Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Croce e i fiorentini durante la Prima guerra mondiale. Un fronte franco-tedesco nella filosofia italiana

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Abstract

The dispute between interventionists and neutralists opposes two fronts in the Italian philosophical landscape, where the Neapolitan pole dominated by Croce opposes the city of Florence - home of the French Institute and seat of literary and artistic circles close to Futurism and Bergsonism. From the beginning of the war, the Florentine journals “La Voce” and “Lacerba” publish frequent attacks on Germanic culture. Croce reacts from the pages of “La Critica” and “Italia Nostra”. The typical themes of French anti-German propaganda reverberate on the Italian political and philosophical debate, adapting to the peculiarity of its cultural context.

L’Italia tra Francia e Germania

Tutti i paesi coinvolti nella Prima guerra mondiale vissero una forte “mobilitazione spirituale” [Flasch 2000], che raggiunse la sua massima intensità nello scontro tra Francia e Germania. La centralità del fronte franco-tedesco fu tale da produrre effetti anche negli altri paesi coinvolti nella guerra, come è ben riconoscibile nel caso dell’Italia: qui gli antagonismi politici degli intellettuali e persino i loro temi di propaganda ruotarono spesso intorno alla difesa della parte francese o tedesca, e potrebbero dunque difficilmente essere compresi se ci si limitasse alla considerazione del solo campo nazionale, senza riconoscere i riflessi significativi di dispute innescate oltralpe da intellettuali francesi e tedeschi [1]. Gli interventi degli intellettuali italiani, già nell’anno della neutralità e ancora nel dopoguerra, reagivano infatti di frequente a discorsi, manifesti o episodi accaduti in Francia o in Germania, per attaccare o difendere l’uno o l’altro dei paesi rivali. La presenza di queste eco in Italia non significa però che si possa interpretare la storia intellettuale italiana degli anni della Grande Guerra come un mero riverbero periferico della situazione geopolitica franco-tedesca, che infatti fu tradotta in termini pertinenti al contesto italiano, adattandosi alla peculiare situazione culturale e politica della penisola. Per comprendere la posizione dell’Italia durante il conflitto mondiale, è però estremamente significativo considerare le relazioni con la Francia e con la Germania, in una sorta di transfert triangolare dove il posizionamento ideologico di ogni interlocutore si definiva rispetto agli altri. In un conflitto che vide, soprattutto il primo anno, Francia e Germania come principali protagonisti, il modo in cui l’Italia interagì con tali Paesi sui temi filosofici, offre elementi significativi per comprendere non solo le articolazioni della filosofia italiana con le maggiori tradizioni europee moderne, ma anche la posizione politica dell’Italia rispetto alle maggiori potenze europee, in un momento in cui antagonismi filosofici e politici erano assai difficili, se non impossibili, da distinguere.

I riflessi dei contrasti tra Francia e Germania nella cultura filosofica italiana non erano del resto una novità emersa per la prima volta nel 1914. Anche solo pochi anni prima, al momento dell’organizzazione del IV Congresso internazionale di filosofia a Bologna [Worms, Zanfi 2014], erano sorte tensioni tra idealisti e positivisti che avevano finito per opporre filo-tedeschi e filo-francesi. Il tentativo stesso di formare un’«Internazionale scientifica» attraverso i Congressi di inizio secolo era finalizzato a temperare l’importantissima presenza scientifica tedesca, tanto in filosofia quanto nelle altre discipline [Feuerhahn, Raboult-Feuerhahn 2010]. Dopo i congressi di Parigi del 1900 e di Ginevra del 1904, la presenza dei filosofi tedeschi era calata già a partire dal Congresso di Heidelberg del 1909, dove erano mancate figure di primo piano come Wundt, Dilthey, Rickert e Simmel, mentre si era contemporaneamente definita una convergenza latina, in cui francesi e italiani esprimevano una volontà comune di avvicinare filosofia e scienze [Soulié 2014]. Nell’organizzazione del Congresso bolognese del 1911, promosso come i precedenti dalla Société française de philosophie fondata da Xavier Léon, il matematico Federigo Enriques aveva privilegiato la rete francese e i colleghi scienziati, al punto da far lamentare Benedetto Croce non solo dell’eccessivo numero di scienziati invitati, ma anche la scarsa presenza di filosofi tedeschi [2]. Alla vigilia della guerra tensioni analoghe erano ricordate e tradotte in termini esplicitamente politici da Enriques, che in una lettera del gennaio 1914 a Xavier Léon, per rispondere alla sua domanda su quale atteggiamento avrebbe adottato l’Italia in caso di guerra, il matematico bolognese lo rassicurava sulla simpatia per la Francia che univa la maggioranza dei filosofi italiani, dai quali però distingueva una minoranza di hegeliani più rivolti alla Germania [3].

Le tensioni tra i filosofi simpatizzanti della «sorella latina» ed estimatori della cultura tedesca venne inevitabilmente esacerbata dalla guerra, come si può riconoscere dalle reazioni degli intellettuali italiani sin dai primi interventi francesi e tedeschi allo scoppio del conflitto. Mentre i politici italiani si dividevano tra neutralisti e interventisti, tra difensori della Triplice Alleanza con gli imperi centrali e partigiani dell’Intesa con la Francia repubblicana, anche il mondo filosofico italiano si schierava, prendendo posizione sul significato culturale della guerra che intellettuali francesi e tedeschi avevano fin da subito rivendicato.

Occorre premettere che la cultura filosofica italiana alla vigilia della guerra era attenta ai dibattiti europei in modo non uniforme, come ha sintetizzato Garin, «con una prevalente apertura, nel livello accademico, al mondo di lingua tedesca, e a quello francese sul terreno giornalistico e ‘militante’» [Garin 1987, XXIV]. Una divisione analoga potrebbe essere riconosciuta sul piano geografico nell’opposizione esemplare tra i poli di Firenze e Napoli. Nel policentrismo italiano [4], la città di Firenze rappresentava infatti il polo più attento alla Francia, da un lato per una sintonia con gli ideali democratici e anti-conservatori promossi in ambienti giornalistici e politici, legati in particolare a Gaetano Salvemini, dall’altro lato per l’attenzione riservata alla letteratura e alla filosofia francese da parte degli intellettuali che animavano la rivista «Lacerba». Erede dal 1913 delle esperienze del «Leonardo» (1903-1907) e de «La Voce» (1908-1913), il quindicinale «Lacerba» [5] ebbe il merito di introdurre nella cultura italiana alcune delle tendenze più innovative che scuotevano l’Europa dell’epoca, come il pragmatismo, la filosofia bergsoniana, il modernismo cattolico e il misticismo, oltre a riprese delle opere di Kierkegaard e Nietzsche. La presenza in città dell’Institut français dal 1907 sosteneva e rinforzava ulteriormente i legami con la Francia degli ambienti intellettuali fiorentini [Renard 2001; Ciliberto 2004].

A controbilanciare la “militanza” filo-francese fiorentina, vi era un polo napoletano culturalmente molto rilevante e tradizionalmente rivolto al mondo di lingua tedesca. A partire dall’unità d’Italia, Napoli aveva conosciuto un processo di rinnovamento umanistico e scientifico di livello superiore a quello che si era verificato sul piano economico-produttivo, sociale e politico-amministrativo, accentuando caratteri fortemente contraddittori, di cui un elemento era anche il ruolo di «capitale intellettuale» mantenuto almeno fino alla Prima guerra mondiale [Cantillo 2004]. In questa storia di lungo periodo, marcata dalla tradizione dell’hegelismo di Bertrando Spaventa e di Francesco De Sanctis, si inseriva la figura di Benedetto Croce, che si stagliava ormai come figura egemone nella cultura italiana degli anni Dieci. Nominato Senatore all’inizio del 1910, editore con Giovanni Gentile della rivista «La Critica» dal 1903, sostenuto nelle proprie proposte culturali dall’editore Laterza, Croce rappresentava uno degli intellettuali più attenti alla filosofia europea e in particolare tedesca, che egli aveva studiato inizialmente attraverso il filtro di Antonio Labriola, marxista napoletano che intorno alla svolta del secolo gli aveva fatto conoscere le filosofie, oltre che di Marx, di Herbart, Schopenhauer e Edouard von Hartmann. Croce aveva inoltre studiato le opere Simmel, Dilthey e Rickert, confermando un orientamento all’area tedesca che andava di pari passo con tratti “anti-francesi” di alcune sue posizioni, riconoscibili non solo nell’avversione al positivismo – motivo che lo aveva avvicinato, almeno in un primo tempo, ai Vociani [Colonnello 1984, 36-42] – ma anche nell’opposizione al socialismo, all’irrazionalismo e al futurismo, così come allo spiritualismo tradizionale [Garin 1987, 63]. L’attenzione del polo napoletano al mondo di lingua tedesca era inoltre rinforzata dalla fitta rete di relazioni che Croce e Gentile, anche attraverso la redazione de «La Critica», intrattenevano con il mondo accademico italiano, tradizionalmente legato al mondo germanico.

Le tensioni nella filosofia italiana durante gli anni della guerra si possono così cogliere già a partire dall’opposizione tra le riviste «Lacerba» e «La Critica», a cui nel breve periodo della neutralità italiana si aggiunse il foglio «Italia Nostra», curato da Croce e altri intellettuali neutralisti di tutt’Italia, riuniti in un omonimo gruppo attivo dal novembre 1914 al giugno del 1915.

L’eco della propaganda francese in Italia

Dall’autunno 1914 fu soprattutto «Lacerba» a dare risonanza ai temi filo-francesi e a proporre temi tipici della propaganda d’Oltralpe, a partire da quelli espressi dal discorso di Bergson all’Académie de sciences morales et politiques dell’8 agosto 1914, in cui la lotta contro la Germania veniva definita in termini di «lotta della civiltà contro la barbarie» [6]. Questo riecheggiato discorso inaugurava un’ondata di propaganda intellettuale francese antigermanica che Boutroux presto definì «croisade philosophique» [Boutroux 1915]. Mentre l’identificazione operata da Bergson tra Kultur tedesca e barbarie diventava motivo ricorrente della propaganda francese e non solo, oltre il Reno le stesse parole suscitavano le reazioni indignate di Simmel e altri filosofi, alcuni dei quali avrebbero tempestivamente sottoscritto il celebre Anruf an die Kulturwelt, noto anche come “manifesto dei novantatré”, firmato da altrettanti professori tra i quali i filosofi Eucken e Windelband, che avrebbe avuto tanta risonanza internazionale quanto i discorsi di guerra di Bergson [7].

I temi e le firme della propaganda francese erano ingaggiate in Italia per polemizzare contro la prevalenza culturale tedesca. Sin dai primi mesi del conflitto furono infatti pubblicati diversi pamphlet che denunciavano la presenza tentacolare della cultura tedesca tanto nel mondo economico, bancario e commerciale, quanto nella sfera culturale e intellettuale. Fin da subito, la ribellione contro la scienza tedesca e il metodo tedesco assunse tratti sarcastici e derisori di attacco ai “tipi” dello Herr Professor o dello Herr Philologus, oltre che della scienza pedante e barbarica propria dei tedeschi [Grey 1915a, Grey 1915b, Romagnoli 1917]. Tra i più militanti figuravano interventisti democratici come lo storico Guglielmo Ferrero, lo storico e giornalista Gaetano Salvemini, allora direttore del quotidiano «L’Unità», e persino il germanista Giuseppe Antonio Borgese [8]. Anche i Vociani si lanciarono ben presto in un’accesa polemica contro l’influenza culturale tedesca dalle pagine de «Lacerba», cambiando rotta rispetto all’apertura verso la cultura tedesca che era sempre stata testimoniata dalle riviste «Leonardo» o «La Voce», ma anche dalla celebre collana «La cultura dell’anima», diretta per Carabba da Papini, dove lui stesso aveva tradotto Schopenhauer, e dove erano pubblicati classici della filosofia tedesca come lo Schelling della filosofia della libertà, Novalis, Hebbel, Nietzsche e persino Kant e Fichte [9].

Già il numero di «Lacerba» del 15 agosto 1914 “entrava in guerra”, rivendicando pretese interventiste e posizioni anti-tedesche sin dall’editoriale di Papini: «siccome questa è guerra non soltanto di fucili e di navi, ma anche di cultura e di civiltà, ci teniamo a prender subito posizione [...] quando avremo in casa la Kultur e le sue amabili conseguenze rimpiangeremo i paralitici tentennamenti di questi giorni».

Nei numeri successivi anche la filosofia tedesca era chiamata in causa per giustificare le posizioni a cui la rivista dava voce. Nel numero del 1 novembre 1914 Soffici firmava l’articolo Sulla barbarie tedesca [Soffici 1914], avente per corollario alcuni frammenti di Nietzsche polemici contro i tedeschi, in cui si sosteneva ad esempio che «i vari casi di cultura [...] trovati in Germania eran tutti d’origine francese… Dovunque arriva la Germania corrompe la cultura» [295]. Nello stesso numero, la rubrica Caffè riportava la lettera di un «amico francese», secondo il quale gli autori tedeschi più apprezzati non erano veri tedeschi, bensì di origine scozzese (Kant), olandese (Beehtoven), slava (Nietzsche), o ebrei (Heine, Richard Strauss, Mendelsohn, Offenbach) [318]. Un articolo su L’imbecillità tedesca era poi riecheggiato qualche mese dopo, il 27 marzo 1915, da un pezzo di Papini su L’intelligenza francese, dove i francesi erano posti sotto l’egida di Montaigne e Descartes ed erano descritti come un popolo giovane, inventivo, animato dalla passione della chiarezza, privo di abitudini e in grado di vivere più intensamente degli altri popoli [Papini 1915].

Le pagine de «Lacerba» nell’anno della neutralità italiana proponevano inoltre polemiche futuriste contro il passatismo tedesco, contro la “barbarie tedesca” e il pangermanesimo inteso come forma di annessionismo spirituale [10]. Venivano quindi discussi i testi più diffusi dalla propaganda francese, come Il pangermanesimo di Charles Andler, che faceva parte della collana Études et documents sur la guerre curata per Armand Colin da Durkheim e Seignobos, di cui già nel 1915 furono prontamente tradotti sette volumi in italiano [11].

Già a fine 1914 «Lacerba» lanciava inoltre aperte polemiche contro gli intellettuali italiani neutralisti e in particolare contro Croce. Quando nello stesso anno 1903 il trentasettenne Croce aveva fondato con Gentile «La Critica» [Battistini 2016] e Papini e Prezzolini, allora rispettivamente di 22 e 23 anni, avevano fondato il «Leonardo», il filosofo napoletano si era mostrato assai lungimirante nel riconoscere le qualità dei giovani fiorentini, dei quali contribuì benevolmente a far circolare le idee e le riviste [Biondi 2016]. Nel contempo Papini e Prezzolini, sotto gli pseudonimi di Gian Falco e Giuliano il Sofista, avevano avuto la prudenza di frenare nei suoi riguardi i toni aspri tipici delle loro stroncature [Isnenghi 2006, 501]. Una rottura si era però ben presto consumata sulle pagine delle stesse riviste all’inizio degli anni Dieci, in particolare a partire da due assai discussi contributi del 1911 di Croce su massoneria e socialismo e sulla morte del socialismo [Croce 1993, 141-156; Altini 2016], nei quali aveva rivelato una decisa diffidenza nei confronti della filosofia e della cultura francese di cui tali fenomeni erano espressione. Croce teneva infatti a distinguere gli ideali del Risorgimento italiano dall’indirizzo francese, da lui definito giacobino e massonico, e aveva scritto su «La Voce»:

L’idea stessa dell’unità italiana nacque come motto d’ordine contro l’universale abbracciamento predicato dai francesi, e del quale si era vista la prosaica realtà nelle ruberie, devastazioni e oppressioni, compiute dai generali e commissarî dei loro eserciti. In letteratura, in filosofia, in politica, il secolo decimonono, anche in Italia, fu caratterizzato dall’anti-intellettualismo, dall’anti-astrattismo, dall’anti-francesismo. Sembra impossibile che ai principî del secolo ventesimo, per imitazione della Francia, venga importato di nuovo presso di noi un malanno, che avevamo sofferto più di un secolo addietro e del quale, dopo una violenta malattia, ci eravamo risanati [12].

Simili toni furono invece evitati da Croce durante la guerra, quando già dal suo primo intervento pubblico, in un’intervista dell’ottobre 1914 per «Il Corriere d’Italia», cercò di evitare i «giudizi passionali» che ogni fronte rivolgeva alle culture delle nazioni avversarie, e in particolare alla Germania:

Credo che, a guerra finita, si giudicherà che il suolo d’Europa non solo ha tremato per più mesi o per più anni sotto il peso delle armi, ma anche sotto quello degli spropositi. E Francesi, Inglesi, Tedeschi e Italiani si vergogneranno o sorrideranno, e chiederanno venia pei giudizi che hanno pronunciato, e diranno che non erano giudizi ma espressioni di affetti. E anche più arrossiremo noi, neutrali, che molto spesso abbiamo parlato, come di cosa evidente, della barbarie germanica. Fra tutti gli spropositi, frutti di stagione, questo otterrà il primato, perché certo è il più grandioso. […] Che se poi ci riuscisse fin da ora di dar ragione a tutti e torto a tutti, come farà indubbiamente lo storico futuro, questa sarebbe una bella prova della nostra forza. E, credetemi, non ci nuocerebbe, perché la verità e la serenità non fanno mai male. Non si raccomanda alla gente, anche tra i maggiori pericoli, di non perdere la testa? [Croce 1928, 12]

I fiorentini, ormai da qualche anno in aperta polemica con Croce, fin dai primi mesi della neutralità fecero di lui uno dei principali bersagli “filo-tedeschi” della loro nuova rivista. Nella rubrica Caffè di «Lacerba», già il 15 novembre 1914 [318], un articolo intitolato Croce l’Alboche (probabilmente redatto da Soffici, in quegli anni assai prodigo di articoli militanti) accusava il filosofo napoletano di essere «arruolato al servizio della balordaggine, della malafede e della barbarie», asservito ai «vecchi teutoni predatori e adulteratori del pensiero greco e italiano». Chi patteggiava coi tedeschi era dichiarato imbecille, pedagogo o venduto, come recitava un falso esergo di Dante posto in testa all’articolo, in cui Croce e gli altri membri del gruppo neutralista pro Italia nostra erano definiti «ammiratori dell’elmo kaiseriano, disprezzatori dell’intelligenza e della grazia latina, partigiani della nullaggine austriaca e del nerofumo vaticanesco», votati a «suscitare le antipatie per la Francia e per il popolo slavo.» Da questo momento in poi, l’epiteto «boche» – usato dai francesi per denigrare i tedeschi – avrebbe costantemente accompagnato Croce sulle pagine de «Lacerba».

Le reazioni del “boche” Croce

Di fronte a tale dispiegamento del sostegno dei letterati fiorentini alla causa francese, una delle reazioni più significative degli intellettuali italiani che aderivano a posizioni neutraliste fu portata avanti proprio dal gruppo pro Italia nostra, fondato e diretto dal professore di letteratura francese all’Università La Sapienza Cesare De Lollis, sostenuto da Benedetto Croce e animato da figure di levatura del paesaggio culturale e accademico italiano [13]. Il gruppo si esprimeva in particolare attraverso il periodico «Italia Nostra», un foglio che fu pubblicato settimanalmente dal 6 dicembre 1914 al 6 giugno 1915. Il loro obiettivo era di contrastare le influenze dei moti di piazza interventisti, in particolare repubblicani e socialisti, sulla politica estera italiana, come esprimeva già il primo editoriale: «È cosa di ieri l’offerta fatta da repubblicani d’Italia alla Francia, di combattere sotto le sue bandiere contro l’Austria, non nell’interesse dell’Italia, ma della democrazia – di quella malintesa democrazia alla quale si vantavano apertamente di aver procacciata la recente gloria della settimana rossa! Contro codesto stato di cose è venuto formandosi il gruppo “pro Italia nostra”» [14].

Tra i filosofi, oltre a Benedetto Croce, collaborava abitualmente al foglio il giovane gentiliano Adriano Tilgher [15], che insieme ad altri membri compiva un’attenta rassegna degli usi politici della filosofia ormai frequentemente proposti in Italia e in Francia. Dalle pagine di «Italia nostra» venivano quindi sistematicamente screditate tali letture frettolose e deformanti, concedendo non di rado parole di apprezzamento e difesa della filosofia e della cultura tedesca.

Sin dall’inizio del conflitto Croce insistette per mantenere separate la sfera culturale dalla sfera politica, assegnando agli studiosi il compito di mantenere le proprie ricerche scientifiche distanti dalle dispute politiche, e assolvendo così la cultura – in particolare la filosofia tedesca – dalle responsabilità che le venivano invece imputate.

Di fatto Croce finì spesso per usare le pagine di «Italia Nostra» per difendere se stesso e la propria opera dalle accuse sia politiche che filosofiche che aveva ricevuto con particolare veemenza sin dai primi mesi di guerra, o per criticare gli autori di tali accuse. Già nel primo numero di «Italia Nostra», il 6 dicembre 1914, Croce pubblicava un articolo contro i «profeti» di un indeterminato «nuovo», riferendosi implicitamente agli autori di «Lacerba», «improvvisatori di nuove filosofie, di nuovi socialismi, di nuove formule di poesia, di pittura, di musica» a parere di Croce assai mediocri, che ora con la stessa imprudente facilità improvvisavano la politica e la guerra [Croce 1928, 19].

Nel numero del 20 dicembre 1914, l’articolo Cifre e fatti, anonimo ma molto facilmente attribuito a Croce, reagiva alle accuse di faziosità che gli erano rivolte dall’«Avanti!»: «Il giornale del professor Mussolini ripete un’asserzione comparsa nelle pagine d’un giornale fiorentino, cioè che il nostro collaboratore B. Croce “non è disinteressato” nel difendere la Germania dalla menzogna dei demagoghi italiani, perché egli ha i suoi interessi letterari e il mercato editoriale in paese tedesco. Ma noi siamo di quelli che amiamo ancora la critica storica… e abbiamo voluto consultare i cataloghi». Seguiva quindi un elenco dettagliato delle opere tradotte nei paesi belligeranti, per dimostrare che mentre negli Imperi centrali e alleati circolavano in totale 6 opere di Croce tradotte, nei paesi della Triplice intesa e alleati ne erano state tradotte 11, ed erano in corso di traduzione altre 4, per un totale di 16 opere. Veniva così derisa l’agevole accessibilità della letteratura francese apprezzata dal giornale di Mussolini, contrapposta ai tratti tedeschi della «serietà, severità, scrupolosità, magari sino alla pedanteria…».

In un articolo del 3 gennaio 1915, Croce derideva inoltre i metodi polemici del nazionalismo italiano e in particolare le basse ingiurie personali a cui ricorrevano molti nazionalisti, seguendo i socialisti mussoliniani, che accusavano i neutralisti di avere «mogli tedesche». Croce apprezzava quindi l’atteggiamento rispettoso degli avversari, che in risposta non avevano stilato la lista delle «mogli, amiche o amanti francesi, inglesi, russe o serbe dei nazionalisti» [Croce 1928, 39]! Nel caso di Croce, che non aveva moglie straniera da bersagliare, le ritorsioni politiche miravano invece soprattutto le opere. Di nuovo, Croce chiedeva sarcasticamente di distinguere il giudizio sulle mogli o sull’estetica e la filosofia dal giudizio sulla politica italiana, vero tema della discordia.

Croce ribadì continuamente che la responsabilità della guerra non era della scienza tedesca, ma «degli uomini politici tedeschi, e del popolo, e anche degli scienziati, ma solo in quanto fanno, non già della scienza, ma della politica» [Croce 1928, 70]. Rifiutò quindi di strumentalizzare la cultura a fini nazionalistici e pubblicò per tutta la durata della guerra interventi di denuncia contro le esagerazioni anti-germaniche di alcuni intellettuali, con la pretesa di separare cultura e politica, poiché – come scriveva a Vossler il 9 gennaio 1915 – «in quanto filosofo sono nato nel cosmo, ma in quanto uomo sono nato in Italia» [Croce, Vossler 1951, 193]. Ancora dopo la fine della guerra, il 23 luglio 1919, Croce avrebbe ribadito di nuovo a Vossler: «le lotte degli Stati, le guerre, sono azioni divine. Noi, individui, dobbiamo accettarle e sottometterci. Ma sottomettere la nostra attività pratica e non quella teoretica: sottomettere i nostri affetti politici e non i nostri affetti personali e privati. Altrimenti la barbarie si ristabilirebbe nel mondo» [Croce, Vossler 1951, 206]. Le comunicazioni con Vossler si interruppero però già dopo il gennaio 1915, poco dopo che i due avevano pianto insieme la perdita del traduttore tedesco di Croce, ucciso dal fuoco russo nell’autunno 1914 [Croce, Vossler 1951, 191 ss.].

Insomma, per Croce la guerra non era un conflitto di idee e principi, bensì di Stati, in cui non contava chi fosse più civilizzato o chi avesse più diritto di vincere, ma avevano piuttosto l’aspetto di catastrofi naturali, «tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assettamento tellurico» [Croce 1928, 91]. Nelle guerre i contendenti, hobbesianamente definiti Leviatani, esprimevano la propria potenza in uno dei casi più acuti di lotta vitale per la sopravvivenza. A essi «noi abbiamo il dovere di servire e di obbedire» [Croce 1928, 166], mentre gli studiosi avevano il dovere di mantenere almeno la scienza au dessus de la mêlée.

Anche il primo articolo pubblicato da Croce ne «La Critica» dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 teneva a indicare di nuovo quali fossero «i doveri degli studiosi» [Croce 1928, 51] e manteneva la stessa linea dei mesi precedenti in polemica con gli intellettuali che stavano asservendo la poesia o la scienza alla patria, uno dei cui esempi emblematici era Bergson:

Ma sopra il dovere stesso verso la Patria c’è il dovere verso la Verità, il quale comprende in sé e giustifica l’altro; e storcere la verità, e improvvisare dottrine, – […] come l’applicazione che il Bergson ha fatta della sua teoria della ‘meccanicità’ al Comando militare germanico, e di quella dello ‘slancio vitale’ al Comando militare francese! – non sono servigi resi alla patria, ma disdoro recato alla patria, che deve poter contare sulla serietà dei suoi scienziati come sul pudore delle sue donne [Croce 1928, 52-53].

L’attacco di Croce alla “scivolata” di Bergson sui più facili temi propagandistici veniva del resto a confermare la diffidenza teorica che Croce aveva tematizzato già prima della guerra nei confronti di diversi “irrazionalismi” europei e in particolare della filosofia di Bergson, che era stata introdotta in Italia proprio da Papini e dai Vociani [16].

Altri autori di «Italia Nostra» tenevano come Croce a correggere le interpretazioni ideologiche e deformanti delle diverse culture nazionali, senza tenere però particolarmente a distinguere il discorso scientifico da quello politico. Ciò emerse ad esempio dal modo in cui l’archeologo Vittorio Macchioro intervenne nel numero del 4 aprile 1915 per smentire alcune letture filosofiche di guerra, in particolare quelle esposte da Boutroux in L’Allemagne et la guerre, secondo cui i tedeschi stavano opponendo la propria verità «al pensiero, al diritto, alla morale greco-latini», opponendo la forza brutale e la scienza alla dolcezza, alla bontà, alla forza morale e al diritto. Ironizzando sulla conoscenza della filosofia tedesca da parte di Boutroux, Macchioro lo definiva un «cibreo gallico-fichtiano» che, pur di concentrare tutte le cause della guerra nella filosofia tedesca, pretendeva di non vedere «la politica inglese di accerchiamento, la espansione economica tedesca, il panslavismo, l’irredentismo serbo, le rivendicazioni francesi» [Macchioro 1915]. Accanto all’articolo di Macchioro, Tilgher firmava una reazione ad una conferenza sull’Italia e la cultura tedesca di Ugo Ojetti, futuro direttore del «Corriere della Sera» nel 1926-1927, qui definito «ex socialista rivoluzionario». Volendo slacciare la cultura italiana da quella tedesca, Ojetti aveva sottolineato come Herder e lo Sturm und Drang avessero immensi debiti nei confronti di Rousseau, che aveva persino il merito di aver svegliato Kant dal sonno dogmatico. Dopo aver riassegnato a Hume tale ruolo, Tilgher affermava che lo svizzero Rousseau era forse da considerare il meno francese tra i filosofi francesi, e citava un passo di Spaventa che legava il pensiero italiano a quello degli altri popoli, vedendo in particolare nella filosofia tedesca il proseguimento della filosofia italiana:

e parve che lo spirito umano avesse abbandonato l’antica patria sua, per manifestare la sua infinita ricchezza presso i popoli nuovi di stirpe germanica. Questi di barbarie erano venuti a civiltà; ed ora la loro storia è la storia stessa del mondo. […] Non i nostri filosofi degli ultimi duecento anni, ma Spinoza, Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, sono stati i veri discepoli di Bruno, di Vanini, di Campanella, di Vico, ed altri illustri. […] la storia della filosofia italiana è continuata nella storia della filosofia germanica [Tilgher 1915].

Molti neutralisti di «Italia Nostra», in quanto facili bersagli per accuse di faziosità filo-germanica, per mostrarsi imparziali e per proteggersi preventivamente, riportarono di frequente le critiche che gli stessi francesi avevano talvolta sollevato nei confronti della propaganda anti-prussiana svolta da altri loro connazionali. Il ricorso a voci d’oltralpe servì ad esempio per rispondere a Giulio Caprin, che nella rivista fiorentina «Il Marzocco» del 3 gennaio 1915 aveva riproposto il topos francese delle “due Germanie”, diffuso in Francia sin dalla guerra franco-prussiana del 1870 [Caro 1870, Caro 1871] e tornato molto in auge nella propaganda del 1914 [Boutroux 1926; Bergson 1972, 1113]. L’immagine contrapponeva due morali o due coscienze tedesche: quella idealista e sognatrice, propria delle università, dei libri e della vita privata, distinta da quella utilitaria e vorace sino all’eccesso, propria della politica. Si permetteva così di condannare efficacemente la Germania, pur salvandone i tratti di cui la cultura francese era innervata, in particolare il kantismo, assai presente nella vita accademica della Terza Repubblica. L’articolo non firmato Riflessi del pensiero tedesco in Francia, pubblicato il 24 gennaio 1915 in «Italia Nostra», smentiva la validità di tale interpretazione citando un articolo della «Nouvelle revue française», in cui già nel 1913 Félix Bertaux aveva sostenuto che non fosse possibile distinguere tra una Germania che pensava e una Germania che agiva, e aveva ammesso che molto pensiero francese – ad esempio Quinet, Michelet, Taine et Renan – non sarebbe stato concepibile senza la Germania e suoi scrittori.

Anche Croce riportò di frequente le opinioni di riviste francesi, in quanto tali insospettabili di filo-germanesimo, al fine di rinforzare l’imparzialità delle proprie posizioni. In un numero de «La Critica» del 1915, a guerra ormai iniziata anche per l’Italia, citò ad esempio alcune pagine del «Mercure de France», rivista legata al decadentismo, per criticare la tesi sostenuta tanto da Boutroux quanto dal discorso di Bergson La force qui s’use et celle qui ne s’use pas, secondo cui la Francia si sarebbe difesa dalla forza militare prussiana opponendovi la sola forza del diritto [Bergson 1972, 1105]. Croce stesso, sostenendo le osservazioni già avanzate nella Francia alleata, obiettava che «un diritto impotente non è diritto, ma chiacchiera vile» [Croce 1928, 66]. Nel dicembre 1915 citava di nuovo il «Mercure de France» ne «La Critica»: «altresì in Francia – osservava Croce – si è cominciato a sentire il bisogno di contrastare le sciocchezze che si erano largamente divulgate e venivano pappagallescamente ripetute, sulla filosofia tedesca o su protestantesimo, come cause della presente politica germanica» [Croce 1928, 88].

La posizione di Croce nei riguardi della filosofia tedesca non era però mai stata di prona accettazione: già prima della guerra aveva avanzato critiche, anche dure, alla psicologia protestante di Harnack [Croce 1903] o al «pangermanesimo cieco e spesso comico dei Chamberlain, dei Woltmann e di altrettali», come avrebbe ricordato Gentile nell’articolo Benedetto Croce e i tedeschi dell’ottobre 1918: «Croce – avrebbe scritto Gentile – pare non avesse nessun bisogno di aspettare la guerra contro la Germania per vedere tutti quei difetti dello spirito tedesco, che oggi i suoi accusatori gli rimproverano di non vedere e non additare ai suoi compatrioti» [Gentile 1919, 226]. La distanza di Croce dalla filosofia tedesca contemporanea era emersa anche nel bilancio sul Congresso di Bologna del 1911 riportato da De Ruggiero in una celebre intervista per il «Giornale d’Italia», dove Croce aveva notato «uno spostamento dei centri dell’attività filosofica dai paesi germanici verso i paesi latini» e addirittura aveva ammesso: «La Germania non vive più che sulle sue gloriose tradizioni filosofiche, ma non dà alcun contributo valido a promuoverle» [Croce 1966, 254].

Nemmeno di fronte ai discorsi politici di alcuni professori tedeschi durante la guerra Croce fu indulgente. Il 9 gennaio 1915 scrisse a Vossler di aver incontrato a Napoli il filologo Klemperer, di cui lamentava la sovreccitazione e la mancanza di tatto e di spirito, tratto che Croce riconosceva anche in altri professori tedeschi, suggerendo quindi provocatoriamente all’amico di Monaco: «Perché non tappate la bocca a quegli Ostwald, Eucken, Harnack, Lasson, ecc.? Sarebbe opera patriottica» [Croce, Vossler 1951, 192-193]. Croce recensì inoltre severamente Der Krieg und die geistigen Entscheidung di Simmel, autore apprezzato prima della guerra e ora liquidato come «ingegno elegante, ma di poca forza filosofica, e sembra che con la filosofia giochi come con un fioretto in una sala da scherma» [Croce 1928, 182; Coli 1983, 79 ss.]. Come non si era fermato di fronte ai francesi Bergson o Boutroux, Croce non aveva frenato di fronte alla nazionalità tedesca né dei firmatari del “manifesto dei novantatré” né di Simmel, riconoscendo anche in essi un asservimento della propria cultura alla causa nazionalista.

Così il 22 luglio 1919 avrebbe commentato a Vossler il modo in cui molti intellettuali europei avevano dato la priorità a presunti doveri patriottici e avevano orientato in base a essi le proprie analisi scientifiche e storiche:

Ora, troppi studiosi in Francia, in Germania, in Italia, dappertutto, hanno peccato, in questo senso; e con quale vantaggio per la patria? Nessuno! Invece, con grande danno della scienza e degli studi, che sono al disopra della patria. […] D’altra parte, la storia m’insegna che i rapporti rispettivi degli Stati cangiano rapidamente. Guai se si dovessero cangiare allo stesso modo le disposizioni e i concetti scientifici! Auguro perciò che in Europa si ristabilisca la fratellanza scientifica: con l’esclusione di tutti gli chauvinismes, e soprattutto del francese e del tedesco. Gli italiani sono poco chauvinistes, per modestia, e gli inglesi poco chauvinistes, per superbia [Croce, Vossler 1951, 205-206].

Anche Gentile, sebbene non avesse aderito al gruppo pro Italia nostra, intervenne ripetutamente dalle pagine de «La Critica» per fare verifiche sulle letture più deformanti della filosofia tedesca che provenivano dalla Francia, senza per questo abbracciare incondizionatamente la causa culturale della Germania. Ad esempio nel 1916 scrisse di sottoscrivere l’idea crociana per cui l’Europa dei chierici avrebbe dovuto salvaguardare la verità e non abbandonarsi alla tentazione della «letteratura polemica, astiosa e amara, che dilaga anche tra noi e tra i cultori di studi filosofici» [Gentile 1916, 137], come notava che in Francia era accaduto a Boutroux e ora ad altri grandi conoscitori della filosofia tedesca. Nel recensire quindi i saggi L’esprit philosophique de l’Allemagne et la Pensée Française di Victor Delbos e Guerre et philosophie di Maurice de Wulf, Gentile smentiva la loro presentazione del pensiero germanico come ineluttabilmente e interamente destinato a produrre barbarie, se non per alcuni tratti che essi attribuivano a influenze latine e in particolare cartesiane, tacendo però tutte le influenze del pensiero tedesco risentite dalla filosofia francese, così come da quella italiana e inglese. Dopo aver messo in luce tutte le contraddizioni e le forzature operate dagli autori per opporre la filosofia tedesca a quella «latina» [Gentile 1916, 143], Gentile concludeva con un affondo alla Germania attuale: «la guerra è santa, e va combattuta con ogni possa; ma non buttiamo nel fuoco divoratore il patrimonio sacro che è comune a tutta l’umanità senza frontiere […] Questo dimenticano facilmente i tedeschi; ma, ripeto, è una ragione per non dimenticarlo anche noi, anzi per ricordarcene» [Gentile 1916, 143].

Un filosofare d’attualità

Benché potesse criticare alcuni aspetti della filosofia tedesca recente, la linea perseguita da «La Critica» durante la guerra fu principalmente di cura che la filosofia tedesca non fosse sacrificata e semplificata in nome dei nazionalismi, per preservare il valore importantissimo che aveva nella moderna cultura europea. Croce rimase in particolare fedele ad alcuni elementi teoretici e metodologici che l’Italia aveva assimilato dalla Germania e aveva interesse a mantenere. Nel dicembre 1915 scriveva ne «La Critica»: «io [non] ho aspettato la guerra per avvertire o affermare che la filosofia tedesca degli ultimi ottant’anni è mediocre; che la sua scienza si modella volentieri sull’industria con la meccanica divisione del lavoro e il meccanico aggregamento dei risultati; che troppe volte è turbata da fisime nazionalistiche; che nella psicologia politica del tedesco ha malamente operato la maniera cinica, dal Bismarck affrettata, e via discorrendo» [Croce 1926, 86], ma temperava subito queste critiche sostenendo di difendere «alcuni concetti» e «alcuni abiti di lavoro e di studio» tedeschi. Contro la «plebe» e il «demimonde scientifico e letterario» che vedeva gridare «contro la pedanteria “germanica”» per lodare «“la genialità latina”», Croce affermava: «levo alta la bandiera e impugno l’arma del “Metodo tedesco”. Sarà un “simbolo”, ma di questo simbolo penso che sarebbe ora pericoloso, e antipatriottico, cioè dannoso all’Italia, disarmarsi» [Croce 1926, 87].

Ancora nello scritto del 1916 intitolato Il nuovo concetto della vita, Croce opponeva «il concetto latino della vita politica e storica, cioè l’ideale della fratellanza e della pace universale» all’ideale germanico «della vita come lotta continua e che nella lotta stessa trova con la sua ragione il riposo» [Croce 1928, 126]. Croce teneva a distinguere questi due concetti non in quanto «espressione di due razze diverse, come gl’ignoranti immaginano» [ivi, 126-127], bensì in quanto «due forme o stadî o epoche di vita mentale o spirituale»: la prima era caratterizzata dal miraggio cattolico del paradiso in cielo, o dal miraggio giacobino e democratico del paradiso in terra, mentre la seconda negava ogni paradiso e riconosceva la città di Dio o della Ragione nella storia stessa. Croce si riferiva a una linea che si era esaurita nell’enciclopedismo, esito epigonale dell’ideale latino, provocando persino paradossali ribellioni contro l’ideale democratico da parte tanto di nazionalismi quanto di socialismo e sindacalismo, soprattutto durante la guerra in corso, per rafforzare le nazioni; la linea tedesca era invece stata iniziata da Kant ed era stata raccolta in Italia da Rosmini e Gioberti. L’ideale più avanzato era per Croce quello «storico e combattente della vita», che dopo la guerra – si augurava – , «diventato europeo, sarà al tempo stesso purificato da ciò che per avventura conteneva di particolaristicamente e materialisticamente e rozzamente germanico» [Croce 1928, 130].

Croce teneva insomma ad allacciare la cultura italiana all’ideale di una filosofia storica e affiatata con la vita, da distinguere però dalla versione troppo contingentista che ne aveva dato De Ruggiero nell’articolo La pensée italienne et la guerre, pubblicato nella «Revue de métaphysique et de morale» nel 1916. Croce avrebbe prontamente reagito dalle pagine della «Critica» per precisare che la filosofia non doveva adeguarsi al contingente, ovvero «attribuire valore di pensiero ai moti della passione o del capriccio. Di questo passo – continuava Croce –, storiografia genuina sarebbe, non solo ogni tendenzioso racconto configurato da particolari interessi politici, ma persino ogni grido di piazza, ogni chiacchiera da caffé» [Croce 1928, 155]. Riferendosi alla situazione politica presente, Croce riteneva che il filosofare dovesse essere «di attualità o conformità ai tempi, senza cessare di essere un filosofare» [ivi, 158].

In questo quadro non è irrilevante che Croce, a partire dalla fine del 1917, si dedicasse allo studio di Goethe, quasi a dimostrare che la cultura poteva lavorare in modo indipendente dalle guerre politiche, e soprattutto per ribadire l’importanza del contributo tedesco alla storia culturale d’Europa [17]. Dopo il 1918, Croce stesso avrebbe rivendicato con fierezza la difesa della filosofia tedesca operata durante la guerra nella lettera all’amico Karl Vossler del 22 luglio 1919, in cui gli ricordava di essere stato accusato per anni di tedeschismo e disfattismo, e offriva all’amico una copia delle Pagine sulla guerra, presentandogliele come «la più salda e ferma difesa della cultura tedesca» [Croce, Vossler 1951, 205].

Nel suo sforzo di mantenere separati i discorsi filosofici dal piano politico, Croce ribadì in diverse occasioni la superiorità del pensiero tedesco su quello francese, associando nel contempo quest’ultimo alle logge della massoneria, contro la quale Croce era solito polemizzare politicamente. Così interveniva nel luglio 1918:

La fede nella monarchia o nella repubblica, nella libera concorrenza o nel socialismo, nel socialismo di Stato o nel socialismo sindacalistico, e via dicendo, sono (checché credano i teologi e preti dei varî partiti politici) tutte fede condizionate e contingenti; ma la fede nella forza della ragione è, sol essa, incondizionata e assoluta. Ho detto della «ragione», e i miei lettori sanno a quale «ragione» io intenda prestare la mia riverenza: non certo all’arida «Ragione», di cui si vantano i liberi pensatori di quelle tali logge che sono gli odierni asili dell’ignoranza, ma alla ragione dialettica e fattiva; non già (mi duole di dover dispiacere a molti col pretendere il termine negativo dalla lingua francese e il positivo dalla tedesca) non già alla Raison, ma alla Vernunft [Croce 1928, 269-270].

Risultava insomma molto difficile nascondere l’orizzonte politico dalle riflessioni di storia della filosofia, tanto negli scritti di Croce quanto nell’atteggiamento assunto dagli intellettuali italiani nei suoi confronti durante la guerra. I socialisti erano compatti nel contrastarlo, in uno schieramento che univa i fiorentini e i positivisti, passando anche per Giuseppe Rensi, che ancora nel 1918 accusava Croce di servilismo nei confronti della Germania [Rensi 1918]. I liberali erano invece propensi a difendere la posizione di Croce, il cui contegno equilibrato era lodato ad esempio da Piero Gobetti in uno dei suoi primi scritti politici, pubblicato nel secondo numero di novembre di «Energie nuove»: «La gazzarra contro B. Croce – scriveva l’appena diciassettenne Gobetti – dura orami da qualche anno […] c’è uno sciocco, a Torino, pieno di pretese e di bile, che lo chiama von Kreuz. […]» [Gobetti 1969, 17]. Criticando la superficialità dei «manifestini» e delle «filippiche contro i tedeschi e (per loro è lo stesso) contro chi studia» che continuavano a provenire dagli innumerevoli nemici di Croce, si riferiva in particolare a Ettore Romagnoli, grecista autore del pamphlet Minerva e lo scimmione [Romagnoli 1917] e a F.T. Marinetti, ricordando l’inimicizia della massoneria verso Croce e concludendo: «Finché dura la gazzarra anticrociana, finché la lotta è tra la menzogna e l’onestà, tra la mentalità massonica, e riformista, e il pensiero, finché combattere Croce vuol dire combattere la serietà degli studi e l’educazione nazionale, non può essere dubbio il contegno della gente onesta. Stare col Croce vuol dire combattere le porcherie torbide di quegli italiani che disonorano l’Italia» [Gobetti 1969, 20].

Più complessa fu la posizione di un autore francese la cui influenza nella storia politica italiana fu molto forte, come Georges Sorel. Mentre si insiste spesso sull’influenza teorica, soprattutto indiretta, che ebbe sul fascismo negli anni tra le due guerre, è invece meno scontato e lineare il ruolo che egli rappresentò nella cultura italiana negli anni precedenti. Sin dal 1914 si distinse dall’union sacrée degli intellettuali francesi fedeli agli ideali della terza Repubblica e uniti nella difesa di una guerra che Sorel disapprovava profondamente, poiché vi riconosceva soprattutto la volontà di proteggere e rinforzare le tendenze borghesi, giacobine e democratiche della società francese e europea. Proprio in quanto voce fuori dal coro della propaganda francese impegnata a incitare all’intervento i paesi ancora neutrali, Sorel divenne subito bersaglio di critiche degli intellettuali interventisti italiani. Durante la guerra persino Mussolini, che negli anni Venti non avrebbe esitato a rivendicare la continuità tra il fascismo e la filosofia di Sorel, condannò duramente l’autore delle Refléxions sur la violence, definendolo in alcuni editoriali dell’«Avanti!» un «verme di biblioteca», un «gesuita compiuto», o ancora un «clown completamente liquidato in Italia» [18].

A sua volta Sorel criticò ben presto gli intellettuali francesi e italiani che aveva visto entrare nella mischia. Già nella lettera a Croce del 14 novembre 1914, aveva notato: «Sono spaventato nel constatare la nullità che questa guerra fa scrivere» [19] [Sorel 1980, 205] e solo due settimane dopo aveva scritto di nuovo per dichiarare la propria distanze da Papini e dalla sua cerchia, tra i quali si contavano un tempo molti ammiratori del suo sindacalismo rivoluzionario: «Lanzillo – scriveva Sorel a Croce – […] m’informa che Papini gode di una grande popolarità in Italia ; il che mi meraviglia enormemente, ma mi affligge. Dopo aver aderito al futurismo, ecco che diventa uno dei luogotenenti di Mussolini e del nuovo partito socialista da questi creato. È da temere che il lavoro fatto da una quindicina d’anni per sviluppare la serietà in Italia stia per perdersi» [Sorel 1980, 206]. Il 25 dicembre 1914 Sorel scriveva poi di essere stupito della stupidità e della volgarità delle critiche che leggeva sulla rivista fiorentina, descritte come sintomi di uno «stato di follia» che lo faceva «disperare dello spirito umano» [Sorel 1980, 208]. Croce stesso aveva inviato a Sorel i primi numeri di «Italia nostra», di cui Sorel condivideva il programma anti-interventista. Già il 4 gennaio 1915 Sorel scriveva a Croce per complimentarsi: «il giornale è notevole; riposa dalle follie della “Voce”; ma non l’avranno vinta i pazzi?» [20] [Sorel 1980, 209].

In accordo con Croce, sebbene per ragioni diverse, sull’atteggiamento conveniente agli intellettuali in quella situazione politica, Sorel esprimeva però disaccordo sull’articolo Cultura tedesca e politica italiana, che Croce aveva pubblicato in «Italia nostra» del 27 dicembre 1914, dove sosteneva che la socialdemocrazia tedesca avrebbe promosso l’avvenire del movimento proletario ben più di quanto avrebbero ottenuto i demagoghi francesi, inglesi e italiani. Croce aveva infatti scritto che questi ultimi avrebbero aperto la strada «non al proletariato e ai lavoratori, ma, come dice il mio venerato amico Sorel, ai noceurs» [Croce 1928, 22]. Secondo Sorel al contrario la socialdemocrazia avrebbe fatto le spese dell’eventuale vittoria della Germania, che avrebbe rafforzato soprattutto la disciplina tedesca. Nonostante questa divergenza, il 30 gennaio 1915 Sorel scrisse di nuovo a Croce per dirgli di essersi abbonato a «Italia nostra» [Sorel 1980, 210-211].

La lettera di Sorel a Croce del 6 dicembre 1918 ribadiva la sua delusione di fronte agli intellettuali che asservivano la propria posizione alla situazione politica, biasimando il comportamento di Boutroux e persino di Bergson, da sempre suo punto di riferimento: «Presagisco meglio l’avvenire dell’Italia che l’avvenire della Francia: perché da voi c’è ancora un pubblico capace di ascoltare le sue lezioni: qui non c’è che il vuoto più assoluto del pensiero. Boutroux ha mostrato quel che può diventare un gran professore e credo che Bergson non abbia molta più indipendenza di lui» [21].

Sorel inviò lettere dal contenuto simile anche a Missiroli, liberale conservatore allora direttore de «il Resto del Carlino», con cui Sorel stesso avrebbe frequentemente collaborato tra il 1919 e il 1921. Di fronte alle critiche francesi sia contro Croce che contro il quotidiano di Missiroli, giudicato troppo favorevole alla Germania, nel saggio del 1921 La massoneria contro Croce, Sorel indicava precise responsabilità politiche francesi:

Non mi stupirei affatto se molti degli articoli contro Benedetto Croce fossero ispirati da quegli universitari francesi, che, durante la guerra, il nostro governo aveva inviato in Italia con particolari incarichi di propaganda. In realtà, costoro si sono dati ad un lavoro di spionaggio ed è a costoro, che si devono le accuse apparse nella stampa francese contro la pretesa germanofilia del “Resto del Carlino”. Ma le critiche che questa gente muove a Croce, non possono in nessun modo impressionare le persone dotate di un minimo di serietà [Sorel 1973, 410].

Società italo-straniere e congressi internazionali

Anche Croce ebbe occasione di lamentare, oltre alle deformazioni filosofiche e al sacrificio del metodo storico-critico, anche aspetti più direttamente politici del lavoro degli intellettuali durante la guerra, come l’interferenza delle istituzioni culturali che la Francia aveva promosso in Italia e che, reciprocamente, lo Stato italiano si proponeva di collocare in quegli anni in Francia. Nel saggio del 1917 Le società italo-straniere, sosteneva anzitutto che non era merito degli «istituti impiantati dai francesi in Italia» se gli italiani erano giunti a «conoscere e stimare le filosofie di un Blondel e di un Bergson», così come dopo il 1870 in Francia, nonostante tutti i pregevoli sforzi di professori autorevoli per inculcare il pensiero germanico, non era stato possibile modificare se non lievemente la mentalità francese: «il difetto – concludeva Croce – è […] del popolo refrattario; e a volerlo correggere con la cosiddetta “propaganda” non si ottiene nulla, o assai poco e di qualità assai scadente» [Croce 1928, 159]. Nella creazione di un “Istituto italiano di Parigi” Croce avvertiva inoltre il rischio di nuocere alle tante vie di scambio «naturali» già aperte da editori, riviste e corrispondenze private, a vantaggio di «un oscuro traffico tra pochi individui, che si arrogano di rappresentare il pensiero, la scienza, la letteratura nazionale» [Croce 1928, 160]. Nel suo appello «Per la serietà degli studiosi italiani – Per la serietà della scienza – Per la serietà del sentimento politico», Croce considerava le Società, gli Istituti, le Alliances e le Amitiés nate durante la guerra come vie che facilitavano la penetrazione politica, in cui si poteva riconosceva storicamente l’impronta giacobina e massonica. Esse si basavano culturalmente su un sottinteso disegno di alleanze basate su «affinità di razza, di derivazione o di storia», ma del tutto inconsistenti sul piano scientifico: «In quanto cultori di scienza – scriveva Croce – prima che italiani, o latini, siamo cultori di scienza, e nessun nazionalismo e nessun interesse politico potrà mai persuaderci ad accettare una filosofia inferiore, perché di fattura italiana o francese, e a ricusarne una superiore, perché di fattura tedesca» [Croce 1928, 162].

Oltre all’Istituto italiano di Parigi, Croce aveva per bersaglio l’iniziativa di Vito Volterra, senatore e professore di matematica all’Università di Bologna. Per consolidare la cooperazione intellettuale tra Francia e Italia, Volterra aveva fondato l’Associazione Italiana per l’Intesa Intellettuale fra i Paesi Alleati e Amici, promotrice di scambi intellettuali anche tramite la rivista «L’Intesa Intellettuale», nata solo nel 1918 e pubblicata da Zanichelli [22] ancora nel 1919, quando Volterra avrebbe ricevuto una laurea honoris causa alla Sorbona. L’articolo sulle società italo-straniere usciva pochi giorni dopo la riunione della prima assemblea generale dell’Associazione fondata da Volterra e si riferiva proprio a progetti simili all’Intesa Intellettuale, come Croce stesso ebbe modo di precisare in una lettera a Volterra, in cui comunicava la propria decisione di restare fuori dall’Associazione.

Il promotore principale di iniziative istituzionali italo-francesi fu in quegli anni l’Istituto francese di Firenze, fondato nel 1907 da Julien Luchaire, che durante la guerra aveva moltiplicato i propri sforzi per rinforzare l’amicizia latina e, parallelamente, per contrastare l’influenza culturale tedesca in Italia anche sul piano filosofico. Già all’inizio del 1915 l’Istituto francese aveva aperto una sede a Milano, città degli affari e dei grandi quotidiani, per intensificare l’attività di propaganda. Tale decisione di Luchaire aveva suscitato l’immediata reazione di Cesare De Lollis in «Italia Nostra», in cui affermava non solo che l’Istituto fiorentino sin dallo scoppio della guerra era servito da ufficio di arruolamento per i repubblicani italiani ma anche che il valore scientifico delle sue iniziative era irrisorio rispetto a quello degli istituti tedeschi in Italia, come il Kaiserlich deutsches Archaeologisches Institut fondato nel 1828 e l’Istituto Storico Prussiano fondato nel 1881. De Lollis sottolineava inoltre che gli istituti tedeschi non avevano mutato la loro funzione durante la guerra, «fors’anche – sorrideva De Lollis – per la ragione che i tedeschi sono specialisti fino alla pedanteria, e un loro archeologo o paleografo non saprebbero far ufficio d’informatori» [De Lollis 1915, 1].

È importante notare che le azioni di Luchaire si concretizzarono principalmente nelle città di Firenze e di Milano, e solo in misura minore nelle regioni meridionali. Qui tra il 1915 e il 1918 fu organizzato solo un ciclo di conferenze: non molto per bilanciare l’importanza dell’alleato inglese, il cui ruolo economico nel Sud Italia era tradizionalmente molto forte, ma soprattutto della cultura tedesca.

Nel 1918, verso la fine della guerra, fu fondato in Francia il Commissariat général de la Propagande, erede della Maison de la Presse romana. Nei rapporti del Commissariat sulla situazione nel meridione italiano si legge: «La chose qui importe est de faire vite et de ne pas lésiner et de constituer un important centre scientifique là où les Allemands exercent depuis longtemps une influence indéniable» [23]. Per questo fu ben presto presa l’iniziativa di fondare una nuova sede dell’Istituto a Napoli, dove ancora dopo la guerra l’Università contava due cattedre di letteratura tedesca ma nessuna di letteratura francese, e dove anche la scienza tedesca godeva di un’alta reputazione, grazie alla presenza della stazione zoologica Anton Dohrn. Questa era passata in mano italiana durante la guerra e, dopo essere stata per alcuni anni al centro di un contenzioso tra il governo italiano e la famiglia Dohrn, riprese le proprie attività grazie alla mediazione del senatore Benedetto Croce nel 1923 [24]. La presenza di Croce e la sua attitudine a tutelare le rappresentanze culturali tedesche della città rendevano la fondazione di un istituto francese a Napoli assai più delicata che a Firenze. Perché una simile istituzione potesse ottenere seguito e rinomanza nella città partenopea, era evidente che occorreva affrontare anzitutto la questione filosofica, proprio per rispondere a Croce e alla tradizione tedesca che egli prediligeva, al pari di gran parte dei ceti intellettuali e universitari meridionali. Il programma dell’Istituto francese di Napoli diede quindi da subito un posto d’onore alle attività filosofiche. Maurice Mignon, agrégé d’italiano e professore all’Università di Lione, futuro collaboratore del Bureau de la Propagande intellectuelle et universitaire creato nella primavera del 1918 e diretto dal segretario dell’Ambasciata Tondeur-Scheffler, che agiva per conto dell’Ufficio di propaganda francese e collaborava con Vito Volterra, in un rapporto sulla propaganda francese in Italia nel 1918 sostenne la necessità di suscitare la simpatia e l’interesse di Croce per la cultura francese, rimediando anzitutto al fatto che le opere e il pensiero crociani fossero poco conosciuti in Francia. Nel suo rapporto, Mignon descrisse Napoli come un focolaio di filogermanismo proprio a causa della presenza egemone di Croce, e concluse: «Il faudrait attirer Croce à nous. Il est inadmissible qu’il soit aussi mal connu en France, on devrait le traduire, inscrire ses oeuvres au programme de l’agrégation de philosophie, faire appel à lui pour des échanges de professeurs, bref, agir pour accentuer l’évolution chez Croce, qui se détache de la philosophie allemande. Cela est très utile pour l’orientation intellectuelle de l’après-guerre en Italie» [25]. L’attività di propaganda dei servizi francesi nel meridione italiano si diede quindi non solo la strategia di diffondere la cultura francese, ma anche di accattivarsi la simpatia di Croce, ad esempio promuovendo la diffusione delle sue opere in Francia.

L’Istituto francese di Napoli nacque come annesso dell’Istituto francese di Firenze già nel luglio 1918, inizialmente organizzando conferenze con la collaborazione di Alberto Marghieri, direttore del Circolo filologico Francesco De Sanctis, deputato e già Rettore dell’Università dal 1915 al 1917 [26]. Le conferenze conobbero un grande successo e rinforzarono in Mignon l’idea della necessità di creare a Napoli un Istituto francese per promuovere «un essai libre de collaboration universitaire et de propagande intellectuelle franco-italienne» [27]. Già nell’agosto 1918 furono organizzati corsi di lingua e letteratura francese per iniziativa dell’Università di Napoli. Nel 1919 l’Istituto napoletano ricevette una sovvenzione superiore a quella degli altri due Istituti francesi, poté affittare un piano di Palazzo Saluzzo di Corigliano e fu finalmente unito all’Université de Grenoble con un decreto presidenziale del 22 ottobre 1921. Contemporaneamente veniva chiusa la sede milanese dell’Istituto francese, aperta nel 1915. La direzione dell’istituto napoletano fu assegnata a Paul-Marie Masson, musicologo dell’Università di Grenoble dalla formazione impeccabile e capace di ispirare rispetto, fiducia e apertura – come ha sottolineato Sandrine Iraci – anche grazie ad una carriera non “macchiata” dall’impegno politico [Iraci 2011, n. 43].

Il rapporto dell’ambasciatore Camille Barrère a Clémenceau del 26 dicembre 1919 sottolineava la cura particolare che sarebbe stato necessario dedicare alla scelta del titolare dell’insegnamento di «histoire des philosophies latines» presso il nuovo istituto [Renard 2001, 385]. L’incarico fu assegnato all’agregé di filosofia Camille Schuwer, che strutturò l’insegnamento in tre sezioni, dedicate alle grandi correnti del pensiero francese nel XIX secolo, alla filosofia di Bergson e all’estetica sociologica di Guyau [Masson 1922, 334-335]. I corsi di storia della filosofia francese furono offerti sin dall’inizio accanto ai tradizionali corsi di lingua, poiché - come ricordava il programma - proprio a Napoli «depuis longtemps, mais de nos jours encore, avec Benedetto Croce, la philosophie et la pensée allemandes ont le plus pénétré dans ce pays» [cit. in Renard 2001, 385].

Schuwer tenne inoltre conferenze presso società culturali napoletane come il Circolo degli Illusi, la Società del Quartetto e il Circolo di Cultura religiosa, e tenne i contatti con la sezione di Bari dell’Unione intellettuale italo-francese. Mentre l’Istituto si faceva così strada nell’Italia meridionale, i rapporti delle attività del 1922-1923 tenevano a testimoniare che i contatti dell’Istituto con Benedetto Croce avevano fatto svanire i suoi pregiudizi nei confronti della giovane istituzione. Croce avrebbe infatti dichiarato che l’Istituto «rendeva un eccellente servizio» nel perfezionamento degli altri studi a Napoli, e avrebbe rimpianto che non ci fosse stato «un Istituto britannico o tedesco, organizzato su basi analoghe» [28]. Schuwer promosse inoltre lo scambio franco-italiano traducendo in francese alcune opere del positivista Antonio Aliotta, professore all’Università di Napoli [Aliotta 1924]. È significativo che Schuwer pubblicasse un doppio saggio sull’idealismo di Croce e Gentile nella «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger» nel 1924 [Schuwer 1924a, Schuwer 1924b]. Nei due articoli, Schuwer si riferiva anche al pensiero di autori italiani più vicini alla tradizione francese come i positivisti Aliotta ed Enriques, a De Sarlo, oltre che al modernismo di Buonaiuti e al neotomismo, ma intendeva anzitutto esporre ai lettori francesi la corrente che allora dominava il paesaggio filosofico italiano, che molti filosofi transalpini avrebbero incontrato al Congresso internazionale di filosofia. Aliotta organizzò infatti a Napoli nel maggio 1924 il primo Congresso internazionale dopo la guerra, a cui Schuwer stesso avrebbe partecipato con una conferenza sull’estetica, terreno crociano per eccellenza. Croce stesso promosse il congresso, condizionando però la propria partecipazione al Comitato d’onore all’inclusione dei filosofi tedeschi [29], che dalla fine della guerra erano stati esclusi dai congressi internazionali di tutte le discipline con l’obiettivo di marginalizzarli e di far perdere alla lingua tedesca il primato scientifico raggiunto prima della guerra [30]. Anche gli incontri filosofici internazionali dopo il 1918 avevano compreso solo i paesi amici dell’Inghilterra o della Francia, come avvenne sia nel caso del Meeting di Oxford del settembre 1920 sia del congresso organizzato dalla Société française de philosophie nel dicembre 1921. Il congresso di Napoli del 1924 rappresentò la prima eccezione a questa tendenza e il primo importante sforzo per riallacciarsi all’ideale cosmopolitico che aveva motivato i congressi internazionali sin dall’inizio.

Le strategie di propaganda culturale coordinate dall’Istituto francese di Firenze nel primo dopoguerra si estesero insomma con successo anche nella città di Napoli, nodo cruciale della vita culturale italiana. La sede napoletana dell’Istituto aveva mantenuto la funzione anti-tedesca e anti-crociana già espressa da Luchaire e dall’ambiente fiorentino durante la guerra, perpetuando sul terreno istituzionale i già consueti interventi di Croce in difesa della presenza della filosofia e della scienza tedesche nella cultura europea e internazionale anche dopo la sconfitta del 1918.

Garin ha notato che Croce, «pur riconoscendo il ruolo politico della cultura», si batté sempre contro due estremi: «la castità verginale delle idee, e la loro strumentalizzazione volgare» [Garin 1987, 64]. L’intenzione dichiarata da Croce nelle Pagine sulla guerra sembrerebbe invece voler difendere interamente la «castità verginale delle idee» e l’esigenza di mantenere la filosofia in uno spazio immacolato e protetto dalle passioni e dalle battaglie politiche. Una posizione così radicale deve però essere intesa come una reazione compensatoria a un altrettanto estremo asservimento della filosofia alle cause della propaganda, a cui si assisteva quotidianamente nell’Europa di quegli anni. Croce stesso del resto reputava inutili i tentativi di correggere le passioni facendo appello alle verità offerte dalla scienza, come scriveva ne «La Critica» nel maggio 1915:

Lo scienziato non deve entrare in gara con le passioni, quando sono intente all’opera loro di creare fantasmi di amore e di odio; se anche non può pretendere di spegnere, con la sua scienza, quelle immagini sorte fuori della scienza ed efficaci nella vita, dove incontrano spontanei correttivi in altre immagini, sorte da sentimenti diversi od opposti [Croce 1928, 52-53].

Pur considerando che ogni uomo di scienza era tenuto a servire la propria patria in guerra, Croce affermava di ritenere prioritaria la difesa della verità. Il filosofo, come scriveva Croce a Vossler nel settembre 1919, non doveva «farsi l’animo di guerra, cioè chiamare bianco il nero e nero il bianco e asserire il contrario di ciò che aveva affermato prima» [Croce, Vossler 1951, 220-221]. Per opporsi alla guerra Croce non abbracciò l’ideale per lui filosoficamente falso della giustizia assoluta, né gli ideali astratti dell’internazionalismo, dell’antimilitarismo e del pacifismo di eredità illuminista e giacobina, giusnaturalista e socialista. Croce continuò a rifiutare l’idea dello “Stato giustizia” di cui parlavano i democratici di educazione francese, così come aveva rifiutato lo “Stato etico” hegeliano: aveva invece difeso l’autonomia della politica e aveva riconosciuto allo Stato il solo compito di diventare più forte. Se vi era una guerra essa doveva quindi essere difesa in nome degli interessi della patria, e non di quelli della classe, o degli ideali astratti della libertà e della civiltà contro la barbarie [Matteucci 1999, 37-38; Meroi 2016; Orsucci 2016].

Croce fu però il primo ad ammettere di non essersi mai posto au dessus de la mêlée [Croce, Vossler 1951, 205]. Come ha precisato di nuovo Garin, «In realtà non c’è opera storica di Croce che possa intendersi nel suo valore al di fuori di una definita battaglia politica» [Garin 1987, 65]. Ciò sembra particolarmente vero nelle Pagine sulla guerra, in parte tratte da riviste militanti e schierate come «Italia Nostra», sempre ricche di riferimenti alla storia politica italiana ed europea passata e presente, in cui la tanto rivendicata purezza della scienza e della filosofia era anche allora immersa con particolare violenza nella storia. Ricordando i propri scritti di guerra nel Proemio alla “Critica” del 1944, Croce avrebbe ricordato con fierezza la «pertinacia che parve ostinazione, e le procurò accuse di frigidità o di tepidezza» [Croce 1944, 3-4], e avrebbe ammesso che dopo il 1914 la rivista «entrò per la prima volta nella polemica politica»:

Vi entrò per una via che le si offerse naturale, giacché sentì il dovere di tutelare e rivendicare la filosofia, la scienza, le opere dell’arte, la storia, la verità contro le quotidiane falsificazioni e lo scempio che, per ragioni di guerra, se ne faceva dai pubblicisti dell’Intesa, segnatamente dai francesi e dagli italiani, quando e Kant e Hegel e Goethe, e perfino Shakespeare di cui allora ricorse il centenario, erano accusati e vituperati come nient’altro che rappresentanti o addirittura mandatarii della barbarica prepotenza e violenza germanica [Croce 1944, 4].

La critica storica che Croce e gli autori de «La Critica» svolsero durante la guerra si proponeva quindi un ben preciso valore politico, il cui senso Croce avrebbe così restituito a posteriori, di nuovo ponendosi in una ben definita battaglia politica:

io per allora non mi resi conto che, così protestando, stizzito e scandolezzato, contro quegli spropositi e studiandomi di rimettere pazientemente a posto la verità, già avvertivo e intravvedevo il nemico che si preparava, il fascismo o nazismo e lo stato “totalitario”, che stoltamente si argomenta di cangiare o sopprimere come antinazionali i valori dello spirito [Croce 1944, 4].


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Note

1. Un quadro della partecipazione degli intellettuali tedeschi alla propaganda è tracciato efficacemente da Lübbe 1963, 178-188, mentre una più dettagliata ricostruzione è di Flasch 2000. La storia del fronte francese degli intellettuali negli stessi anni è invece ben delineata da Prochasson, Rasmussen 1996 e da Hanna 1996. Uno sguardo incrociato su entrambi i campi si trova infine in Losurdo 1994, Audoin-Rouzeau, Becker 2000, 159-214, De Launay 2001, oltre che in Lepenies 2009, Merlio 2015 e Zanfi 2013 (cap. 5) e 2017.

2. Croce scriveva così a Gentile in una lettera del 3 febbraio 1910 sul congresso: «ho detto [a Enriques] che la sezione tedesca è mostruosa; ed egli ha promesso di accomodarla alla meglio introducendo due filosofi: il Windelband (che sarebbe grave offesa non invitare, essendo stato il presidente dell’ultimo congresso, e avendo fatto colà larga parte agli italiani e contribuito a far dichiarare sede del IV congresso l’Italia) e l’Eucken. In sostituzione di questi, se non accetteranno, ha premesso d’invitare il Simmel e il Rickert», cfr. Croce 1981, 370. Per un quadro della polemica di Croce e Gentile con Enriques si veda Polizzi 2016.

3. Lettera di Enriques a X. Léon del 24 gennaio e del 4 febbraio 1914, BVC, ms 361, citata da Soulié 2014.

4. L’aspetto eterogeneo della filosofia italiana è ben restituito dall’“atlante” di Rossi, Viano 2004, che raccoglie una serie di saggi pubblicati negli anni precedenti nella «Rivista di Filosofia».

5. La rivista «Leonardo», fondata nel 1903, ben presto discussa in Italia e all’estero, chiuse dopo aver decuplicati gli abbonamenti. Dallo stesso nucleo di intellettuali che la animavano, ebbe origine pochi mesi dopo «La Voce», nelle cui pagine, come ha ricordato Garin, «si incontrano tutti: Croce e Serra, Gentile e De Ruggiero, Salvemini e Prezzolini, Mussolini e Amendola, Luigi Einaudi e Giustino Fortunato, Boine e Jahier, Ugo Mondolfo e Arcangelo Ghisleri, Romolo Murri, Salvatorelli, Omodeo, Fazio Allmayer, Lombardo Radice, Borgese, Cecchi, De Robertis, Antonio Banfi e altri ancora, innumerevoli. “La più bella esperienza spirituale che ci ha preceduti” – scriveva Gobetti; l’aveva chiamata “una delle università più vere e più vive del nostro paese”. A La Voce come a un modello nel suo genere guarderà Gramsci. Nella Voce si espresse veramente un tipo di intellettuale, un modo di fare cultura: democratici e liberali, nazionalisti e socialisti, le vittime e gli assassini di domani, i perseguitati e i persecutori […] La Voce attesta veramente la matrice unica del fascismo e dell’antifascismo degli intellettuali, una dimensione comune della cultura italiana del Novecento – la scoperta dell’impegno politico, con tutto quello che di torbido e di equivoco esso può implicare, di tradimento del sapere, di mistificazione. […] non appena si trattava di fare sul serio, persino sul terreno della poesia, la rottura diventava inevitabile. Ed era in genere aspra e rabbiosa; era il risveglio dell’intelligenza ai suoi doveri contro i tradimenti e le mistificazioni: contro uno pseudoimpegno che si rivelava, o evasione, o larvato servizio del potere» [Garin 1987, 141]. I Vociani più vicini all’ambiente futurista fondarono infine «Lacerba», nell’intento di dare impulso più concreto alla cultura italiana, rompendo con i lirismi della tradizione De Sanctis-Croce e generando una nuova condotta civile e individuale. Per la storia degli intellettuali raccolti da Papini intorno a queste riviste cfr. Frigessi 1972, Romanò 1960, Scalia 1976, oltre a Isnenghi 2006.

6. Cfr Bergson 1972, 1102: «La lutte engagée contre l’Allemagne est la lutte de la civilisation contre la barbarie. Tout le monde le sent, mais notre Académie a peut-être une autorité particulière pour le dire. Vouée en grande partie à l’étude des questions psychologiques, morales et sociales, elle accomplit un simple devoir scientifique en signalant dans la brutalité et le cynisme de l’Allemagne, dans son mépris de toute justice et de toute vérité, une régression à l’état sauvage».

7. La storia dell’appello, firmato tra gli altri anche da Plank, Haeckel e Wundt, pubblicato sul «Berliner Tageblatt» il 4 ottobre 1914 e tradotto sul quotidiano francese «Le Temps» già il 13 ottobre, è ricostruita da vom Brocke (Brocke 1985) e von Ungern-Sterberg (Ungern-Sterberg 1996). Le reazioni degli intellettuali francesi sono trattate da Hanna 1996, 78-105.

8. Borgese, già collaboratore del «Leonardo», dopo aver pubblicato la tesi sotto l’influenza di Croce [Borgese 1905] e un saggio sulla cultura tedesca scritto in seguito ad un soggiorno di studio in Germania [Borgese 1909], si distanziò inizialmente dai clichés sulla barbarie tedesca nell’articolo Avversari, non odiatori della Germania ne «L’Azione» del 30 agosto 1914, dove scrisse: «parlare di barbarie tedesche (sic) che deve essere sgominata dalla civiltà francese, come quasi ogni giorno si fa negli organi più triviali della nostra opinione pubblica, è una vergognosa ingiustizia […] e al fondo non v’è già odio, ma ignoranza e stupidità» [Borgese 1914, antologizzato in Papa 2006]. Man mano che la guerra avanzava, in una parabola simile a quella del protagonista della novella pirandelliana Berecche e la guerra, anche Borgese finì però per mutare i toni nei confronti della Germania, cfr. Borgese 1916, 149: «nel germanesimo d’oggi sentiamo qualcosa di simile all’orda. I più restii, e fra essi è lo scrivente, molti di coloro che, sedotti da alcuni divini poeti e musicisti, esitarono a lungo, hanno dovuto persuadersi che non è senza verità il luogo comune della barbarie tedesca».

9. Prima della guerra erano stati pubblicati Schelling 1910; Schopenhauer 1912; Hebbel, 1912; Novalis 1912; Kant 1912; Fichte 1912; Novalis, 1914; Nietzsche, 1914. La collana continuerà a ospitare titoli di autori tedeschi anche durante la guerra, in particolare Heine 1915; Feuerbach 1916; Schleiermacher 1918.

10. Altri casi in cui il pangermanesimo viene presentato come una forma di annessionismo spirituale sono stati raccolti in Heitmann 2012, 138-153.

11. Della stessa collana quattro volumi furono inoltre tradotti in svedese e cinque in danese, come operazione di propaganda nei paesi neutrali. I volumi tradotti in italiano furono Andler 1915, Durkheim, Denis 1915, Durkheim 1915, Seignobos 1915, Bédier 1915, Lavisse 915, Weiss 1915.

12. Croce 1993, 143-144. Croce si riferiva in particolare al Saggio storico di Vincenzo Cuoco e all’errore da lui avvertito nell’abbandono del cauto indirizzo scientifico e politico italiano per quello francese. La chiusura dell’intervista confermava la scarsa simpatia di Croce per la cultura francese: «Se bisognerà soffrire una nuova invasione di astrattismo alla francese, ebbene, pazienza! Ci libereremo di questa epidemia, come abbiamo fatto col coléra, che ci ha rivisitati quest’anno» [Croce 1993, 147].

13. Per uno studio accurato delle operazioni culturali di pro Italia nostra e della sua rilevanza nell’evoluzione dell’immagine della Germania in Italia si veda il capitolo Die Gruppe Pro Italia nostra in Heitmann 2012, 225-244. Facevano parte del gruppo il meridionalista Giustino Fortunato, lo storico Luigi Salvatorelli, Mario Vinciguerra, il filologo Giorgio Pasquali e il giurista Arturo Carlo Jemolo, che nelle sue memorie degli anni giovanili avrebbe descritto così l’esperienza di «Italia Nostra»: «Il gruppo di neutralisti cui aderii era quello d’“Italia nostra”: un fogliettino esile esile, quattro paginette settimanali; ma avevamo il piacere di sentirci puliti puliti. Nessuno avrebbe mai potuto sospettarci di ricevere sussidi da ambasciate, nessuno esser tratto a pensare che potessimo sperare qualche vantaggio avvenire; neppure era dato rimproverarci quel che si rimproverava ad altri neutralisti, di essere mariti di mogli tedesche che facevano valere il senso di famiglia. […] Di quel gruppo i più furono poi avversi al fascismo, in cui vedevano il figlio immediato delle giornate di maggio e dell’interventismo, e dell’asse Roma-Berlino; solo Marroni restò abbarbicato fino all’ultimo all’affetto alla Germania, e la sua vita finì tragicamente al crollo di questa nel ’45. Nel maggio del ’15 tutti compirono il loro dovere; De Lollis, che per età non aveva più obblighi militari, volle essere tenente di fanteria, ed in breve meritò la medaglia d’argento al valore; Ravà e Messineo furono ufficiali di fanteria» [Jemolo 1991, 132-133].

14. Il riferimento è agli scioperi e alle insurrezioni della “settimana rossa” che aveva agitato Ancona e altre zone dell’Italia centrale nel giugno 1914.

15. Tilgher, dal 1911 bibliotecario all’Alessandrina, non sembra avere in quegli anni rapporti con Croce, essendo le loro corrispondenze interrotte dal 9 dicembre 1911 al 15 febbraio 1921 [Croce, Tilgher 2004, 148-149]. Egli svolgeva anche il ruolo di cassiere del gruppo pro Italia nostra. Nella primavera del 1915, con Tomaso Gnoli e Pietro Silvio Rivetta, curò inoltre la collana «Intorno alla guerra europea in rapporto all’Italia», che distribuì economici opuscoli di 16 pagine in edicole, librai e stazioni ferroviarie, raccogliendo saggi sulla guerra spesso selezionati dalle pagine di «Italia Nostra», come ad esempio Cultura germanica e politica italiana di Croce, La Germania d’oggi e quella d’una volta di Tilgher stesso, La grande guerra di De Lollis. La collana era pubblicizzata in «Italia Nostra» del 2 maggio 1915.

16. La posizione di Croce nei confronti della filosofia di Bergson e in senso più ampio nei confronti della filosofia della vita è in realtà difficile da ridurre a una semplice opposizione, come rivelano persino alcuni scritti di guerra [Croce 1928, 126]. Proponendoci di affrontare la questione in un prossimo studio, qui ci limitiamo a ricordare che già Garin, nel saggio Gramsci e Croce del 1976, ha suggerito una lettura che non separi nettamente Croce dagli sviluppi della filosofia della vita: «In verità egli fece suoi alcuni temi comuni a una parte cospicua della cultura europea del primo Novecento: e in primo luogo la critica del positivismo e dello scientismo positivistico, in una attenzione tutta rivolta al terrestre mondo dell’uomo come mondo della storia. Si avrebbe gran torto a isolare il moto di idee che dominò l’Italia fra il cadere dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, considerandolo un episodio “provinciale“, e avvicinandolo al più a taluni aspetti della cultura francese (Sorel, Bergson) o, magari, nordamericana (James), ma staccandolo o, peggio, contrapponendolo, agli sviluppi paralleli della filosofia della vita, dello storicismo tedesco, e perfino di Husserl. La critica della scienza, la distinzione e l’antitesi fra scienze della natura e scienze dello spirito, fra vita e forme, e così via, sono temi che circolano ovunque simmetricamente» [Garin 1987, 354].

17. Come ha osservato D’Angelo, questo atteggiamento sarebbe stato confermato anche dagli scritti crociani su Goethe successivi, sia da quelli pubblicati nel 1934, sia dai saggi con cui avrebbe integrato la prima edizione in due volumi del 1946. In un passaggio della prefazione di quest’ultima edizione, Croce sarebbe tornato sul significato che aveva avuto per lui lo studio di Goethe nel 1917-1918: «le opere del Goethe mi furono conforto nell’ultimo anno della prima guerra mondiale; me ne porsero di nuovo nel più triste tempo del regime di oppressione e di vergogna in cui l’Italia era caduta, quando già si presentiva la guerra alla quale sarebbe stata trascinata […]. Questi “terzi” saggi mi hanno procurato alcune ore di svago e di sollievo nella tesa angoscia da cui l’animo è preso allo spettacolo della ferocia devastatrice tedesca, che si è rivolta ora sull’Italia […]. Come hai il cuore (mi dice qualche amico) in questi tempi di leggere e amare un poeta che canta in lingua tedesca? E io rispondo che, appunto perché non ho il cuore degli odierni barbari, rispetto ed amo gli uomini di genio che nacquero in mezzo a quel popolo» [Croce 1946, XI]. Sin dalla prima edizione, Croce aveva sottolineato di apprezzare Goethe anche per la sua capacità di mantenere l’animo al di sopra delle passioni politiche e delle lotte tra i popoli. Cfr. anche D’Angelo 2015, 180 ss. Sui rapporti di Croce con la cultura tedesca si vedano inoltre Croce 1936 e Croce 1944, oltre a Conte 2016.

18. Citato in Charzat 1977, 231, che sottolinea il cambio di atteggiamento di Mussoline nei confronti di Sorel avvenuto verso il 1923 e rilevato già da Suckert (Malaparte) 1923.

19. Lettera del 14 novembre 1914, cfr. Sorel 1980, 205. Per i rapporti tra Sorel e Croce si veda de Paola 2007.

20. Sorel 1973, 535. La distanza di Sorel dai Vociani si era già approfondita negli anni precedenti la guerra, in particolare per la concezione della scienza troppo scettica e relativista promossa da Papini e Prezzolini [Giordani 2014].

21. Lettera del 6 dicembre 1918, cfr. Sorel 1980, 271. Già nell’aprile 1915 Sorel aveva espresso delusione per il tono e la posizione di Bergson: «Barrès et Bergson disent des enfantillages sur la guerre : le vide de la pensée de Bergson m’effraye, en cette occasion, on avait pu croire qu’il avait quelque chose à dire» [Sorel 1980]. Di nuovo nel febbraio 1918, nelle sue corrispondenze abituali con Delesalle e Croce, Sorel criticò con severità il discorso di ricezione di Bergson all’Académie française il 24 gennaio 1918, [Bergson 1972, 1275-1302]. In particolare scrisse in una lettera a Delesalle: «J’avais été frappé en lisant le texte du Temps, que vous m’aviez envoyé, du ton vraiment trop doctrinal de Bergson, s’érigeant en juge de l’histoire universelle. Son audace serait inexplicable si on ne supposait qu’il a exprimé les tendances de la haute bourgeoisie parisienne et peut-être celles de la maison Rothschild (où son beau-père, mort en 1912, occupait un poste élevé)… C’est pourquoi je regarde les discours de Bergson comme un manifeste politique qu’on n’aurait pu s’attendre à voir se produire d’après ce qu’on savait de la pusillanimité bourgeoise», citato da Andreu 1968, 62-63.

22. L’editore bolognese Zanichelli continuò a pubblicare anche durante la guerra la rivista «Scientia», fondata da Enriques e ormai diretta dal socialista Eugenio Rignano, che durante la guerra aveva dedicato ampie sezioni della rivista a un’ampia inchiesta sulla guerra, in cui raccolse propositi di intellettuali di tutti gli schieramenti, nel rispetto dell’imparzialità che la rivista si proponeva. Enriques e la redazione si dimisero nel 1915 proprio perché contrari a tale inchiesta, che ritenevano minacciasse l’obiettività che si conveniva alla ricerca scientifica, cfr. Linguerri 1917.

23. AMAE-Parigi-La Courneuve, MP, busta 44, lettre de Luchaire au Président de la Chambre des députés, 28 luglio 1918, cit. da Iraci, 1911b, note 71.

24. In un discorso tenuto al Senato il 9 dicembre 1920, Benedetto Croce, allora Ministro della Pubblica Istruzione, propose che la Stazione Zoologica tornasse a essere affidata alla famiglia Dohrn, il solo modo secondo lui per restituire all’istituzione i suoi legami scientifici e la sua funzionalità organizzativa. Nell’ottobre del 1923 venne ridefinito lo statuto giuridico della Stazione Zoologica, che divenne un “Ente Morale” posto sotto il controllo del Ministero della Pubblica Istruzione e diretto da un Consiglio di Amministrazione presieduto dal Sindaco di Napoli, mentre Rinaldo Dohrn ottenne la nomina di “Consigliere delegato” e amministratore.

25. AMAE-Parigi-La Courneuve, MP, 1914-1928, busta 45, rapport de M. Mignon, 29 luglio 1918, cit. in Iraci 2011b.

26. AMAE -Nantes, AFRQ (1814-1940), busta 1293, lettre du professeur Marghieri à M. Mignon, 19 maggio 1918, citato da Iraci 2011b. Queste e altre fonti d’archivio inerenti alla fondazione dell’Istituto francese di Napoli sono riportate da Sandrine Iraci in Iraci 2011b oltre che nella più ampia tesi Iraci 2011a, in cui è stata ricostruita l’evoluzione dell’Istituto dalla sua fondazione al suo sviluppo durante il fascismo, sino al suo sequestro da parte delle autorità nel 1940.

27. Ivi, Rapport sur la propagande intellectuelle en Italie, ottobre-novembre-dicembre 1917, citato da Iraci 2011b.

28. AIFN, busta IV, rapport sur le fonctionnement de l’Institut français de Naples pendant l’année scolaire 1922-1923, p. 16 (Iraci n. 55).

29. Cfr. lettera di Croce a Vossler del 25 gennaio 1924: «Al Congresso filosofico internazionale sono stati invitati studiosi di tutte le nazionalità, senza odiose esclusioni. Misi questa condizione al consenso mio di far segnare il mio nome nel Comitato d’Onore. E sarà uno dei primi congressi veramente internazionali di dopo la guerra» [Croce, Vossler 1951, 289].

30. Il boicottaggio dei professori tedeschi comune in tutte le discipline fu progressivamente superato solo sotto pressione politica in seguito ai trattati di Locarno del 1925 [Reinbothe 2010].