Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Patrimoni di origine protetta. Le procedure di Food Labelling nelle istituzioni internazionali all’incrocio tra nazionale, globale e locale

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Abstract

Food labelling procedures, with their focus on geographic origin of food, contribute to shape territorial identities at different spatial levels. International institutions, above all UNESCO and the European Union, become guarantors of local identities linking food traditions to specific places. However, to support in international arena local claims are the nation-states, which end up using international institutions to achieve global recognition for their national branding. The paper aims at analysing the entanglement between local, national and international identities in the process of heritagization of food, related to issues of authenticity, tradition, terroir.

Premessa

Le procedure di food labelling svolgono un ruolo centrale in relazione alla costruzione del cibo in termini di patrimonio. Come è infatti ampiamente riconosciuto, il patrimonio e le identità a esso connesse non costituiscono entità ontologiche, quanto piuttosto il risultato di processi di appropriazione ad opera di determinati gruppi, comunità, società [Bienassis 2011b; Geyzen 2014]. [1]

Questi processi di patrimonializzazione (heritagization o patrimonialisation [Grasseni 2013a]) si fondano su una costruzione culturale del cibo. Le culture del cibo naturalmente non sono statiche, ma vengono costantemente riprodotte, reinventate e corredate di nuovi valori simbolici [Grasseni 2013b]. Il presente saggio si concentra sul ruolo cruciale giocato dal sistema di food labelling in relazione a questi processi di costruzione culturale e produzione di patrimoni. In particolare, a essere prese in considerazione sono le procedure attivate a riguardo da due istituzioni internazionali, l’UNESCO e l’Unione Europea.

Nonostante le differenze, entrambi i sistemi enfatizzano una profonda relazione tra cibo e luogo, chiamando così in causa un senso di appartenenza legato a identità di tipo territoriale. Queste identità in alcuni casi sono preesistenti, in altri vengono trasformate o costruite ex novo dalle stesse procedure di labelling. Dal momento che esse tendono a strutturarsi contemporaneamente su diversi livelli spaziali, l’articolo si concentra specificamente sull’incrocio tra differenti identità spaziali – locali, nazionali, sovranazionali – sviluppate in relazione al cibo come patrimonio e attivate dalle procedure internazionali di labelling. Dopo un primo paragrafo teso a illustrare analogie e specificità delle procedure di food labelling attivate dall’UNESCO e dall’Unione Europea, il saggio analizza i rapporti tra identità culinarie declinate su differenti dimensioni spaziali prendendone in considerazione le relazioni binarie. Verrà quindi messa a fuoco in primo luogo la relazione che si stabilisce tra cibi (e identità) locali valorizzati dal labelling allorché esse vengono inglobate in una sfera sovranazionale. Le identità alimentari locali saranno indagate poi in relazione alla dimensione nazionale, che tende ad assumere a riguardo un ruolo ambivalente, di protezione per un verso, di appropriazione per un altro. Infine, verranno analizzate le modalità di azione nell’orbita sovranazionale proprio dei soggetti nazionali, interlocutori privilegiati delle istituzioni deputate al labelling.

Il focus sulla dimensione spaziale dei processi di costruzione identitaria consente di mettere in luce la portata delle procedure di labelling in relazione alla costruzione di un patrimonio alimentare che finisce per essere cristallizzato in forme rigidamente nazionali e sostanzialmente a-storiche.

UNESCO e Unione Europea: differenze e punti in comune

Per cominciare, l’UNESCO e l’UE perseguono scopi differenti attraverso i rispettivi sistemi di food labelling.

L’UNESCO, inserendo determinati piatti, tradizioni culinarie o cucine nella sua Representative List of the Intangible Cultural Heritage (ICH) mira a preservare e valorizzare la «cultural diversity and human creativity» [2], considerati come bene comune della comunità umana. Ma cosa si intende per “Patrimonio Culturale Immateriale”? Il concetto è stato elaborato nel 2003 dalla Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage [Lixinski 2014; Blake 2006], che tentava di compensare lo squilibrio occidente-centrico riscontrato nei riconoscimenti legati alla World Heritage Convention del 1972, dedicata al Patrimonio naturale e culturale dell’Umanità. Nella definizione della Convenzione del 2003, il Patrimonio Culturale Immateriale indica:

the practices, representations, expressions, knowledge, skills – as well as the instruments, objects, artefacts and cultural spaces associated therewith – that communities, groups and, in some cases, individuals recognize as part of their cultural heritage. This intangible cultural heritage, transmitted from generation to generation, is constantly recreated by communities and groups in response to their environment, their interaction with nature and their history, and provides them with a sense of identity and continuity [3].

I modelli alimentari e le culture del cibo sono comprese tra queste pratiche e forme di conoscenza. Inoltre, a partire dalla prima iscrizione nel 2010 di specifiche cucine e modelli alimentari, il cibo ha notevolmente incrementato la propria presenza nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale [4].

Per quanto riguarda invece l’Unione Europea, sin dal 1992 venne avviato un programma volto a registrare con marchi specifici determinati cibi o prodotti alimentari, al fine di evitare che la Politica Agricola Comune (PAC) potesse pregiudicare la ricchezza e la varietà delle coltivazioni e dei prodotti agricoli europei. Il programma si basa sullo strumento dell’Indicazione Geografica, intesa come «a distinctive sign used to identify a product as originating in the territory of a particular country, region or locality where its quality, reputation or other characteristic is linked to its geographical origin» [5]. Perciò, in relazione a cibi specifici, i produttori posso avanzare una candidatura per ottenere uno dei tre tipi di marchi di origine riconosciuti dall’Unione Europea, attualmente regolati all’interno di un unico quadro normativo [6]:

  • Denominazione di Origine Protetta (DOP), che identifica alimenti che vengono prodotti, lavorati e preparati in un’area geografica specifica, facendo ricorso a competenze riconosciute di produttori locali e ingredienti originari della stessa regione. Questo marchio riconosce «the strongest link to the territory, requiring that all aspects of production, processing and preparation originate from that region» [7].
  • Indicazione geografica Protetta (IGP), che designa prodotti la cui qualità o reputazione è legata al luogo o alla regione in cui vengono prodotti, lavorati o preparati, senza che gli ingredienti utilizzati provengano necessariamente dalla medesima area geografica.
  • Specialità Tradizionale Garantita (STG), che indica prodotti alimentari di tipo tradizionale, senza tuttavia riconoscervi un legame specifico con un’area geografica in particolare.

La “registrazione” attraverso uno dei primi due marchi assicura dunque l’unicità di un prodotto dovuta alla sua provenienza da un luogo preciso, rappresentando una garanzia tanto per i consumatori quanto per i produttori, dal momento che impedisce un uso inappropriato del nome registrato. Il sistema di denominazioni di origine e indicazioni geografiche mira infatti a proteggere «the quality and diversity of the Union’s agricultural, fisheries and aquaculture production» in quanto «a major contribution to its living cultural and gastronomic heritage» [8].

Nondimeno, nel caso del sistema di labelling dell’UE il nesso con il mercato è più forte e gli effetti sul piano economico più immediati. Le indicazioni geografiche e di origine costituiscono una componente del sistema del commercio internazionale del cibo, laddove l’interesse principale dell’UNESCO risiede in aspetti di carattere culturale. Anche l’iscrizione nella Lista Unesco dell’ICH ha senz’altro un impatto a livello economico, in particolare nel campo del turismo [Bessière 2013; Timothy 2016]. Tuttavia, un recente studio dedicato al ricorso, in termini di marketing, al riconoscimento tributato a determinate cucine e gastronomie dall’Unesco ha mostrato come in realtà esso si riveli ancora scarso [De Miguel Molina et al. 2016]. Sebbene sia necessario attendere ulteriori ricerche tese a misurare l’impatto economico di un fenomeno tanto recente [Pfeilstetter 2016], è in ogni caso evidente come nel caso del programma UNESCO la dimensione preminente sia quella culturale. Questa differenza nelle finalità delle due istituzioni emerge anche dalle linee guida per la compilazione delle candidature.

Il modulo di candidatura UNESCO richiede una descrizione dell’elemento proposto che enfatizzi:

  • «the characteristics of the bearers and practitioners of the element»;
  • «the current modes of transmission of the knowledge and skills related to the element»;
  • «an explanation of its social and cultural functions and meanings today, within and for its community» [9].

È inoltre specificamente dichiarato che «overly technical descriptions should be avoided» [10].

Pertanto nelle candidature (nomination files) degli elementi che sono stati iscritti nella Lista si trovano molti più riferimenti all’importanza di «a customary social practice» e ai suoi significati simbolici quali «togetherness, consideration of others, sharing the pleasure of taste, the balance between human beings and the products of nature» [11] piuttosto che alle caratteristiche dei cibi in senso stretto. Questo taglio della presentazione della cucina o del piatto che viene sottoposto alla Commissione Unesco può essere rilevato anche attraverso le immagini e i video che costituiscono parte integrante di ogni nomination file, incentrato più sulle pratiche di condivisione e consumo del cibo che sul cibo stesso.

Fig. 1 Gastronomic meal of the French​. https://ich.unesco.org
Fig. 1 Gastronomic meal of the French​. https://ich.unesco.org

Al contrario, nel caso delle candidature per i marchi dell’Unione Europea, vene richiesta una descrizione specifica del prodotto proposto, corredata di riferimenti precisi alle caratteristiche fisiche nonché alle fasi di lavorazione [12].

Tuttavia, nonostante le differenze qui tratteggiate, i due sistemi di labelling hanno importanti punti in comune in relazione alla costruzione del cibo come patrimonio. In primo luogo, entrambe le istituzioni mirano a preservare la varietà dei patrimoni alimentari dal rischio di omologazione rappresentato, per un verso, dalla globalizzazione, per un altro, dal mercato europeo comune. Ancora, entrambe le istituzioni stabiliscono un forte nesso tra cibo e luogo, come emerge dalle specifiche sezioni previste nei rispettivi moduli di candidatura [13]. Infine, entrambe certificano un riconoscimento internazionalmente valido di un cibo/prodotto/cucina locale attraverso una mediazione nazionale. Il processo di produzione e legittimazione del patrimonio effettuato dalle istituzioni internazionali attiva un complesso intreccio di questi tre livelli spaziali e identitari, come emerge dalle seguenti analisi delle loro relazioni binarie.

Identità locali/Identità globali

Contributi recenti hanno gettato luce sulle questioni di scala connesse alle procedure internazionali di labelling. «Localities are differently incorporated in larger scales of social, economic and political life» while «incorporate broader processes and values into their global story» [Demossier 2015, 112]. Al di là di questa dimensione “glocal”, le procedure di labelling attivano dinamiche connesse alle questioni relative a identità e patrimonio che si sviluppano su livelli spaziali multipli e su intersezioni e sovrapposizioni di questi ultimi.

Le politiche di denominazione dell’UNESCO e dell’Unione Europea enfatizzano indubbiamente la dimensione locale dell’heritage sottoposto a valutazione. Accanto all’origine geografica del prodotto alimentare, i sistemi di lavorazione riconosciuti dall’UE sono profondamente radicati in un sapere locale e tradizionale. In questo senso, per le Indicazioni Geografiche Protette è il concetto di terroir a rivelarsi cruciale. Secondo la definizione degli esperti dell’Istituto francese INAO (Institut national de l’origine et de la qualité), la prima istituzione nazionale dedicata alla protezione del terroir, esso consiste in «un espace géographique délimité, où une communauté humaine a construit au cours de l’histoire un savoir intellectuel collectif de prodution, fondé sur un système d’interactions entre un milieu physique et biologique, et un ensemble de facteurs humains» [Ferrières 2013, 25; Parker 2015]. Pertanto l’unicità di alimenti provenienti da specifici luoghi viene riconosciuta come il prodotto di un complesso milieu geo-storico, composto di elementi tanto naturali (caratteristiche geologiche del suolo, micro-climi) quanto umani (saperi e competenze estremamente risalenti, trasmessi di generazione in generazione). Ora, il concetto di terroir rappresenta il fondamento delle Indicazione Geografiche dell’Unione Europea, al punto che, come ha sottolineato Marion Demossier, esso «has come to encapsulate the European idea of a connection between locality and quality» [Demossier 2016, 119]. La studiosa considera inoltre quest’enfasi sul terroir e sulle località come uno strumento di promozione dell’idea di un’«Europeanness based upon the supposedly unique, historically resonant notion of its people and landscapes» [ibidem]. In questo quadro le località, valorizzate nella loro singolarità dal sistema di labelling, diverrebbero dei «building blocks» di un’identità europea da costruire – similmente a quanto accadde per i processi di nation building che ebbero luogo sul continente nel XIX secolo – sulla base della sua varietà locale e regionale. In questo modo la località stessa, a dispetto della sua centralità per le Indicazioni Geografiche, viene trascesa e inglobata in un più ampio spazio identitario.

Ambiguità simili possono essere rilevate anche per la Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO. Anche in questo caso i moduli di candidatura riservano un’attenzione particolare alla «participation of the communities, groups and, where appropriate, individuals, in the elaboration of nomination files» [14]. Il loro consenso libero, preventivo e informato rappresenta una parte obbligatoria della documentazione da presentare. «No topic has received greater attention [than the communities’ role] from the Committee» [15]. Tra le varie tipologie di comunità prese in considerazione un ruolo centrale spetta alle istituzioni locali, quali municipalità, vari corpi amministrativi sub-nazionali, associazioni di sindaci. Anche le associazioni locali di cuochi e chef, le organizzazioni culturali, vari tipi di associazioni del lavoro rappresentano esempi di comunità radicate sul territorio. In questo quadro, le località e le comunità figurano come i soggetti primari che avanzano all’UNESCO la candidatura di un modello alimentare o una cucina che riveste particolare importanza e significato per il tessuto economico e per l’identità culturale del territorio in questione. Se si considera, ad esempio, la “Dieta Mediterranea” [Scepi, Petrillo 2015; Stano 2015; Turmo, Verdù, Navarrete 2008], il nomination file specifica che «the communities that recognize it as part of their common intangible cultural heritage [are] Agros (Cyprus), Brač and Hvar (Croatia), Soria (Spain), Koroni/Coroni (Greece), Cilento (Italy), Chefchaouen (Morocco), Tavira (Portugal)» [16].

Ora, l’iscrizione nella Lista Unesco potrebbe costituire il trait d’union tra un «geographic localism» e un «globalizing cosmopolitanism» [Sammels 2014, 142]. Tuttavia, piuttosto che colmare il divario tra “globale” e “locale”, l’iscrizione tende ad adattare la varietà e la singolarità delle cucine riconosciute come patrimonio mondiale alle aspettative di un’élite globale di consumatori, finendo per creare quelle che Claire Sammels definisce «haute traditional cuisines» [Sammels 2014, 147-150]. Il caso della cucina tradizionale messicana, la cui iscrizione risale al 2010, viene considerato emblematico in questo senso. La candidatura presentava la cucina in questione come indigena, tradizionale, femminile (fig. 2), con un’enfasi sul suo carattere radicato e praticato e nessun riferimento al suo respiro cosmopolita. Dopo il successo della candidatura, la promozione della cucina messicana venne affidata a chef maschi, espressione di una classe transnazionale di professionisti formati nell’alveo della tradizione francese. Tale promozione enfatizzava inoltre la dimensione globale di ingredienti e tecniche, modellati sulla base del gusto e dei desideri di consumatori cosmopoliti [Sammels 2014, 147-150].

Fig. 2 Traditional Mexican cuisine - ancestral, ongoing community culture, the Michoacán paradigm​ https://ich.unesco.org
Fig. 2 Traditional Mexican cuisine - ancestral, ongoing community culture, the Michoacán paradigm​ https://ich.unesco.org

Questa traslazione globale di paradigmi culinari locali non è soltanto frutto di processi top-down. Gli attori locali – imprenditori, istituzioni locali, associazioni culturali e di categoria – contribuiscono a creare una struttura narrativa bottom-up sull’autenticità del proprio cibo, al fine di renderlo appealing per istituzioni e pubblico globali. La promozione dei prodotti e delle tradizioni del territorio conduce così a una sorta di «mercificazione della località» attraverso precise strategie di marketing [Grasseni 2013a]. Modelli alimentari locali vengono caratterizzati come “tradizionali” e presentati come condivisi da intere comunità, adombrando significative differenze sociali, etniche, religiose, presenti all’interno delle stesse. Questa tendenza a trasformare il «locale» in «tipico» [Grasseni 2013a; Vitrolles 2011] e l’uso del «legendary or mythical aspect» [Ceccarelli, Grandi, Magagnoli 2013, 16] della stessa tipicalità rischiano di essenzializzare la cultura alimentare locale. L’aderenza esclusiva al luogo geografico nella costruzione del «commodity-heritage» [Grasseni 2005, 80] tende a lasciare in ombra le molteplici differenze culturali, di classe, di genere che caratterizzano riti e abitudini alimentari, nonché fratture e conflitti all’interno delle comunità locali.

Identità locali/Identità nazionali

A uno sguardo ravvicinato, questa tendenza all’omogeneizzazione e all’appiattimento delle differenze si riflette anche su un’altra scala, ossia a un livello nazionale. Infatti, questi modelli alimentari locali così essenzializzati diventano spesso rappresentativi di un’intera nazione, adombrando la matrice locale e regionale di alcune cucine. Nel caso della cucina messicana, questo aspetto emerge in maniera molto evidente, dal momento che una cucina indigena propria di una piccola regione, il cosiddetto “Michoacán paradigm”, viene trasformato in un modello culinario nazionale. Ancora, riguardo al Gastronomic Meal of the French, le «communities concerned» vengono identificate con:

The French. The community concerned by the element is the entire French nation people. The community is large, diverse and unified. Its collective experience has been built over several centuries. The product of social and cultural mixes, regional plurality and contributions by immigrants, the community is united by shared practices like the gastronomic meal [17].

Certo, si tratta di casi pioneristici, dal momento che queste due cucine sancirono l’ingresso del cibo nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale UNESCO. Nondimeno, il Comitato UNESCO e i suoi Evaluation Bodies, consapevoli di tale rischio, hanno di recente sottolineato «the persisting problem whereby ‘the communities concerned by the element or activity in question are not well-defined’» [18]. E se ciò è vero in relazione alla stratificazione sociale, di genere e generazionale, lo è anche in termini di identità locale. Anche culture del cibo inserite in Lista di recente, come la tradizione della preparazione del kimchi o la cultura della birra in Belgio – entrambe iscritte nel 2015 – tendono in ultima analisi a sottolineare la condivisione nazionale del patrimonio alimentare candidato, nonostante i riferimenti a comunità locali e gruppi sociali.

Fig. 3 Tradition of kimchi-making in the Democratic People's Republic of Korea https://ich.unesco.org
Fig. 3 Tradition of kimchi-making in the Democratic People's Republic of Korea https://ich.unesco.org

Fig. 4 Beer culture in Belgium https://ich.unesco.org
Fig. 4 Beer culture in Belgium https://ich.unesco.org

Questa tendenza all’omogeneizzazione nazionale è anche dovuta alla preferenza accordata dall’UNESCO alle tradizioni ampiamente condivise, che paradossalmente minaccia la varietà e la diversità culturale che l’istituzione intenderebbe proteggere.

Inoltre, questa predominante dimensione nazionale è in un certo senso costitutiva della stessa procedura di labelling. I soggetti locali non possono infatti avanzare candidature direttamente all’Unione Europea o all’UNESCO. Le istituzioni statali filtrano le proposte locali, venendo così a essere gli unici soggetti che interagiscono direttamente con le istituzioni internazionali. In questo quadro, le identità culinarie locali e regionali tendono a essere presentate e percepite come rappresentative delle nazioni [DeSoucey 2010]. Infine, anche gli effetti economici – sul piano commerciale e sull’industria del cibo, così come sull’industria culturale, come nel caso del turismo – vanno senz’altro misurati in dimensione nazionale.

Ciò non equivale a negare ogni beneficio per le comunità locali. Le istituzioni statali offrono un importante sostegno agli interessi locali e regionali. In alcuni casi, gli Stati si fanno anche promotori della “food sovreignty”, sostenendo le rivendicazioni di produttori, imprenditori e agricoltori concretamente coinvolti nella produzione e distribuzione di cibo, in contrasto con un food system globale neoliberale [Andrée et al. 2014].

Più in generale, la dimensione locale è ineludibile per la nozione (e la retorica) del patrimonio, con i concetti a esso correlati di autenticità, tradizione, originalità. In particolare, riguardo all’autenticità, questo termine rientra nel cosiddetto «inappropriate vocabulary» da evitare nelle candidature UNESCO, in quanto non in linea con i suoi principi. Come dichiarato infatti dal Subsidiary Body nel 2011 e nel 2012, l’UNESCO non intende «fix intangible cultural heritage in some frozen, idealized form», dal momento che «it is not concerned with the question of how ‘original’ or ‘authentic’ an element is or what its ‘ideal’ form should be, rather what matters is how an element figures in the lives of its practitioners today» [cit. in Bortolotto 2013, 75]. Il principio è quindi quello di Safeguarding without freezing [19]. Tuttavia, una ricerca condotta da Chiara Bortolotto ha mostrato come il termine autenticità continui a essere spesso usato nei nomination files, in virtù della sua connessione con l’«idea of antiquity (“thousand-year-old practices”) or to territorially rooted (often rural) communities» [Bortolotto 2013, 76]. La studiosa rileva pertanto come «local understandings of heritage are not ultimately separable from the concept of authenticity» [Bortolotto 2013, 77-78].

Una conferma di questa interpretazione emerge se si volge lo sguardo alle candidature avanzate all’Unione Europea. A dispetto delle raccomandazioni di fornire soltanto descrizioni tecniche dei prodotti presentati, nella sezione del modulo riservata all’esplicitazione del «link with the geographic area», spesso vengono ricostruite le radici storiche di tradizioni radicate in luoghi specifici [20]. Ciò evidenzia il doppio “ancoraggio” locale valorizzato nei processi di patrimonializzazione del cibo, quello temporale (che evoca autenticità, tradizione, memoria, nostalgia della cucina della nonna) e quello spaziale, sempre localmente individuato [Geyzen 2014, 73; Bienassis 2011a e b].

Infine, il legame con il passato richiama inevitabilmente la dimensione del locale anche perché lo scenario principale della vita delle persone e delle loro proiezioni identitarie è stato a lungo costituito molto più dalle località che dagli Stati-nazione.

Nondimeno, questi ultimi giocano attualmente il ruolo da protagonisti nei sistemi di labelling. Come emerge anche dalla loro dialettica con una dimensione sovranazionale.

Identità nazionali/Identità globali

Gli Stati nazionali tendono a strumentalizzare la certificazione ufficiale dell’esclusività di un prodotto o di una cucina fornita dalle istituzioni internazionali. Queste ultime appaiono molto risolute nel rivendicare la propria autorità sulle questioni di labelling, come mostra, ad esempio, la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di impedire a Francia, Germania e Belgio di utilizzare marchi di qualità di matrice nazionale – differenti dunque dalle IGP – per indicare il territorio di origine dei prodotti alimentari [Charlier, Ngo 2012]. Tuttavia, quanto più chiaramente si profila come esclusivo il ruolo dell’UNESCO e dell’Unione Europea come giudici in campo internazionale, tanto più distintamente si definisce la politica degli Stati di strumentalizzare il crisma del loro riconoscimento ufficiale per promuovere le proprie cucine e la loro food image. Infatti, il riconoscimento internazionale legittima le rivendicazioni di esclusività, diventando così parte integrante della politica di national branding.

L’uso politico del cibo non è certo nuovo, ma ha assunto nuove forme negli ultimi anni. La categoria di «gastrodiplomacy» [Ichijo, Ranta 2015, 108-112] si riferisce alla produzione e all’uso di food brands a opera degli Stati nazionali al fine di esercitare una forma di soft power. L’impatto del mercato globale del cibo ha inoltre suscitato forti rivendicazioni della peculiarità delle identità culinarie, declinate principalmente in termini nazionali.

Per analizzare questa giustapposizione tra cibo e globalizzazione, Michaela DeSoucey ha sviluppato il concetto di «gastronationalism» [DeSoucey 2010]. Esso «signals the use of food production, distribution, and consumption to demarcate and sustain the emotive power of national attachment, as well as the use of nationalist sentiments, to produce and market food» [433]. L’analisi della studiosa si concentra sul programma di denominazione di origine dell’Unione Europea, concepito come veicolo di «collective national identity» [434]. Infatti, sebbene gli obiettivi principali del programma vadano rintracciati su un piano economico e di mercato, ciò non esclude «socio-cultural impacts» di recente interpretati in termini di «edible identities» [Di Giovine, Brulotte 2014, 21].

Fig. 5 Washoku, traditional dietary cultures of the Japanese, notably for the celebration of New Year​. https://ich.unesco.org
Fig. 5 Washoku, traditional dietary cultures of the Japanese, notably for the celebration of New Year​. https://ich.unesco.org

Per quanto riguarda la Lista UNESCO, essa rappresenta un mezzo attraverso cui gli Stati nazionali promuovono il proprio «cultural nationalism in response to globalisation» [Ichijo, Ranta 2015, 157]. Ad esempio, quando avanzarono le proprie candidature rispettivamente per il Gastronomic Meal of the French e per il washoku, sia la Francia che il Giappone enfatizzarono le minacce che gravavano sulle proprie tradizioni culturali a fronte delle tendenze omogeneizzanti della globalizzazione. È vero che in entrambi i casi le associazioni professionali e dei lavoratori del settore espressero le proprie preoccupazioni legate al rischio di vedere scomparire tradizioni culinarie e competenze specifiche [147-157]. Nondimeno, i due Stati adattarono in maniera strumentale le loro candidature ai valori supportati dall’UNESCO, come dimostra il passaggio da un modello alimentare d’élite a uno più popolare e condiviso, tanto nel caso del Gastronomic Meal of the French (così definito invece che “French Cuisine” o “French Gastronomy”) quanto in quello del washoku (al posto del “kaiseki”, che definisce l’alta cucina giapponese). L’enfasi sulle culture culinarie in declino e le esigenze delle industrie nazionali del cibo non esclude l’obiettivo di esercitare forme di soft power. L’indubbio interesse della promozione della nazione come brand mostra il paradosso di istituzioni internazionali che «meant to limit the scope of nationalism […] end up enhancing nationalist case» [Ichijo, Ranta, 157; Sammels 2014; Tornatore 2012].

A seguito dell’iscrizione alla Lista, il marchio internazionalmente riconosciuto a una cucina o a un piatto specifico diviene un brand nazionale; e una volta definito “nazionale”, in virtù anche del potere della «gastrolinguistica» [Cavanaugh 2016; Lakoff 2006], un cibo diviene realmente tale e, soprattutto, viene riconosciuto sia all’interno che all’esterno come tale. Il successo della candidatura di una cucina ne legittima allora l’appropriazione da parte di un paese e, allo stesso tempo, ne delegittima le pretese da parte di altri. A tale riguardo, la sezione UNESCO sul Patrimonio Culturale Immateriale è consapevole dell’importanza del linguaggio e dei rischi che esso può veicolare. Nel Memoire for applicants, i riferimenti all’«inappropriate vocabulary», accanto alle espressioni ‘pure’, ‘true’, ‘unique’, ‘original’, suggeriscono di evitare un linguaggio «not conducive to dialogue or that had political connotations to be avoided. […] [L]anguage that risks inciting tensions or awakening grievances, whether between communities or between States, should be rigorously avoided» [21].

Fig. 6 Mediterranean Diet https://ich.unesco.org
Fig. 6 Mediterranean Diet https://ich.unesco.org

In effetti attorno alle food labels sono sorte diverse contese. Un esempio interessante è rappresentato dai conflitti turco-armeni relativi, per un verso, al keşkek, a seguito della sua inclusione nella Lista UNESCO per conto della Turchia nel 2011, per un altro verso, al riconoscimento nel 2014 del lavash come prodotto armeno, all’origine di un’ampia opposizione nella regione, in primo luogo da parte dell’Azerbaijan [Aykan 2016]. Analogamente alle “hummus wars” in Medio Oriente o alle “kimchi wars” tra Cina, Giappone e Corea, questi casi mostrano chiaramente come “le guerre del cibo” non riguardino soltanto il cibo, ma piuttosto culture e interessi nazionali, chiamando in causa in alcuni casi perfino questioni di sicurezza nazionale.

Fig. 7 Arabic coffee, a symbol of generosity​ https://ich.unesco.org
Fig. 7 Arabic coffee, a symbol of generosity​ https://ich.unesco.org

Conflitti simili sono scoppiati anche in relazione ai marchi UE, come, per esempio, tra la comunità greco-cipriota e la Turchia riguardo alla tradizione del loukoumi [Weltz 2013]. Secondo la definizione di DeSoucey, il cibo può diventare infatti un «contested medium of cultural politics that demarcates national boundaries and identities». Le rivendicazioni di paternità alimentare infatti, similmente ai tracciati confinari, si rivelano cruciali nel definire una connotazione nazionale che, in quanto tale, finisce per definire linee di inclusione e di esclusione.

Fig. 8 “Flatbread making and sharing culture: Lavash, Katyrma, Jupka, Yufka” https://ich.unesco.org
Fig. 8 “Flatbread making and sharing culture: Lavash, Katyrma, Jupka, Yufka” https://ich.unesco.org

Tuttavia, quantomeno nel caso dell’UNESCO non dovrebbe essere così. Per cibi o tradizioni culinarie diffuse in regioni geografiche trasversali alle partizioni nazionali, la Convenzione consente l’ascrizione a più di uno Stato, prevedendo la possibilità di candidature multi-statali o dell’estensione a più Stati di elementi già inseriti in Lista. Le candidature per questi «shared heritages» sono peraltro fortemente incoraggiati. La mediterranean diet è un esempio di questa procedura, ma nei fatti è tra le poche culture alimentari transnazionali presenti nella Lista UNESCO, come l’arabic coffee di recente inserito. Sembra però che sia in atto un cambiamento. In occasione della sessione annuale del comitato nel dicembre 2016 è stato inserito nel Patrimonio Immateriale UNESCO «Flatbread making and sharing culture: Lavash, Katyrma, Jupka, Yufka» su richiesta congiunta di Azerbaijan, Iran, Kazakhstan, Kyrgyzstan e Turchia, ovvero i paesi dell’Asia occidentale che avevano contestato il riconoscimento all’Armenia della candidatura del lavash bread. Ancora, la candidatura algerina per il couscous è diventata parte di un più ampio dossier incentrato sul Maghreb, coinvolgendo così l’intera area geografica, comprendente anche il Marocco e la Tunisia, dove la tradizione del cibo berbero era effettivamente diffusa.

Attualmente però il numero estremamente ristretto delle candidature transnazionali, a dispetto delle sollecitazioni UNESCO, mostra quanto gli interessi e le identità nazionali mantengano un ruolo cruciale nel “game of labels” internazionale.

Conclusioni

L’analisi delle interazioni tra le identità territoriali prodotte o valorizzate dalle procedure di labelling consente di evidenziare il ruolo giocato da queste ultime nel processo di costruzione del cibo come patrimonio e di metterne in luce alcune criticità.

Per cominciare, emerge come gli Stati-nazione, muovendosi tra la dimensione locale e internazionale, si rivelino i principali beneficiari dei riconoscimenti internazionali tesi a preservare le risorse locali e, attraverso di esse, la diversità alimentare. È chiara la dominante caratterizzazione in termini nazionali dei cibi riconosciuti, tale da oscurarne i tratti subnazionali. Le cucine regionali, ad esempio, restano in larga parte escluse dai processi di labelling, dal momento che tale dimensione non trova spazio né sul piano amministrativo né su quello del discorso culturale proprio delle istituzioni internazionali.

Questa caratterizzazione dell’heritage in termini prettamente nazionali viene favorita dagli stessi meccanismi procedurali – dispiegati tanto dall’UNESCO quanto dall’UE – che individuano negli Stati nazionali gli interlocutori esclusivi dell’iter di labelling. Una revisione delle procedure istituzionali in direzione del riconoscimento di una maggiore agency dei soggetti locali potrebbe indubbiamente contribuire a valorizzare la tutela dei modelli alimentari locali al di fuori della retorica del discorso puramente culturale.

Inoltre, questa produzione di patrimoni alimentari in chiave prevalentemente nazionale non oscura soltanto la dimensione sub-nazionale dell’heritage, ma anche quella transnazionale, riconducibile alla dimensione di scambi e interazioni sviluppatesi nei secoli in una dimensione che travalica ampiamente i confini statal-nazionali. Nelle candidature sono per lo più assenti i riferimenti al carattere ibrido delle cucine nazionali europee, presentate come entità semplificate, caratterizzate – dal punto di vista spaziale – da un forte ancoraggio geografico e – da quello temporale – dalla cristallizzazione in un passato mitico più che da un effettivo sviluppo attraverso la trasmissione delle conoscenze di generazione in generazione. Ciò che viene completamente trascurato sono le connessioni nello spazio, ovvero i transfer culturali, la diffusione di competenze, la circolazione di modelli alimentari, che possono essere considerati elementi costitutivi di ogni cucina. Il rischio è quello di sottovalutare il carattere ibrido, contaminato, delle identità europee, legato a una lunga storia di scambi, a livello tanto inter-europeo quanto globale. Esempi significativi in questo senso sono rappresentati dal sistema di scambio medievale [Montanari 1988; 1993], dallo «scambio colombiano» [Crosby 1972], dalla circolazione di culture alimentari in contesti imperiali [Laudan 2013; Leong-Salobir 2011]. In questo quadro, il patrimonio vivo, «costantemente ricreato» che l’UNESCO mira a tutelare dal rischio di «congelamento» viene sottoposto a una duplice minaccia, per un verso, quella di un irrigidimento dell’heritage in un passato a-storico, per un altro, quella di un eccessivo ancoraggio delle culture e delle pratiche alimentari a una collocazione geografica concepita come chiusa verso l’esterno e quindi aliena a fenomeni di connessione, circolazione e scambio. Questi processi, di recente interpretati principalmente – sebbene non esclusivamente – in una prospettiva di storia globale come un tratto specifico della formazione delle culture alimentari del mondo [Grew 2001; Montanari 2002; Pilcher 2008; Claflin, Scholliers 2013], rappresentano anche un aspetto fondamentale delle identità e dei patrimoni culturali europei.


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Note

1. Il saggio è frutto di una ricerca condotta nell’ambito del progetto Food as Heritage attivo al Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università di Bologna nel quadro del progetto Horizon 2020 CoHERE, Critical Heritages: performing and representing identities in Europe.

2. UNESCO, Convention for the safeguarding of intangible cultural heritage, art. 2, <https://ich.unesco.org/en/convention>.

3. Ibidem.

4. <https://ich.unesco.org/en/lists>.

5. European Commission, Geographical Indications, <http://ec.europa.eu/trade/policy/accessing-markets/intellectual-property/geographical-indications>.

6. Regulation (EU) No 1151/2012 of the European Parliament and of the council of 21 November 2012 on quality schemes for agricultural products and foodstuffs.

7. European Commission, Foodstuff and agricultural products, <http://ec.europa.eu/agriculture/quality/schemes/foodstuff_en>.

8. Regulation (EU) No 1151/2012 of the European Parliament and of the council of 21 November 2012 on quality schemes for agricultural products and foodstuffs

9. UNESCO, Aide-Mémoire for completing a nomination to the Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity for 2016 and later nominations, <http://www.unesco.org/culture/ich/en/forms>.

10. Ibidem.

11. UNESCO, Nomination file n. 00437 for inscription in 2010 on the representative list of the intangible cultural heritage of humanity. Intergovernmental Committee for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage, <http://www.unesco.org/culture/ich/en/RL/gastronomic-meal-of-the-french-00437>. Cfr. Csergo 2016.

12. European Union, Agriculture and rural development, Door, <http://ec.europa.eu/agriculture/quality/door/list.html?locale=en>.

13. “Geographic location and range of the element” per il modulo di candidature UNESCO, “Concise definition of the geographical area” e “Link with the geographical area” per quello dell’Unione Europea.

14. UNESCO, Forms to be used for nominations, proposals, assistance requests, accreditation requests and periodic reporting, <http://www.unesco.org/culture/ich/en/forms>.

15. Aide-Mémoire for completing a nomination, cit., 15.

16. UNESCO, Nomination file n. 00884 for inscription in 2010 on the representative list of the intangible cultural heritage of humanity. Intergovernmental Committee for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage, <http://www.unesco.org/culture/ich/en/RL/mediterranean-diet-00884>.

17. UNESCO, Nomination file 00437, cit.

18. Aide-Mémoire for completing a nomination, cit., 16.

19. UNESCO, Safeguarding without freezing, <http://www.unesco.org/culture/ich/en/safeguarding-00012>.

20. Esempi recenti sono le candidature dell’olio extra-vergine “Marche” registrato il 20 aprile 2017 e il “London cure smoked salmon” registrato il 12 aprile 2017, <http://ec.europa.eu/agriculture/quality/door/list.html?locale=en>.

21. Aide-Mémoire for completing a nomination, cit., 10.