Niente di certo, solare o confortante, dunque. La cifra estetica di Noi credevamo è in effetti cupa, tragica, enigmatica e fin anche pessimistica. Ma niente affatto disperata. Una strana speranza cattura infatti lo spettatore disposto a farsi commuovere dal film. Di che speranza si tratta? Quella che sta in un duplice fatto dimostrato da Noi credevamo. Che quel “noi” del passato può tornare a essere anche del presente - non fosse altro nella partecipazione cui induce il film stesso in chi lo segue - e ciò anche se la credenza resta comunque al passato, non può più essere la stessa. In effetti, la passione dei patrioti nel film appare costantemente quasi “in soggettiva”. Nulla porta a prendervi distanze scettiche o accademiche. Tutto è messo in scena in modo che chi guarda si senta dentro, partecipe di quel che succede, quasi direttamente corresponsabile, senza possibili scappatoie, se non parteggiare per le opzioni interne a quel che è divenuto un destino.
Il “noi” di cui tratta Mario Martone è un “noi” che riassume personaggi rappresentati, attori, scene, spettatori, il dispositivo filmico tutto intero, in un unico slancio soggettivo cui le travolgenti musiche di Bellini, Rossini e Verdi magistralmente eseguite da Roberto Abbado danno un’enfasi epica. Battaglie o attentati non riescono, le cospirazioni falliscono, le vendette sbagliano, ma chi si lascia prendere dal film alla fin fine non si trova scoraggiato. Tutto lo induce a pensare che, malgrado le incredibili avversità, non si poteva non tentare come hanno fatto i patrioti nelle loro diverse prospettive. Ed è qui che si accende quel barlume di speranza che fa sì che in questo film, tanto fosco e triste, non sia la disperazione a prevalere.
Azzardando una morale della favola mi verrebbe da dire qualcosa come: le cose vanno male oggi? ebbene non andavano meglio neanche quando sono cominciate, ma la differenza è che allora c’era comunque chi voleva con tutto se stesso, anima e corpo, che andassero diversamente; conclusione: ecco una possibilità in più, un Risorgimento in più di cui tenere conto anche oggi. Motivo di speranza cui si accompagna il fatto abbastanza sorprendente che questo film così poco politicamente corretto e tanto meno edificante non abbia suscitato quella levata di scudi moralistica e nazional-popolare che si poteva anche prevedere. I giudizi prevalentemente postivi hanno in effetti avuto poche eccezioni.
Tra di esse naturalmente ha primeggiato quella riguardante la categoria designante il nemico contro il quale dall’11 settembre 2001 i maggiori paesi occidentali si sono uniti in una guerra non ancora conclusa. Si tratta ben inteso del terrorismo. Oggetto dello scandalo è stata la figura di Mazzini. Nel film lo si vede infatti armeggiare con pugnali e droga, nonché vagheggiare persino “stermini di massa” contro i palazzi del potere, e per di più a Unità fatta. Inoltre Martone stesso ha dichiarato che per lui Mazzini è sia pur vagamente associabile a ciò che oggi si intende con terrorismo. Tuttavia nel film si vede bene che non sono queste sue manovre, per altro sempre più ordite che realizzate, a muovere i patrioti da lui ispirati, la cui coralità sia pur altamente dissonante è la vera protagoniste della storia. La violenza certo non manca, ma attentati e vendette appaiono come fughe in avanti disastrose dettate soprattutto dalle frustrazioni di non riuscire ad agire diversamente. Cosa questa che si fa notare anche oggi quando si ammette che la guerra di annientamento non sia il primo e il migliore mezzo per sradicare il terrorismo. Che tentativi ed atti “da terroristi” non siano mancati nel Risorgimento italiano è comunque fatto difficilmente contestabile, come lo è pure che propensioni simili risultano sempre tanto più probabili quanto più uno spazio politico esistente non trova né sbocchi né interlocutori tra i governanti.
Fino a che punto uno tale spazio politico fosse una viva realtà nell’Italia risorgimentale, Noi credevamo lo mostra narrando soprattutto di alcuni suoi margini, quasi oscuri. Culla di tutta la vicenda è l’aspro e sperduto Cilento. Domenico, Salvatore, Angelo come pure Cristina Belgiojoso, protagonisti della narrazione, sono personaggi marginali e si potrebbe dire perdenti. In più, seguendo la traccia dell’omonimo romanzo di Anna Banti, i momenti più famosi, felici e vincenti del Risorgimento sono trascurati, messi sullo sfondo. Il ’48, la Repubblica romana, la stessa impresa dei Mille, non compaiono se non come echi lontani, in un racconto che abbraccia comunque un tempo che va dagli anni ‘20 agli ’60 dell’800. A dominare la scena sono conciliaboli, dispute anche violente, intrighi, prigionie, morte e sofferenza, e gli eventi maggiormente rappresentati sono l’epilogo cruento dei moti antiborbonici del Cilento, il fallito assassinio di Carlo Alberto, i moti savoiardi del 1834, il disastroso attentato organizzato da Orsini contro Napoleone III, infine, l’Aspromonte dove praticamente si infrangono tutte le prospettive mazziniane e garibaldine di un’unità italiana comunque più endogena che dettata dai giochi diplomatici. Tutta questa catena di insuccessi, assieme alla scarsa notorietà dei protagonisti, può suscitare perplessità. A chi tiene alla retorica apologetica del Risorgimento esso non può non apparire come svilito, incupito.
Ma così invece risalta qualcosa altro cui sono particolarmente dedito come ricercatore della storia e del pensiero politici. Si tratta di una problematica solitamente trascurata o inclusa in altre problematiche. Parlo della passione politica. Il fatto cioè, detto in pochissime parole, che di tanto in tanto nella storia ci si imbatte in sequenze singolari durante le quali c’è una o più generazioni di giovani e meno giovani che sacrificano molto, se non tutto, della loro vita in tentativi di realizzare ideali di maggior giustizia collettiva. Di solito, in questi casi si parla di momenti utopici. Se a volte essi vengono accreditati di qualche effetto positivo, è solo in termini spirituali, mentre molto più spesso sono additati come possibili focolai di terrorismo, proprio perché ciò che ci si immagina durante questi momenti sarebbe sempre ben distante dalla realtà storica. Presupposto fondamentale di simili giudizi, quanto mai diffusi e ricorrenti nella storiografia come nell’opinione pubblica, è che tale realtà storica sia sempre e solo quella misurabile col metro dei poteri economici e/o istituzionali. Così però non si spiega perché a restare come protagonisti infinitamente ristudiati della storia politica risultano non di rado proprio quei pensatori (due nostri esempi maggiori: Machiavelli e Gramsci) e/o quei fenomeni collettivi (altro esempio: i partigiani) che non conquistano, né gestiscono alcun potere economico o istituzionale. È appunto il caso dei patrioti mazziniani di cui tratta Noi credevamo e che lo stesso regista in una dichiarazione non ha mancato di avvicinare a un altro caso di generazione politicamente appassionata: quella di chi era giovane tra gli anni ’60 e ‘70 nella quale anche Mario Martone si è trovato coinvolto.
L’importanza euristica della problematica delle passioni politiche sta nel fatto che essa può rappresentare un’alternativa sia a quella classista, che inquadra ogni realtà storica e sociale in termini di interessi e di lotta di classe, sia a quella neoliberale e cognitivista, che alla base di ogni fenomeno collettivo non vede altro che relazioni interpersonali fondate su comunicazione e identità comunitarie. Ebbene in Noi credevano tutto avviene proprio attorno alle passioni politiche in parte condivise in parte discriminanti. L’amore non c’è, se non per un ideale, l’amicizia non conta, se non per pensare e agire insieme, l’odio si scatena, e a profusione, ma solo contro i nemici della “causa”. Le divisioni di classe certo compaiono, ad esempio nella grande distanza sociale tra due dei protagonisti, nobili, ed un terzo, contadino, ma subito trasfigurano, prima, dentro la fede giurata da tutti e tre alla Giovine Italia, poi, dentro il sospetto di tradimento che porterà a una cruenta vendetta. Né spazio alcuno è lasciato dal film alle relazioni interpersonali, in quanto tali, o alle identità comunitarie. L’Italia stessa, vista spesso da Parigi o Londra (dove i patrioti si rifugiano), appare subito il terreno privilegiato di una contesa ben più ampia che coinvolge i principi di libertà e giustizia in tutta l’Europa del tempo.
La problematica delle passioni politiche non è certo fatta per soddisfare ogni domanda. E in effetti Noi credevamo, film quanto mai pertinente a tale problematica, apre forse più enigmi di quanto non chiude. Un’amica spettatrice, cui Noi credevamo è piaciuto, si è detta però insoddisfatta perché «comunque non si spiega perché lo facevano». Le motivazioni dei patrioti restano in effetti abbastanza misteriose, come alimentate da un fuoco sacro che non si lascia descrivere. Ma ciò non è che una conseguenza del presupposto secondo il quale le passioni politiche non ci sono sempre in ogni tempo (meno che mai - aggiungo - nel nostro, specie in una Italia massimamente apatica nei confronti della politica), cosicché avvicinandosi alle sequenze nelle quali tali passioni bruciano intensamente occorre assumerle in tutta la loro singolarità. Insomma se si volesse spiegare tutto di quello che i patrioti hanno pensato e fatto vorrebbe dire che ci sentiamo depositari di una coscienza o una ragione superiore alla loro, in grado di comprenderli completamente. Non è appunto questo l’approccio di Martone, che anziché esibire una logica capace di decodificare le passioni dei patrioti cerca di seguirne le diverse logiche nella convinzione che esse abbiamo ancora da insegnarci qualcosa di politicamente significativo. Ad esempio: come non rinunciare alla realizzazione dei propri ideali di giustizia anche quando tutto, ma proprio tutto, congiura per renderli impossibili.
Nelle comparse sporadiche e sorprendenti di elementi di attualità (un neon, una struttura abbandonata in cemento armato) c’è anche questo da vedere: l’idea che quel che è stato fatto, pensato e creduto dai patrioti ha pur minimi e precari agganci al nostro presente. Con un’unica differenza cruciale su cui lo spettatore attento è indotto a riflettere: che allora, ben diversamente da ora, c’era comunque una straordinaria effervescenza intellettuale attorno alla politica, tale per cui attorno all’obiettivo di un’Italia unita e meno iniqua pullulava una molteplicità di idee e dibattiti straordinariamente intensi. Un bel tema, questo, oggi tutto da ripensare.
Anche per questo mi pare sia da salutare come notevole evento il fatto che Noi credevamo venga mandato in onda nella televisione pubblica. Trovo si tratti di un evento paragonabile a quello stupefacente del primissimo sceneggiato televisivo che letteralmente mi rapì da bambino, malgrado non capissi il perché. Era I Giacobini di Federico Zardi, dove la Rivoluzione Francese era magnificamente rappresentata come un enorme e labirintico intrigo di passioni politiche e di effervescenza intellettuale al massimo grado, anche in termini creativi. Tutto sembrava ricominciare daccapo, con entusiasmo, intelligenza, astuzia, crudeltà e accanimento, come era appunto in quella Italia del dopoguerra. Nessuna copia di quello straordinario sceneggiato è rimasta. “Ragioni tecniche” ne vollero la distruzione, come è stato confermato anche una decina di anni fa quando venne rievocata a Bologna la figura di Zardi. Ma il compianto amico Arnaldo Picchi aveva nel frattempo provveduto a recuperarne il testo commentandolo con una estrema precisione che lo rende più che mai attuale. Un degno precedente della versione televisiva di Noi credevamo.