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Comunicare storia

Montaggi metropolitani. Döblin, Berlin Alexanderplatz

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Premessa

Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin è uno dei grandi romanzi urbani del Novecento, esso ha modificato profondamente le modalità di rappresentazione della città contemporanea. La lettura di questo romanzo ci permette di esplorare due fondamentali dimensioni dell’esperienza urbana di quegli anni: la trasformazione tecnologica che muta profondamente l’organizzazione, le infrastrutture e i tempi che regolano il funzionamento del grande manufatto urbano; le tensioni, sociali e psichiche, che attraversano un mondo urbano sconvolto dalle innovazioni tecnologiche che mutano le abitudini e i ritmi della vita quotidiana e si dispiegano dentro ad una società nella quale la guerra, la sconfitta, la rivoluzione democratica hanno fatto venire meno le stabili gerarchie sociali e di genere sulle quali poggiava il rassicurante mondo guglielmino. Il romanzo ha il merito di restituire questi cambiamenti attraverso una profonda innovazione nelle tecniche della narrazione che segnano una discontinuità profonda rispetto al grande romanzo borghese ottocentesco e ai suoi modi di rappresentazione della società. Il montaggio, uno strumento espressivo inaugurato dal dadaismo berlinese, che Döblin adotta felicemente come principio della sua narrazione, permette infatti di restituire la multiforme vita della grande città, le forze che la muovono, «l’oggettività» dei suoi processi tecnologici, la pluralità delle norme burocratiche che governano la vita sociale. La fragilità dell’individuo che si trova a vivere in questo ambiente ricchissimo di risorse, ma assai esigente sul piano sociale è il contraltare di questa originale indagine sulla grande città. Döblin, infatti, non si ferma alla contemplazione estetica della metropoli, né si limita a deprecare la distruzione della vita sociale che essa avrebbe provocato, ma esplora in profondità le sue tensioni con freddezza analitica anche quando si spinge ad indagare gli aspetti più violenti e penosi della vita urbana, pur non facendo mancare, al tempo stesso, simpatia e partecipazione nei confronti delle difficoltà dei suoi personaggi.

Ernst Ludwig Kirchner, Potsdammer Platz, 1914, Olio su tela, 200 x 150 cm, Nationalgalerie, Staatliche Museen zu Berlin.
Ernst Ludwig Kirchner, Potsdammer Platz, 1914, Olio su tela, 200 x 150 cm, Nationalgalerie, Staatliche Museen zu Berlin.

Questo romanzo si apre a molteplici percorsi di lettura, farò riferimento a due aspetti che mi sembrano particolarmente utili per l’indagine storica sulla vita urbana degli anni Venti: il primo riguarda la violenza che regola i rapporti di genere in tutto il romanzo, e che richiede un’ampia contestualizzazione del tema nella cultura tedesca del dopoguerra; il secondo che riguarda la rappresentazione della città e il rapporto psichico che il protagonista instaura con essa.

Tensioni erotiche, pulsioni di morte, spazio metropolitano

Nella cultura tedesca di fine Ottocento, la visione della metropoli moderna come simbolo della degenerazione dei sani valori che fondavano l’ethos germanico era molto diffusa. La città appariva come un rigido scheletro di acciaio e cemento che soffocava l’anima e frantumava l’individualità rendendola un atomo di una folla anonima e senza volto. Rembrandt als Erzieher (1890), l’opera di Julius Langbehn che è stata la bibbia di una nuova generazione di disorientati giovani tedeschi e ha incontrato il favore di una borghesia diffidente verso la modernità, imputava all’illuminismo e alla metropoli moderna la responsabilità della decadenza culturale dell’occidente, alla quale Langbehn [1891] contrapponeva la profondità interiore che promana dalle figure di Rembrandt.[1] Trent’anni dopo, un grande best seller della Germania weimariana vedeva nella metropoli tecnologica la stazione terminale del ciclo di una civiltà, il luogo nel quale ethos, patrimonio simbolico, energia vitale si andavano a spegnere in uno scenario ipertecnologico freddo e spettrale nel quale brulicavano masse inquiete spiritualmente sterili: era il tempo, secondo Oswald Spengler [1957], del Tramonto dell’Occidente.

Lo spazio delle metropoli, in particolare quello di una grande città molto giovane come Berlino, sembrava rispondere perfettamente ai canoni della razionalità astratta che ha prodotto la modernità: spazio geometrico, povero di qualità simbolica e riducibile a formule che ne progettano la quantità. Ecco, proprio l’apparente trasparenza razionale che governa il disegno della metropoli moderna entra in collisione con l’imperfetta creaturalità della natura umana che fatica ad adattarsi ad esso, alla sua astratta rigidità, così che la tensione generata da questo contrasto, non riuscendo a trovare composizione nello spazio sociale, si manifesta come patologia individuale. L’esperienza dello spazio urbano berlinese metteva Siegfried Kracauer a continuo contatto con questa duplicità: l’apparente stabilità, l’efficiente organizzazione, la perfezione tecnologica che governavano la metropoli finivano per annichilire la presenza umana che sembrava diventare parte di un congegno meccanico suscitando un sentimento di estraneità che facilmente si tramutava in timore e panico. L’ambiente urbano era perciò percepito come un’alienata realtà oggettiva che non offriva alcuna possibilità di identificazione affettiva. L’attraversamento del sottopassaggio vicino alla stazione di Charlottenburg è paradigmatico di questa sinistra esperienza metropolitana:

È proprio la contrapposizione tra il sistema costruttivo, compatto e imperturbabile, e il confuso dileguare degli esseri umani a suscitare il terrore. Da un lato, il sottopassaggio: un’unità stabile e ben ponderata, in cui ogni bullone e ogni mattone se ne sta al suo posto e partecipa dell’intero. Dall’altro, gli uomini: parti e particelle sempre scisse l’una dall’altra, inconciliabili schegge di un intero che non è mai dato. Sanno stabilire una connessione tra muri, archi e pilastri, ma sono incapaci di organizzare se stessi in una società. Vista attraverso quel perfetto sistema di morta materia, la caotica imperfezione del vivente si rivela impressionante, spaventosa [Kracauer 1932, 53].

Paul Leni, Il gabinetto delle figure di cera (1924). Luci espressioniste, Berlin.
Paul Leni, Il gabinetto delle figure di cera (1924). Luci espressioniste, Berlin.

Questa inquietante estraneità allo spazio metropolitano si condensa in alcune figure urbane oggetto della cronaca nera, della rappresentazione artistica e della fantasia popolare. Nel corso della prima guerra mondiale, e del primo dopoguerra, il rapporto tra i sessi era infatti radicalmente cambiato, minacciando di alterare la solida gerarchia che regolava il controllo maschile del corpo femminile. È su questo sfondo sociale che prosperano fantasmi che mettono in scena le paure maschili di essere soggiogati dal potere di seduzione delle donne, generando reazioni violente e prive di controllo come il Lustmord, l’omicidio a sfondo sessuale, oggetto di dipinti di Otto Dix e Georg Grosz, del quale si registra un sensibile incremento a Berlino negli anni della prima guerra mondiale [Hirschfeld 1930]. Jack lo squartatore, e l’abbondante letteratura popolare che ne riprende la figura, assai presente nella biblioteca privata di Georg Grosz, ispira opere figurative, romanzesche e cinematografiche nella Berlino weimariana: dal Gabinetto delle figure di cera (1924) di Paul Leni e Leo Birinsky, al capolavoro di Wilhelm Pabst, Die Büchse von Pandora (1929), trasposizione cinematografica del dramma di Wedekind che colpì anche Alban Berg, nel quale la seducente Louise Brooks, incarnazione di una femminilità innocente, amorale e perversa viene uccisa nel finale londinese da un omicida seriale. Jack the Ripper compare anche con un registro ironico nell’opera teatrale di maggiore successo della Berlino weimariana, L’opera da tre soldi di Brecht, mentre il nesso metropoli, morte e sessualità è al centro della sofisticata rielaborazione di Döblin in Berlin Alexanderplatz.

Manifesto del 1929 del film di Wilhelm Pabst Il vaso di Pandora.
Manifesto del 1929 del film di Wilhelm Pabst Il vaso di Pandora.

L’ossessione per i minacciosi fantasmi della femminilità che agitano l’immaginario weimariano permette di qualificare l’assassinio della donna come una sorta di difesa, risarcimento, riscatto. La trasposizione filmica di Wedekind nel film di Pabst è emblematica: Louise Brooks, Lulù, cade nelle mani di Jack the Ripper che la uccide, ma dietro di lei ha lasciato una sequela di vittime maschili: mariti, amanti, ammiratori tutti soggiogati dalla sua forza di seduzione che li conduce in un abisso. All’indomani della fine di un terribile conflitto, le nuove, emancipate figure femminili costituivano una minaccia per l’identità maschile messa già a dura prova dalla sconfitta. Il carnefice poteva così presentarsi paradossalmente come vittima e la sua violenza come riparatrice, con un significativo parallelismo con la rielaborazione dell’esperienza di guerra che il nazismo avrebbe abilmente inscenato e strumentalizzato: il soldato tedesco, tradito dai vertici politici e militari, dai civili imboscati e dalle cospirazioni dell’internazionalismo ebraico, viene infine ferito a morte dalle donne che escono dalla guerra con un rinnovato slancio di emancipazione che ne affranca la sessualità rendendola un’arma da poter usare contro gli uomini.

I rapporti di genere nel romanzo di Döblin sono pervasi da una violenza continua, talvolta aperta, più spesso sottile. Le donne sono, di volta in volta, strumento per validare la propria virilità, come quando Biberkopf violenta la cognata per provare a sé stesso di non essere impotente, o mezzi di scambio, pedine del gioco omoerotico che lega sinistramente Franz a Reinhold, o addirittura oggetto di una violenza plateale volta a cancellarne la presenza, come nell’assassinio di Mieze da parte di Reinhold in un bosco del Brandeburgo:

Fuori della baracca. Il cappello è rimasto lì. Adesso mi picchia, io corro e prima ancora che lui si sia alzato dal mucchio di erba, lei comincia a gridare, chiama Franz e corre. Reinhold è in piedi, corre anche lui, e d’un balzo le è sopra, lui è in maniche di camicia. Tutti e due accanto a un albero, distesi. Lei sgambetta, lui le è sopra, le tiene chiusa la bocca: «Ti metti di nuovo a gridare, carogna? Ti metti di nuovo a gridare? E perché gridi? Cosa ti faccio? Non puoi star zitta? Ti ricordi quel giorno che lui a momenti ti ammazza? Sta’ attenta che con me va peggio». (…)

Il suo tempo, il suo tempo, ogni cosa a suo tempo. Uccidere e guarire, demolire e costruire, strappare e cucire, tutto a suo tempo. Lei si rivolta per sfuggirgli. Dentro alla baracca lottano. Franz, aiuto.

Vedrai che ci si riesce, e al tuo Franz gli giocheremo uno scherzetto che se ne ricorderà per un pezzo. «Voglio andare». «Sentila, che se ne vuole andare, più se n’è voluta andare».

Le sta in ginocchio sulla schiena, le mani le stringono il collo, i pollici premono la nuca e il corpo di lei si contrae, si contrae, si contrae. Il suo tempo, tutto ha il suo tempo, nascere e morire, nascere e morire, ogni cosa ha il suo tempo.

Assassino dici e intanto mi attiri qua e forse pensi di tirarmi per il naso, ma non conosci bene Reinhold, tu.

Potente, forte. C’è un mietitore, si chiama Morte, Iddio l’ha fatto potente e forte. Lasciami. Lei tira calci, sgambetta. Il bimbo ce lo culleremo noi e vengano i cani a mangiare ciò che di te resterà.

Il suo corpo si contrae, si contrae, il corpo di Mieze. Assassino, mi dici, se ne deve accorgere, gliel’ha fatta bella, il suo, il suo caro Franz.

Poi con una clava di legno si dà un colpo sulla nuca dell’animale e col coltello gli si aprono le vene del collo ed il sangue lo si raccoglie in una bacinella di metallo. [386-88]

La distruzione dei canoni della rappresentazione urbana: il montaggio

Paul Citroen, Metropolis, 1923, Collage, 76 x 59 cm, Prentenkabinet der Rijksunversiteit, Leiden, the Netherlands. c 1997 Paul Citroen/Licensed by VAGA, New York.
Paul Citroen, Metropolis, 1923, Collage, 76 x 59 cm, Prentenkabinet der Rijksunversiteit, Leiden, the Netherlands. c 1997 Paul Citroen/Licensed by VAGA, New York.

La tecnica del montaggio come strumento di decostruzione e ricostruzione degli elementi della realtà deve molto all’esperienza artistica del dadaismo, il principale movimento d’avanguardia nella Berlino del dopoguerra. Per i dadaisti il montaggio assumeva una funzione decostruttiva e nichilista, di sarcastica denuncia della bancarotta del mondo borghese Guglielmino, dei suoi simboli, valori e delle sue forme di rappresentazione. La realtà caleidoscopica e fuori controllo del dopoguerra esplodeva nel nonsense e nell’assenza di confini simbolici: il dadaismo aggrediva la città con la sovversione semiotica, sfidava le istituzioni dell’arte borghese, rinnegava ogni consolidata tradizione, ma soprattutto sbugiardava la fragilità della struttura di potere che presiedeva alle gerarchie del gusto e del giudizio artistico che formavano il capitale economico e simbolico dell’arte.

Georg Grosz and John Heartfield, Leben und trieben im Universal-City, 12 Uhr 5 Mittags, 1919, Collage, dettagli e luogo sconosciuti.
Georg Grosz and John Heartfield, Leben und trieben im Universal-City, 12 Uhr 5 Mittags, 1919, Collage, dettagli e luogo sconosciuti.

Nel corso degli anni Venti il significato del fotomontaggio si venne vieppiù precisando, anche teoricamente, come decostruzione degli elementi della realtà fenomenica e ricostruzione interpretativa dei processi che la costituiscono: ogni realtà veniva così considerata come un processo interpretativo. L’intento dei fotomontaggi di Heartfield, dadaista della prima ora e acuto illustratore degli anni di Weimar, era quello di smontare il senso comune, la cosiddetta normalità, per mostrarne la funzione sociale secondo un principio caro a Majakovsky, per il quale nell’arte rivoluzionaria la funzione prevale sulla forma e sul contenuto. Il montaggio divenne così uno strumento fondamentale per la rappresentazione urbana in una città come Berlino che, come scrive Kracauer, non può essere colta attraverso un’immagine unitaria e prospettica come accade per i panorami parigini. Berlino, infatti, sembra una giungla:

È priva di forma quanto la natura e, nella misura in cui si costituisce inconsapevolmente, assomiglia a un paesaggio. Incurante del proprio aspetto, affiora e dilegua nel corso del tempo.[…]

Questo paesaggio è Berlino colta di sorpresa. In esso, cresciuto spontaneamente com’è, trovano espressione senza nemmeno averne avuta l’intenzione i suoi contrasti, la sua crudezza, la sua apertura, le sue contiguità, il suo splendore. La conoscenza delle città è connessa alla decifrazione delle loro cosiddette immagini oniriche [Kracauer 1931, 55 e 57].

Il paesaggio urbano risulta così dall’osservazione fenomenologica delle sue forme eterogenee. Benjamin, sulla scorta del surrealismo, avrebbe tratto i frutti più maturi da questo approccio: guardare alla città come ad un paesaggio naturale e incantato, svelando, grazie alla dialettica dello shock e della rammemorazione, i rapporti sociali che la costituiscono, dietro quell’immagine naturalizzata e pietrificata. L’impossibilità di uno sguardo di insieme e la molteplicità e simultaneità dei piani di osservazione rendono il montaggio una tecnica indispensabile per rappresentare la Berlino weimariana. Un linguaggio che, formatosi nell’ambiente dadaista, avrebbe finito per coinvolgere le variegate espressioni della cultura visuale weimariana, dai cartelloni pubblicitari, al teatro, al cinema. Anche la radio, che cambia il paesaggio sonoro della città negli anni Venti, è organizzata con una particolare forma di montaggio, il palinsesto radiofonico, prodotto delle subculture metropolitane dello spettacolo. Ma è nel cinema che il montaggio rivela le maggiori potenzialità nella rappresentazione urbana.

Berlin Symphonie einer Groβstadt, di Walter Ruttmann (1927). Manifesto del film.
Berlin Symphonie einer Groβstadt, di Walter Ruttmann (1927). Manifesto del film.

Tra i tanti film che hanno oggetto Berlino negli anni Venti, due si elevano sugli altri lasciando un segno indelebile sull’immagine della città: Berlin Symphonie einer Groβstadt (1927), di Walter Ruttmann, e Menschen am Sonntag (1930), di un collettivo formato da giovanissimi registi che avrebbero avuto una gloriosa carriera a Hollywood: i fratelli Kurt e Robert Siodmak, Fred Zinneman, Edgar Ulmer, Billy Wilder. In questi film non vi sono attori professionisti, le immagini sono prese direttamente dalla città e i frammenti della vita urbana vengono poi montati dai registi costruttori-montatori: la vita quotidiana di Berlino è il cuore della rappresentazione.

Tuttavia questi due film ci mostrano come una medesima tecnica possa rispondere a principi artistici assai diversi. Nel caso di Ruttmann il principio della composizione è essenzialmente ritmico e basato su figurazioni in rima. I nessi tra gli elementi che costituiscono la tessitura del film discendono da una logica compositiva che risponde a criteri rigorosamente formali che trasfigurano le immagini della grande città attraverso un processo di formalizzazione ed astrazione che ha nel ritmo, nella musica e nell’associazione di tipo estetico il suo elemento connettivo. Gli elementi presi dalla realtà vengono utilizzati in funzione della composizione, della sinfonia della grande città. Al montaggio non veniva perciò assegnata una funzione metaforica, o di ingegneria emozionale, come per Eisenstein, né di apertura immaginativa come nella poetica degli oggetti di tipo surrealista perché gli oggetti-luoghi metropolitani venivano chiusi in una composizione che aveva lo scopo di restituire il movimento e il ritmo delle forme della città. L’apertura del film, con uno specchio d’acqua ondeggiante che si trasforma pian piano in una sequenza di forme astratte e parallele che inclinandosi vengono poi di nuovo trasformate in realtà, vale a dire nelle barre del passaggio a livello che aprono la via al treno diretto verso la stazione di Berlino, è in questo senso un manifesto: vale a dire un esercizio di trasposizione della realtà in pura forma e poi della pura forma nell’oggettuale tecnologico-metropolitano. Si trattava di un gioco intellettualistico perché Berlino nel film non veniva esplorata, ma era piuttosto il prodotto di un’immaginazione estetica che l’aveva preconfezionata, l’esatto contrario del cinema-verità. Se il fascino della metropoli nasce dalle interazioni sociali che definiscono il suo paesaggio, qui troviamo invece soltanto delle forme estetiche.

Menschen am Sonntag (1930), di Kurt e Robert Siodmak, Fred Zinneman, Edgar Ulmer, Billy Wilder.
Menschen am Sonntag (1930), di Kurt e Robert Siodmak, Fred Zinneman, Edgar Ulmer, Billy Wilder.

Anche Menschen am Sonntag (1930) è un film costruito attraverso il montaggio di immagini documentarie di Berlino. Esso è tuttavia privo del feticcio della realtà-verità. Sulle immagini di un documentario sulle domeniche dei berlinesi viene infatti inserita una storia di finzione interpretata da attori non professionisti. I protagonisti sono caratterizzati socialmente in modo molto preciso (una commessa, un taxista, un rappresentante di vini, una modella) e sono espressione di una nuova generazione metropolitana che si identifica attraverso i consumi di massa e la cultura commerciale, lasciandosi alle spalle le tradizionali subculture di classe che ancora caratterizzano i grandi quartieri operai della città. I pezzi di realtà messi insieme in Menschen am Sonntag restituiscono il caleidoscopio urbano come molteplicità espressiva dell’umanità che la abita. L’indagine sul volto dei protagonisti sottolinea peculiarità e differenze, evidenzia la singolarità e la mutevolezza, enfatizza l’espressività che scandisce l’intonazione della storia. L’originalità del film sta proprio in questo suo sguardo aperto: l’occhio incosciente della cinepresa apre il mondo dei quattro protagonisti facendone un monumento storico, vale a dire facendolo parlare da solo per ciò che è.[2] L’abilità registica di Menschen am Sonntag risiede proprio in questa capacità di far parlare volti e gesti di personaggi presi dalla quotidianità chiamati a recitare una storia del tutto plausibile. Anche in questo film la città è movimento, organizzazione, tecnologia, ma tutto ciò non genera angoscia: Menschen am Sonntag è un film di integrazione, praticata e possibile, di città e natura, modernità e piacere. Intimità e metropoli celebrano la loro relazione grazie ad una capacità di introspezione che apre dei significati, non è chiusura sinfonica o sintesi estetica: i volti, le espressioni, i pensieri di quei giovani della metropoli aprono orizzonti di senso che dallo schermo si riversano di nuovo nell’esperienza metropolitana. La metropoli-macchina è presente anche in Menschen am Sonntag, ma rimane sullo sfondo; in primo piano si stagliano invece il broncio e il sorriso, la gelosia e la gioia di queste fresche figure berlinesi, inconsapevoli di trovarsi sulla soglia di una terribile catastrofe e che a noi odierni spettatori non possono che suscitare una profonda e struggente tenerezza.

Montaggi urbani: Berlin Alexanderplatz

Copertina della prima edizione del libro Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin (1929).
Copertina della prima edizione del libro Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin (1929).

Anche Berlin Alexanderplatz è costruito attraverso il montaggio, esso ci permette di indagare la trasformazione della città come manufatto modernista e il rapporto tra il cambiamento dell’ambiente urbano e la vita psichica degli individui che lo popolano. Così Benjamin ne tratteggiava la novità nella sua recensione:

Il principio stilistico di questo libro è il montaggio. In questo testo compaiono stampe piccolo-borghesi, storie scandalistiche, casi sfortunati, sensazioni del ’28, canti popolari, inserzioni. Il montaggio pervade il «romanzo», lo pervade nelle strutture, anche stilisticamente, ed apre nuove possibilità, soprattutto epiche. Anzitutto formali. Il materiale del montaggio non è affatto materiali qualsiasi. Il montaggio vero si basa su documenti. Il Dadaismo, nella sua fanatica battaglia contro l’opera d’arte, ha fatto, attraverso questo, della vita pratica un’alleata. Ha, per prima cosa, anche se con incertezza, proclamato il potere assoluto dell’autenticità. Il film, nel suo momento migliore, faceva atto di abituarci al montaggio. Qui è divenuto per la prima volta utilizzabile per l’epica. I versi della Bibbia, statistiche, slogan, sono elementi in virtù dei quali Döblin conferisce autorità allo svolgimento epico. Corrispondono ai versi stereotipi dell’epica antica [Benjamin 1966].

Il protagonista del romanzo di Döblin è Berlino, non il povero Biberkopf che di essa è in balia. Biberkopf è solo uno dei tanti che vivono la condizione metropolitana e i frequenti inserti di fatti di cronaca montati nel romanzo-macchina di Döblin ci presentano infatti spezzoni di vita di molti altri personaggi che non sono integrati nel tessuto narrativo, ma dei quali si documenta la casuale presenza in tram, agli angoli della strada o negli spazi attraversati da Biberkopf. Questi documenti di realtà entrano nel romanzo senza che la narrazione sia in grado di dominarli, di attribuire loro uno senso. L’autore non è più il deus ex machina, il creatore del grande romanzo borghese ottocentesco, il testo di Döblin si avvicina piuttosto all’epica perché l’autore si mette sul piano del lettore, è tuttalpiù, come amava definirsi Heartfield, un monteur, un meccanico.

Così si apre il Libro Quinto del romanzo:

Brum, brum: davanti a Aschinger nell’Alex strepita il battipalo a vapore. È alto quanto il piano di una casa e come niente infila i pali di ferro per terra.

Aria di neve. Febbraio. La gente va intorno infagottata. Chi ha una pelliccia la porta, chi non l’ha va senza. Le donne hanno le calze sottili e devono aver freddo, ma sono carine. Dinanzi al freddo sono scappati a rintanarsi anche i lazzaroni…

Brum Brum, pesta il battipalo in Alexanderplatz. Molta gente ha tempo e si ferma a guardare come lavora la macchina. Un uomo sta in cima, tira una catena, e in alto qualcosa scatta, zac, e il palo si piglia un colpo sulla testa …

Rrrrr, cigolano i tram, gialli coi rimorchi attraverso l’Alexanderplatz ricoperta di tavole, è pericoloso saltar giù dal tram. La stazione della ferrovia sotterranea è tutta scoperta. Il tram fa il giro della Königstraße, davanti ai magazzini Wertheim. Chi vuole andare verso est deve fare il giro intorno al presidio attraverso la Klosterstraße…

Loeser e Wolf con l’insegna a mosaico l’han spazzato via, 20 metri più in là, davanti alla stazione, è già su nuovo. Loeser e Wolff, Berlin-Elbing, merce di prima qualità per tutti i gusti, Brasil, Havanna, Mexiko, Kleine Trösterin, Liliput, sigaro n. 8, 25 pfennig al pezzo, Winterballade, confezione da 25 pezzi, 20 pfennig, zigarillos n. 10, standard, Sumatra, un’occasione a questo prezzo, casettine da cento pezzi, 10 pfennig….

Vicino ai Prälaten c’è posto e ci stanno i carretti delle banane. Date banane ai vostri bambini. La banana è il frutto più pulito, perché la buccia la protegge dai vermi, dagli insetti e dai bacilli. Ad eccezione di alcuni vermi, insetti e bacilli che passano attraverso la buccia….

Da est, Weissensee, Lichtenberg, Friedrichshain, Frankfurter Allee, arrivano sulla piazza, traversando la Landsberger Straße, le vetture gialle del tram. Il 65 viene dal Mattatoio centrale, Grosser Ring Weddingplatz, Luisenplatz, il 76 da Hundekehle, traversando la Hubertusallee. All’angolo della Landsberger Strasse hanno liquidato, nel magazzino di Federico Hahn, ed ora è tutto vuoto e nelle mani di Dio. Lì c’è la fermata del tram e dell’autobus 19 Tramstrasse…[Döblin 1974, 183-85].[3]

La metropoli funziona secondo una serie di logiche autonome che Döblin può soltanto mostrare: l’impresa AEG, la tabella oraria dei treni, l’organizzazione dei dipartimenti dell’amministrazione municipale, le condizioni metereologiche, tutto ciò e molto altro definisce l’ambiente urbano. Döblin può soltanto cercare di restituire la complessità semiotica della piazza, i segni che la arredano, i flussi che vi si incontrano, le reti che ne costituiscono la tessitura tecnologica e sociale. Per Döblin la città irrompe nel testo fagocitando l’autore e il suo protagonista e mette così in scacco i presupposti stessi della forma romanzo. Certo, è l’autore a raccontare la storia di Biberkopf, ma come il suo personaggio non è in grado di governare la città e i suoi effetti, è piuttosto in balia di essi. Crisi del romanzo è il titolo del saggio di Benjamin su Berlin Alexanderplatz: il testo di Döblin interrompe la storia del grande romanzo borghese e rappresenta un singolare prodotto della combinazione di epica e montaggio. Nei suoi saggi, Döblin aveva spiegato che il genere epico fa svanire l’autore che non è più regista, individuo onnisciente che domina l’intreccio romanzesco, ma semplicemente un curatore che accompagna gli eventi con una serie di commenti, avvertimenti e riflessioni [Döblin 1963 (1924), 62-83; 1989 (1929), 215-244]. L’autore tuttavia non scompare nello sfondo di un ethos condiviso, lentamente formatosi attraverso le mille voci di una tradizione orale, come nell’epica classica; è invece consapevole del fatto che qualcosa sfugge, che qualcosa manca sempre. L’autore si pone con atteggiamento riflessivo, esercita un soggettivo giudizio, una meditata riflessione eppure è consapevole che ciò non può garantire il suo personaggio da future cadute. E le cadute arrivano, inesorabili, nonostante i buoni propositi. Biberkopf non è padrone del suo destino, prova a guidarlo, ma c’è qualcosa che è più grande di lui, delle forze delle quali è in balia. Si badi bene, non ne è annichilito perché cade, sì, ma si rialza sempre, anche senza un braccio si può vivere attorno alla Alexanderplatz.

Il romanzo di Döblin rappresenta un superamento della cultura antiurbana pur non essendo un’ingenua apologia del modernismo. In Döblin non vi è alcun nostalgico romanticismo, la città non è l’antitesi dello spirito o dell’interiorità secondo le svariate retoriche della Kulturkritik weimariana, è anzi il fluido del quale si nutre la vita di Biberkopf e della moltitudine che abita la metropoli, con le sue icone, i suoi idioletti, la complessità semiotica che il suo spazio è capace di sprigionare. Le città sono il fulcro dell’energia sociale, ad esse non ci si può opporre le si può solo accettare, quando anche ci faccia orrore quello che in esse accade.

Nella rete metropolitana ogni nodo è un frammento simmeliano che implica l’intero contesto, ma non è possibile dare un ordine sequenziale o gerarchico a questi nodi, manca il codice che ci permetta di decifrarli; soltanto da qui, da questa assenza è possibile parlare di un mistero metropolitano. La metropoli non va in crisi per questa assenza, la sua logica spaziale e funzionale si regge su una razionalità rizomatica che per definizione non è unificabile dallo sguardo di un soggetto: è questa l’esperienza dell’ignoto metropolitano che genera angoscia per coloro che non hanno imparato ad abbandonarsi alla corrente e ad essa anzi resistono. Questa è l’angoscia che assale Biberkopf quando esce dal carcere di Tegel e viene coinvolto nel vortice metropolitano. Biberkopf prova un moto di nostalgia per le protettive mura della prigione, ma lo avevano rilasciato: «tutto è regolato e il burocrate fa il suo dovere. E io devo andare sempre più avanti, ma Dio mio non vorrei, non posso» [21]. Ciò che provoca lo sgomento di Biberkopf è proprio il contrasto tra la vertigine percettiva prodotta dalla città nel suo insieme e l’apparente naturalità dei suoi singoli particolari:

Il tram prese una curva, si pararono in mezzo alberi, case. Strade movimentate, gente che scendeva e saliva. Dentro di lui qualcosa gridava con terrore: attenti, attenti, si comincia. La punta del naso gli si era gelata, sopra la testa sibilava: «Mittagszeitung!» «B.Z.» «Die neust Illustrierte.» «L’ultimo del Radiocorriere!» «Biglietto, qualcuno ha da fare il biglietto?» i vigili avevano una divisa azzurra adesso. Inosservato scese dalla vettura, si trovò in mezzo alla gente. Che cos’era, che cosa succedeva? Niente. Sta’ in gamba, morto di fame, tien duro, se no, sono cazzotti! Confusione, che confusione. Tutto girava attorno. Il mio cervello non ci ha proprio più condimento, è diventato completamente secco. Cosa era tutta quella roba! Negozi di scarpe, cappellerie, lampade elettriche, osterie. La gente ci ha ben bisogno di scarpe se deve andare tanto in giro, anche noi avevamo una calzoleria. Cento vetrate lucide, e lasciale luccicare, non ti faranno mica paura, e, se vuoi, le puoi fracassare tutte quante, ma cos’hanno di strano, sono state ripulite proprio adesso. Sulla Rosenthaler Platz disfacevano il selciato, e in mezzo agli altri dovette passare su assi di legno. Ci si mischia con la gente, tutto passa, non ti accorgi di niente, figliolo. Nelle vetrine stavano manichini con abiti, cappotti, sottane, calze, scarpe. Fuori ogni cosa si muoveva, ma, la dietro … niente! Niente viveva. Avevano facce allegre, ridevano, aspettavano, a due, a tre sul salvagente di faccia a Aschinger, fumavano sigarette, sfogliavano giornali. Fermi come tanti lampioni, sempre più immobili. Tutt’uno con le case, ogni cosa bianca, tutto legno.

Trasalì, quando scendendo per la Rosenthaler Straße vide seduti in un’osteria, presso la finestra, un uomo e una donna: si versavano in gola la birra, già; cosa c’era di strano? stavano appunto bevendo e avevano in mano delle forchette e con esse infilzavano pezzi di carne e se li mettevano in bocca, poi riportavano fuori le forchette e non sanguinavano. O, non riuscirò mai a liberarmene, il suo corpo si era contratto, convulso, dove andrò? Qualche cosa rispose: il castigo. (…)

I tram facevano un gran rumore e scampanellavano, le facciate delle case correvano una dietro l’altra senza fine. E sulle case c’erano tetti che parevano quasi oscillare, i suoi occhi si alzavano spaventati: purché i tetti non sdrucciolino giù, ma le case stavano salve. Dove vado a sbattere, io, povero diavolo? E si strascinava lungo le pareti delle case senza vederne la fine. [20-21]

Ernst Ludwig Kirchner, Nollendorf Platz, 1912, olio su tela, 69 × 60 cm, Stiftung Stadtmuseum Berlin.
Ernst Ludwig Kirchner, Nollendorf Platz, 1912, olio su tela, 69 × 60 cm, Stiftung Stadtmuseum Berlin.

Salito sul tram, Biberkopf è sconvolto dalla molteplicità, velocità, frantumazione e assenza di ordine dell’immagine urbana che non riesce a comporre in un compiuto orizzonte di senso e che pure gli appare assolutamente normale se osservata nei suoi singoli particolari. Questo contrasto sta all’origine dell’ansia che sale nel corpo di Biberkopf e fluisce alla testa ottundendo la sua capacità di vedere. L’unico rimedio che trova, mentre attraversa il quartiere degli ebrei orientali, è quello di «uscire» dalla città entrando in un cortile. Qui, il reduce della Grande guerra può ritrovare lacanianamente la sua integrità di fronte allo specchio sonoro della sua voce che si riverbera su quelle mura. Si toglie il berretto ed intona a gran voce le prime strofe di Die Wacht am Rhein, è l’oscura autorità depositata in quelle note a placare Biberkopf e restituirgli un’immagine di sé che si era pericolosamente liquefatta nel vortice metropolitano:

Un cortile grande e scuro. Si fermò presso il bidone delle immondizie. D’un tratto dal suo petto salì lungo le pareti un canto risonante. Come un mendico che va attorno con l’organetto si tolse di testa il cappello. Le pareti gli rimandavano l’eco. Così gli piaceva. La sua voce gli riempiva le orecchie. E cantava così forte, come mai in prigione aveva potuto cantare. E cos’era che le pareti gli rispondevano con la loro eco? «Come l’urlo del tuono si spande un grido» vigoroso, guerresco e sicuro. [23]

Questa molteplicità di piani e questa esplosione metropolitana, per Döblin non rappresentano il caos della decadenza moderna, da esse promana piuttosto l’eccitata vitalità dei molteplici fili che rendono grande e ricca l’esperienza della metropoli. Anche davanti all’orrore e alla violenza che quotidianamente attraversa lo spazio urbano, Döblin non cede mai alla tentazione di deprecare i tempi e la metropoli moderna. Anzi Biberkopf, che non è riuscito a mantenere i suoi propositi per ben tre volte e che tante sventure ha subito e causato nella vita, storpio e mutilato tornerà alla fine nella grande città, senza averne più la paura di quando uscì la prima volta di galera. Si trova nella piazza e non è più solo, c’è qualcuno alla sua destra, qualcuno alla sua sinistra, qualcuno cammina avanti e qualcun altro indietro. «Molto male viene dal fatto che si va soli. Se si è in parecchi, è già diverso. Bisogna abituarsi ad ascoltare gli altri, perché quello che dicono gli altri riguarda anche me. Io mi accorgo allora chi sono e cosa posso fare. Dappertutto, attorno a me, si combatte la mia battaglia…» [498]. La città è rimasta uguale, è Biberkopf che è cambiato, ora ha un «cuore sano», ha riconosciuto e integrato il suo passato, anche i suoi lutti e delitti, e ha compreso che non è un atomo nella metropoli, ma che ci sono anche gli altri, una comunità di destini che si possono cercare.

Bibliografia

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Döblin A. 1963 (1924), Der Geist des naturalistischen Zeitalters, in Aufsätze zur Literatur, Ölten und Freiburg: Walter, 62-83.

Döblin A. 1974, Berlin Alexanderplatz, Milano: Rizzoli, 183-85.

Döblin A. 1989 (1929), Der Bau des epischen Werks, in Schriften zu Ästhetik, Poetik und Literatur, Ölten und Freiburg: Walter, 215-244.

Hirschfeld M. 1930, Sittengeschichte des Weltkrieges, Leipzig: Schneider.

Kracauer S. 1931, Dalla finestra, in Kracauer S. 2004, 55-57.

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Kracauer S. 2004, Strade a Berlino e altrove, Bologna: Pendragon.

Langbehn A. J. 1891, Rembrandt als Erzieher. Von einem Deutschen, Leipzig: Hirschfeld.

Mosse G. 1968 (1966), Le origini culturali del Terzo Reich, Milano: Il saggiatore.

Rancière J. 1997, L’inoubliable, in Comolli J. L. e Rancière J. (eds.), Arrêt sur histoire, Paris: Editions du Centre Pompidou, 54-55.

Spengler O. 1957 (1918/22), Il tramonto dell’occidente, Milano: Longanesi.

Stern F. 1961, The politics of cultural despair. A study in the rise of the Germanic ideology, Berkeley: University of California Press.

Note

[1] Sull’opera di Langbehn come prodromo del nazismo, cfr. il secondo capitolo del classico lavoro di Stern 1961; cfr. anche Mosse 1968.

[2] Cfr. la lettura del film di Rancière 1997, 54-55.

[3] Le citazioni sono tratte dalla traduzione italiana di Alberto Spaini: Döblin A. 1974.