio politicamente riferimento: anche loro, basta leggere «Il Manifesto», sembra che abbiano più in mente la Chiesa che lo Stato. Io vorrei uno Stato innervato di società e una società pensosa dello Stato, mentre mi pare che essa, nei casi migliori e di maggiore vitalità, si frammenti in gruppi e comitati ciascuno dei quali ha il suo ponte, la sua ferrovia, il suo gasdotto da presidiare, oppure i suoi poveri, il suo terremoto, il suo pozzo. Sotto–insiemi, ma l’insieme quale è?
Mondialisti – o, in alternativa, “comunitaristi” – che siano, le sinistre d’oggi lasciano trapelare come per loro lo Stato nazionale sia “un cane morto”. Per me, ancor oggi, rimane un dover essere e niente affatto un cane morto. Per esempio, rispetto all’anniversario che stiamo vivendo, io vedo non pochi equivoci serpeggiare anche all’interno di posizioni politico–culturali che per un verso riconosco più vicine a me, ma in cui io non mi posso affatto immedesimare: niente meno, tutto il Risorgimento dietrologicamente e unilateralmente riscoperto come La conquista. Va bene civettare con “la parte del torto”, ma qui si esagera. Sono sicuro che Rossanda Pintor e Parlato avrebbero ragionato o ragionano e pensano oggi diversamente dai loro figli e, ormai, pure dai nipoti. E però, quando avviene di vedere prendere la parola a qualche dirigente dei gruppi di sinistra rimasti fuori dal Parlamento, non ritrovi lo Stato, e di conseguenza interesse all'anniversario dell’unificazione, cioè alle dinamiche storiche di quello spazio pubblico che è il nostro, l’Italia.
Il problema dello Stato come qualcosa che si è smarrito non è una questione degli anni recenti, tanto meno degli ultimi mesi, e su questo devo dire la sinistra nel suo complesso si è spaccata. Non è un caso che sia l'estrema sinistra, quella che è rimasta fuori dal Parlamento, ad essere più in imbarazzo con il tema dello Stato nazionale.
Certamente si tratta di problematiche presenti già in precedenza e che l'anniversario, come una cartina di tornasole, rende più evidenti. A sinistra, tali questioni si sono palesate con variegature complesse, imbarazzi e difficoltà nei confronti dello Stato nazionale. Per la sinistra, la frammentazione politica complessiva e l'essere rimasti fuori dal Parlamento rende forse necessario far politica su obiettivi specifici di carattere territoriale e locale, dentro cui sia magari possibile porre questioni più vaste d'ordine ambientale e energetico. Ciascuno può dire a se stesso: non sto solo lavorando per impedire che passi quella certa linea ferroviaria, ma in realtà ho una diversa concezione complessiva dell'uso del territorio... Si tratta però di una politica fatta di singoli obiettivi – esaurito uno si passa all'altro – mentre la riflessione sulla storia complessiva di un paese richiede che si mettano in fila le cose, le si organizzino concettualmente stabilendo delle priorità. E qui il cavallo scalpita ed è renitente.
A questo punto la linea di fuga possibile coincide con il discorso che sentiamo da anni circolare intorno a noi: lo Stato nazionale sarebbe finito perché c'è l'Europa e noi potremmo benissimo orientare diversamente il nostro rapporto con la storia dell'Italia e liberarci dei 150 anni di uno Stato che adesso si espande e si allarga; uno Stato più grande, rispetto a cui l'Italia è una regione, come erano regioni gli Stati preunitari nel 1861. Se davvero fosse così, rileveremmo un atteggiamento diverso, ben più pregno di pietas nei confronti della storia e ben più pregno di impegno, militanza, entusiasmo nei confronti dell'Europa da costruire. Invece non si vede affatto questa passione civica europeista e dunque non convince chi sostiene che l'Italia non c'è più perché stanno svanendo tutti gli stati nazionali: non c’è qualche cosa di più, c’è qualche cosa di meno.
Non sono neppure d'accordo con coloro, come ad esempio Aldo Schiavone e una serie di autori di libri sull'identità italiana, che quasi arrivano a fregarsi idealmente le mani, sostenendo: "grazie ad un'identità debole facciamo prima a diventare europei". Non è vero purtroppo, si coltivano le identità a partire dalle identità forti, non a partire dalle identità deboli o dalla mancanza di identità. Io sono venezianissimo e non per questo sono leghista, sono venezianissimo ma non vedo nessuna contraddizione nel sentirmi legato alla storia della mia città e contemporaneamente nell’immedesimarmi e farmi carico della storia del mio Paese, con tutte le riserve critiche e le problematizzazioni del caso.
Posso interrogare me stesso e dirmi: ma c'è coerenza in tutto l'itinerario da I Vinti di Caporetto ad oggi? Ognuno naturalmente ama sentire coerente se stesso e io non faccio eccezione: a me pare di sì, perché fin da allora cercavo lo Stato. Non mi sarebbe dispiaciuto se nel 1917 i soldati avessero buttato le armi per fare come in Russia e costruire uno Stato migliore, ma dopo aver verificato che non volevano fare questo ma semplicemente andare a casa, io non ero più e – lo confesso – non sono interessato a una parola d'ordine dimissionaria che suoni come un “tutti a casa”. Perché in quanto giovane cittadino del secondo dopoguerra avevo imparato che la parola d'ordine “tutti a casa” applicata al ‘43 era negativa e non capivo perché applicata al ‘17 potesse diventare d’un tratto umana e indiscutibile.
Facciamo parte di uno Stato, possiamo immedesimarci in esso tutto o parzialmente, possiamo volerlo cambiare, ma io rimango convinto che comunque si debbano riconoscere e apprezzare le grandi narrazioni e dispiacersi se non si è più parte di una grande narrazione. Io mi dispiaccio, ma non posso naturalmente farmela da solo una grande narrazione per l’oggi, e quindi sono d'accordo che il futuro davanti a noi si prospetta amaro. Anche contro Berlusconi quello che si agita è l'idea della politica come buona amministrazione e non come grande e alternativo orizzonte. Questo è l’ordine della politica di oggi, ma ciò non significa che non si debba saper riconoscere le grandi narrazioni quando invece ci sono state: il Risorgimento lo è stato, ecco perché mi spendo e vado in giro a parlarne.
Tuttavia, chi mi ascolta farlo, non credo mi trovi sdraiato acriticamente sulle cose così come sono andate. Tu hai presente il mio Garibaldi fu ferito: io non sono un tifoso di Depretis ma di Garibaldi, che ricomincia sempre ogni volta di nuovo finché campa. Benché non mi immedesimi nelle scelte politiche di Mazzini, sono rispettosissimo di Mr. Brown e di Alberto Mario, e poiché so che non sono conosciutissimi cerco di farli conoscere. Mi dispiace dunque molto quando negli ambienti che frequento politicamente, e a cui mi sento più vicino, non constato affatto questo atteggiamento, ma vedo che il Risorgimento o l'Unità d’Italia vengono considerate come cose da vecchi barbogi, piccole e meschine. Andate a rileggere Gramsci: era sicuramente critico, troppo critico, con il Partito d’Azione, però aveva capito l’importanza della questione, tanto è vero che passava i suoi anni a lavorarci sopra, mentre adesso l'atteggiamento è quello di sbrigarsela in fretta passando all'ordine del giorno.
Proprio a questo proposito: accennavo all'inizio alla cultura alta come a uno dei veicoli della rappresentazione dell'identità nazionale. Ad essa appartiene certamente la storiografia, che su questo ha prodotto molto negli ultimi anni in vista proprio del 150°. Tu noti delle cose nuove tra gli storici, sia nei contenuti delle loro letture che nel ruolo che si sono dati nella società italiana di questi anni?
Secondo me c'è una discrasia tra il livello propriamente storiografico, che mi pare goda sostanzialmente di discreta salute, e quella che possiamo definire senza dispregio preventivo e pregiudiziale “la parastoriografia”, ovvero la trattazione del Risorgimento e dell'Unità d'Italia nella stampa e nella televisione. Come sempre bisogna saper distinguere, non tutto è negativo, non tutto è negligenza, non tutto è disincanto, ma certamente molti cittadini si sono sentiti autorizzati ad essere negligenti e disincantati perché hanno visto sulla grande stampa o nella stampa locale trattare tali questioni in un certo modo. D'altra parte, nella storiografia, la revisione fa parte del mestiere ed è dunque logico che ci sia.
Nella “parastoriografia” però, a volte, non troviamo semplicemente una revisione ma un accanimento revisionista, cioè lo sposare lo spirito dei tempi odierni per far valere la trattazione del passato in funzione del presente. L'uso pubblico del passato, negli ultimi trent'anni, è diventato persino un oggetto dei nostri studi, ma sapere che si usa praticarlo non significa che possiamo adottarlo automaticamente anche noi. Qualche volta, invece, anche come studiosi, specie se politicamente militanti, non coltiviamo abbastanza il senso della distinzione. Finché l’uso pubblico viene fatto da un politico posso comprenderne le finalità, ma uno studioso deve sempre riuscire a lavorare su due piani, avendo netto il senso della distinzione: anche lui sta dentro un presente e ne esprime i bisogni, gli atteggiamenti, è necessario però che mantenga la sua deontologia professionale e la convinzione – primariamente! – che esistono i fatti, e non solo chi li interpreta. Interi paradigmi storiografici dell'oggi prescindono dai fatti che non esisterebbero più, perché esistono soltanto le narrazioni, le visioni, le retoriche. Lo dico nonostante io abbia sempre fatto, in fondo, storia culturale, lavorando con la letteratura, valorizzando la soggettività, la fantasia, le interpretazioni. Ma quel che è troppo è troppo. Nell'introduzione alla seconda edizione di Luoghi della memoria mi sono spinto a dire: basta con la memoria, torniamo alla storia, perché è stata l’enfatizzazione della memoria che ha aperto la strada al relativismo soggettivista – per il quale nulla è vero e tutto è possibile. Comunque a me pare che buona parte della storiografia lo faccia effettivamente, resistendo alle mode…d’oltralpe e d’oltre oceano.
Però nella narrazione pubblica, nel discorso pubblico, di questo 150°, la cosa interessante, – come purtroppo avviene da un po’ di anni – è che lo spazio dato agli storici e alla complessità delle loro ricostruzioni, si è andata paradossalmente, ulteriormente riducendosi per lasciare spazio ai giornalisti cioè a quella che tu hai definito “parastoriografia” oppure alle narrazioni cinematografiche. Il Risorgimento e la storia italiana sembrano passare attraverso linguaggi mediatici che bypassano la complessità della ricerca, del ragionamento, della contraddizione.
Sì, però non piangiamoci addosso, anzitutto perché cercano anche noi storici, e se cercano giornalisti e testimoni e memorialisti a vario titolo questo è comunque un segno di interesse, discutibile volta per volta nei contenuti e nelle forme. Quando prima parlavo di “parastoriografia” non intendevo affatto escludere in linea di principio che un bravo giornalista possa diventare uno studioso: Giorgio Bocca e anche il primo Pansa hanno notoriamente scritto dei buon libri di storia. Altri invece esercitano una supplenza indebita e nociva. Quello che non accetto è il processo che conduce diversi giornalisti a diventare storici, a teorizzare che non si fanno note e non si deve dimostrare nulla perché è roba da parrucconi – come faceva Montanelli – e a sostenere che gli storici italiani non sappiano né scrivere né farsi capire: “ci riescono soltanto gli storici inglesi”. Questo è uno stanco pregiudizio, banale ricaduta della solita esterofilia, che la conoscenza dei nostri libri potrebbe non di rado mettere in discussione.
Esiste un problema di comunicazione e noi storici dobbiamo farcene carico, dobbiamo parlare dei nostri concittadini ai nostri concittadini. Io non sono certo il solo che lo fa e il 150° incentiva la possibilità di farlo, sui giornali, in tutte le conferenze possibili, alla radio, alla tv: le occasioni non mancano, è qualcosa che ci viene continuamente richiesto. Certo la scelta della persona a cui chiedere è continuamente in bilico. Pochi giorni fa sono stato videoregistrato per un intervento su argomenti risorgimentali alla Camera dei Deputati. Nel pomeriggio toccava a Ridolfi, prima ancora alla Soldani, ecc... Eppure poco ci sarebbe voluto, e sarebbe stato anzi nello spirito dei tempi, che scivolassero sul terreno più facile della mediazione comunicativa affidata a un giornalista.
Tu hai seguito qualcosa delle rappresentazioni cinematografiche; per esempio il film "Noi credevamo"?
A me è piaciuto moltissimo "Noi credevamo". L'ho visto una volta sola, e ho voglia di rivederlo per rifletterci ancora di più sopra, perché è lungo e impegnativo. Probabilmente Martone aveva nel gruppo dei suoi consiglieri e in se stesso una dialettica di posizioni, ha saputo far funzionare questa ispirazione intrecciandola con altre e il risultato è la problematizzazione del Risorgimento, del volontarismo, del mazzinianesimo, della figura stessa di Mazzini. Una problematizzazione che sono pronto a far mia. Ma so che su questo i pareri sono diversi e non vorrei pronunciarmi con un eccesso di perentorietà, perché film così complessi e profondi non li si vede una volta sola. Parlo dunque di prime impressioni che sono molto positive.
L'ultima domanda. A uno straniero che non sa nulla della storia italiana, quali luoghi della memoria indicheresti? Quale sarebbe il percorso ideale nella storia degli italiani?
Partirei da questo, gli direi guarda che i tuoi antenati in Inghilterra, in Francia, in altri paesi d'Europa, all’epoca del Risorgimento guardavano con stupore ammirato ad un evento stranissimo e del tutto inatteso che stava avvenendo a quello che fino ad allora era stato considerato il “popolo dei morti”, il “paese delle rovine”, e che invece si rivelava essere tutt’altro. Cercherei dunque di fargli scoprire – perché non è affatto conosciuto, neanche da noi – il riconoscimento che l’Europa tributava a un grande movimento, che con una straordinaria accelerazione raggiunse grandi risultati in pochi anni. Queste sarebbero le battute introduttive.
Valorizzerei poi Mazzini e Garibaldi, perché sono in rotta di collisione con l'idea che all'estero si ha degli italiani e che gli italiani hanno di se stessi: il carattere degli italiani sarebbe quello di non avere carattere. Noi ci siamo dimenticati questo dato di fatto e continuiamo a pensare di non avere carattere. Io valorizzerei allora il saper tener duro per tutta la vita di Mazzini. Nel paese degli ex non ci sono solo gli ex.
Poi di nuovo cercherei di far riflettere criticamente sull'identità italiana in senso contrario rispetto agli stereotipi, e questo vale sia per lo straniero che per l'italiano: noi siamo il popolo del melodramma, ma ci ricordiamo solo del “melo” e facciamo cadere il “dramma”, mentre il melodramma è entrambe le cose. Mazzini e Garibaldi, insieme a tanti altri personaggi simili a loro, corrispondono appunto al “dramma”.
Cercherei dunque di farlo riflettere sulla portata intrinsecamente tragica di tante famiglie scisse al loro interno: la famiglia Bandiera, la famiglia D'Azeglio, la famiglia Armellini, tutti con almeno un gesuita o un ammiraglio austriaco in casa. Ciò non ha a che fare con la visione “melò” della storia d'Italia, concerne invece la dialettica più aspra della divisione, non solo generazionale ma persino fra coetanei. Ripristinare questa visione è importante tanto per lo straniero quanto per l'italiano.
Il ragionamento mi condurrebbe alla fine al luogo centrale del Risorgimento, l’Aspromonte: è il luogo della tragedia nel senso greco, perché entrambi i contendenti hanno ragione. Non è possibile schierarsi o con gli uni o con gli altri, anche se è ovvio che politicamente era proprio quello che bisognava fare all'epoca, ma in sede storica noi possiamo riconoscere il carattere tragico e intimamente necessario di quello scontro. Necessario perché Roma è un pegno, un simbolo, è il motore del movimento rivoluzionario, è il motore del Risorgimento che ci dice “non è vero che la storia è finita nel 1861”, “non è vero quello che dice Depretis che adesso dobbiamo essere tutti per la governabilità”. Naturalmente qui non sto più parlando del 1862...