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William Gambetta, “I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia”

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William Gambetta, “I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia”, con prefazione di Edoardo Novelli, Roma, DeriveApprodi, 2014, 224 pp.

Il volume propone una narrazione della conflittualità e di alcuni fenomeni sociali che caratterizzarono il “lungo ’68” italiano, ossia quel periodo che va dall’esplosione delle proteste studentesche – che peraltro attraversarono gran parte delle società occidentali lungo un processo di mobilitazione transnazionale – e che in Italia si protrasse fino alla fine del decennio Settanta, con il venir meno del contesto culturale, sociale ed economico da cui numerose lotte avevano tratto alimento. La particolarità del volume non risiede, ovviamente, sul periodo analizzato (su cui si è ormai accumulata una notevole produzione storiografica), quanto piuttosto sulla prospettiva analitica adottata e le fonti privilegiate: i manifesti, uno strumento della comunicazione politica particolarmente amato e usato dai movimenti collettivi sorti con e dopo il Sessantotto. Come noto, il ricorso ai manifesti nella comunicazione e propaganda politica risale grosso modo con l’avvento delle società di massa, non fu certamente un’innovazione comunicativa dei movimenti, e di questo l’autore è ben avvertito. Per il contesto italiano il fascismo ha sicuramente coinciso con una delle fasi di apogeo della comunicazione politica tramite manifesti sempre più attraenti nei soggetti richiamati, efficaci nella trasmissione dei messaggi, moderni nella grafica e nella composizione. Se negli anni Trenta un impiego martellante – almeno nei contesti urbani – di manifesti poteva trovare ragione nell’ancora scarso livello di alfabetizzazione della società italiana oltre che in evidenti politiche propagandistiche, le ragioni del “trionfo” del manifesto negli anni Sessanta e Settanta ci paiono meno scontate.

Certamente, così come spiega William Gambetta, il revival del manifesto ebbe a che fare con la crescita dei consumi di massa, lo sviluppo di nuove tecniche pubblicitarie, con «evidenti mutamenti anche nella propaganda di carattere politico» (179) nonché, e soprattutto, con le originali forme comunicative messe in campo dai “nuovi” e tradizionali attori collettivi che animarono la scena sociale nel “lungo ‘68” per sfidare l’ordine e le autorità istituzionali, nonché a dotarsi di mezzi di “controinformazione” con cui contrastare l’informazione diramata “dall’establishment”. Ebbe a che fare, insomma, con il profilarsi di una situazione di non ordinaria mobilitazione, di transizione verso nuovi equilibri socio-politici in cui, così come si era verificato anche nei primi anni della Repubblica con l’imperversare della guerra fredda – si pensi alla campagna elettorale del 1948 – o come si sarebbe verificato nei primi anni della “seconda Repubblica”, la necessità di mobilitare le forze presenti nella società costituisce un elemento imprescindibile per dare voce alle istanze di mutamento di cui si fecero carico i nuovi soggetti emergenti. In situazioni di questo tipo – di cui paradigmatico rimane il Sessantotto – il manifesto diventa uno strumento attraverso cui richiamare l’attenzione pubblica su parole d’ordine, slogan e universi simbolici attraverso cui offrire una lettura immediata, ma necessariamente anche semplificata, degli obiettivi o delle visioni perseguite. Allo stesso modo, il manifesto diventa anche un efficace strumento comunicativo attraverso cui nuovi soggetti emergenti possono autorappresentarsi, offrire paradigmi identitari alternativi a quelli tradizionali e consolidati. Su quest’ultimo punto è particolarmente illuminante il capitolo che Gambetta dedica alle donne, evidenziando come le diverse rappresentazioni tradizionali proposte dai partiti furono di fatto infrante dal movimento di liberazione delle donne, che di fatto obbligò i partiti ad allentare la presa sui più radicati stereotipi femminili per confrontarsi con donne reali, soggetti attivi della propria storia (89-103). Va aggiunto infine che la stessa pratica dell’affissione di manifesti – l’attacchinaggio – divenne di per sé uno strumento di azione politica per almeno due ragioni: in primo luogo perché divenne una pratica di partecipazione, di «iniziazione alla militanza politica» (68) che richiedeva impegno, coraggio, disponibilità a esporsi a situazione non sempre prive di rischi. Quest’ultimo aspetto è strettamente legato alla seconda valenza politica intrinseca alla pratica dell’affissione di manifesti, ossia la ricerca mirata e consapevole di occupazione di spazi fisici, la volontà di portare parole e immagini là dove queste possono apportare provocazione, sollecitare reazioni, e, eventualmente ottenere nuove adesioni alla propria causa.

Fino a qua l’autore illustra la rinascita del manifesto in rapporto a processi di «presa della parola» da parte dei nuovi attori collettivi di quel periodo. Emerge tuttavia, e questa è una seconda importante dimensione analitica dello studio, come il ricorso alla comunicazione attraverso i manifesti abbia contribuito a una semplificazione fuorviante della lettura del contesto, dei problemi, delle dinamiche in corso in Italia dopo le eruzioni vulcaniche del Sessantotto. A fronte di uno scenario complesso, caratterizzato dall’emersione di nuovi attori collettivi, dalla trasformazione del lavoro e dall’emersione di nuovi dati strutturali (la disoccupazione in primis), dalle potenti pressioni a cui mutamenti macroeconomici in atto su scala globale stavano iniziando a sottoporre anche il tessuto produttivo italiano, a fronte di uno scenario che richiedeva uno sforzo di analisi atto a superare i paradigmi interpretativi dominanti, prevalse l’attitudine a evitare di riconoscere la complessità, privilegiando logiche binarie e dicotomiche, incentrate su una contrapposizione frontale tra vittime e carnefici, oppressi e oppressori, “giusti” e delegittimati. Questo aspetto emerge con particolare evidenza in merito ai manifesti tematizzanti la violenza politica nelle sue diverse manifestazioni, cui l’autore dedica l’ultimo capitolo del suo studio. Con riferimento al recente dibattito storiografico in merito al termine “terrorismo”, l’autore ha optato per un uso virgolettato dello stesso al fine di creare una distanza critica e consapevole rispetto all’uso che ne fa. Pur condividendo la necessità di una piena consapevolezza storica per qualsiasi concetto impiegato in ambito storiografico, si ritiene che in merito all’impiego del lemma “terrorismo” si stia manifestando una eccessiva cautela. Si ha tuttavia l’impressione che tanta cautela sia dettata più dalla volontà di sottrarsi a un giudizio o a un posizionamento – come lascia supporre la recente entrata in circolazione del neologismo “lottarmatismo” in sostituzione a terrorismo – che non da una autentica attenzione alla connotazione storica della terminologia impiegata.

Complessivamente lo sguardo d’insieme che il volume offre, rappresenta un arricchimento importante allo studio del “lungo ‘68” proprio per la prospettiva analitica adottata e le fonti utilizzate. L’autore riesce a rendere conto in maniera convincente, perché accuratamente documentata e metodologicamente ben sviluppata, della vivace dinamica di interazione comunicativa tra movimenti e partiti. Nonostante la posizione di evidente predominio politico in cui quest’ultimi si trovavano anche negli anni più turbolenti, i partiti furono obbligati a recepire e a rispondere alle sfide lanciate dai movimenti anche sul piano comunicativo delle rappresentazioni e del linguaggio utilizzato, nonché nelle modalità e nelle forme attraverso cui rivolgersi ai soggetti sfidanti.