Rappresentare la territorialità
a cura di Paola Bonora

Spazi contesi


Governamentalità, urbanistica e urban policy a Gerusalemme: per una biopolitica della produzione del conflitto e del controllo
Emanuele Bompan

Abstract

Jerusalem is still today a contested city between Palestinians, who believe it should become the capital of the future state of Palestine, and Israelis, who fight to maintain control over it, its status as a capital, demographic majority, and its borders.

This article is aimed to present how urban planning and urban policies in Jerusalem have been used since 1967 as a biopolitical tool of control, or as disciplinary technologies, to control Palestinian bodies and reinforce Israeli identity and de facto sovereignty on the city of Jerusalem.

Urban Planning is a fundamental tool to guarantee the Jewish majority in the city. The demographic struggle is seen by both Israeli and Palestinian scholars as the main silent conflict in the city, since its unification. Considering urban planning and urban policies as a-political tools is an assumption widely criticized by scholars, such as Scott Bollens (2000). Furthermore, this article is a critical suggestion for urban studies on developing research about how urban planning and urban policies influence the citizens and residents in the cities, and how these tools are used to a biopolitical exclusion and control of specific ethnic groups.

Gerusalemme rimane ancora oggi una città contesa tra palestinesi, che la anelano come capitale dello Stato Palestinese ed israeliani che lottano per mantenerne il controllo, lo status di capitale, la maggioranza demografica ed i confini municipali. Attraversando le colonie israeliane di Gerusalemme est fino al Muro di separazione si ha oggi l’impressione che la Gerusalemme israeliana abbia lentamente assorbito e quasi cancellato quella palestinese, sostituendosi ad essa in un processo lento ed inarrestabile, quanto articolato e machiavellico ma pur sempre inquadrato in un ottica di realismo politico mosso dalle forze conservatrici israeliane. Nell’ultimo decennio gli studi dei gerosolimitisti di tutto il mondo si sono concentrati sulle strategie di potere adottate da Israele per reificare e rafforzare l’annessione de facto, iniziata nel 1967, contrariamente alle risoluzioni delle Nazioni unite, la proclamazione de jure di Gerusalemme capitale d’Israele [Klein 2001; Margalit 2006; Pieraccini 2005]. Esplicitamente o in maniera inconsapevole questi autori hanno descritto e raccontato i dispositivi governamentali per mantenere, rafforzare ed affinare il controllo del territorio da parte d’Israele e le forze democratiche e di guerriglia palestinesi contrarie a questi processi. Cosa s’intende per dispositivi governamentali è stato spiegato da MIchel Foucault nel saggio Sécurité, territoire, population, e riformulato successivamente in Governmentality, contenuto nella collezione di saggi The Foucault Effect: Studies in Governmentality. In questo testo si afferma che la governamentalità è: «the right disposition of things, […] through a series of processes, […] arranged by a state regime to serve convenient ends» [Foucault 1991, 22].

Nella filosofia del pensatore francese è evidente lo scarto sul rapporto tra soggetto e potere, dove non è basato sulla coercizione diretta, sul kratòs, bensì una serie complessa di dispositivi che costruiscono (o annullano) il soggetto attivamente, tramite tecnologie e saperi. La cospicua produzione letteraria ed accademica, ineguagliata dagli studiosi delle altre città del globo (con eccezione forse di Los Angeles), ha analizzato separatamente o sistematicamente ogni singolo dispositivo (le sopra menzionate tecnologie e saperi) che si può riferire alla governamentalizzazione dei soggetti ed al conseguente controllo sulla città e sulla popolazione che la abita. Questi dispositivi coinvolgono l’urbanistica [Bollens 2000; Khamaisi 1999; Khamaisi e Nasrallah 2003; Khamaisi e Nasrallah 2005; Klein 2001; Margalit 2006], la medicina [Btselem 2004], la polizia [Halpern 2006]; il diritto internazionale [Pieraccini 2005]; , i processi identitari [Khalidi 1997]; l’architettura [Segal e Weizman 2003; Weizman 2007; Petti 2007]; la demografia [Kimmerling 1983]; Di Motoli e Pallante 2004; Soffer 2001]; la statistica [Haj 2001], l’archeologia [Abu El-Haj 2001].

Trattandosi di questioni complesse e non facilmente riassumibili in questa sede si rimanda il lettore ai testi degli autori qui sopra elencati, mentre ci accingiamo a trattare in maniera separata l’urbanistica, intesa come dicevamo, come dispositivo di controllo governamentale.

Questo articolo si adopera ad analizzare due dispositivi di tipo governamentali, la pianificazione urbana, ovvero il processo di costruzione dello spazio urbano e le politiche urbane dei servizi, ovvero i regolamenti amministrativi per la gestione delle funzioni pubbliche, per comprendere  quale ruolo hanno avuto nel produrre il controllo del territorio da parte dell’autorità israeliana, perseguendo i due principi, esplicitamente enunciati dall’elitè politiche israeliane nel corso degli anni, di massimizzare l’estensione dei confini e mantenere la maggioranza demografica nei confini attraverso la produzione del soggetto govenamentalizzato. Come questi processi hanno inciso sulla creazione dell’identità e della struttura (demografia, ricchezza, costruzioni sociali) della popolazione israeliana e palestinese? Quale intensità hanno avuto questi processi sulla popolazione? Quali strategie sono state adottate? Affrontare queste domande servirà a comprendere l’evoluzione dei dispositivi urbanistici e le conseguenze che hanno prodotto. Si visualizzerà l’intensità dei fenomeni attraverso l’analisi di dati statistici, dei fatti storici e della produzione accademica sul tema, cercando di presentare un quadro generale, che sicuramente necessità di ulteriori approfondimenti, ma che comunque presenta una visione delle traiettorie politiche e sociali presenti a Gerusalemme.

Controllare la città. Urbanistica, demografia e territorialità

Che la battaglia per la demografia sia la vera lotta in corso a Gerusalemme negli ultimi quindici anni è riconosciuto da vari autori [Bollens 2001, 191; Haj 2002, 188; Hodgkins 1996, 46; Yiftachel 1999, 365; Klein 2001, 21]. Nessun accademico israeliano o palestinese fa segreto che uno degli obbietti della politica israeliana, sia del partito di sinistra Labour o della destra, Likud, è mantenere il controllo sulla città, garantendo la maggioranza demografica, secondo un rapporto di 70-30 tra  residenti israeliani e palestinesi, governamentalizzando da un lato soggetti che prolifichino, dall’altro una popolazione debole che sia disposta ad andarsene o che si adegui al governo della città, reprimendo ogni istanza identitaria, indipendentista o nazionalista di stampo palestinese. Dal canto loro i palestinesi vedono nella alta prolificazione un’arma demografica per contrastare gli israeliani e contenere l’levato tasso migratorio che vede ogni anno migliaia di palestinesi cercare una nuova vita in altri stati, in medio oriente, in Usa o in Europa.

La domanda che ci si vuole porre è comprendere fino a che punto l’urbanistica come pratica di progettare la città e le politiche urbane come pratica di amministrare la città sono finalizzate a questi scopi demografici e politici orientati verso l’esclusione dell’altro. Sono in termini focaultiani dispositivi di controllo, oppure sono pratiche, che si avvalgono di tecniche specifiche, che sono avulse da una connotazione bio-politica, quindi agente sui corpi dei cittadini, e quindi in realtà non ottengono nessun effetto concreto sulla popolazione.

Secondo Scott Bollens le città polarizzate politicamente (Belfast, Nicosia, Gerusalemme) sono sempre state caratterizzate da un ristretto spazio d’azione dove ogni centimetro, ogni casa, ogni strada, è necessario per il controllo e il perseguimento di obbiettivi politici [Bollens 2000, 6]. La territorialità, come universale politico, si fa dispositivo fondamentale che trova nell’urbanistica, nei piani strategici e nelle politiche urbane delle tecnologie di potere sostanziali. Uno dei grandi esperti contemporanei del concetto geografico e politico di territorialità, Robert Sack l’ha infatti così definita: «Territoriality is the attempt by an individual or a group to affect, influence or control people, phenomena and relationship by delimiting and asserting control over a geographic area, called territory» [Sack 1986, 19]. Essa si declina nell’atto di separare, di creare gerarchie, di annullare la presenza, di rafforzare l’identità di un gruppo. Nella definizione della  territorialità è centrale intendere la sua intima connessione con controllo, qua non inteso in maniera positiva, ma piuttosto come una serie di dispositivi che attivano il soggetto a prodursi attivamente come controllato, disciplinato ovvero governamentalizzato. L’azione sul soggetto da parte del territorio ha due velocità, una sincronica legata alla sua costituzione de facto ed una diacronica, dovuta ai lenti processi performativi atti a ridefinire i soggetti ad esso iscritto.

Se intendiamo l’urbanistica come strumento per creare urbanizzazione, uno spazio urbano, antropico in un territorio, dunque la pratica dell’urbanistica, non può esulare dagli elementi politici propri del territorio. Ovvero l’urbanistica può diventare uno strumento per controllare una area geografica, gestendo le risorse, indirizzando “cosa va dove”, e definendo il reame pubblico e privato, dunque – qua bisogna rimandare alla definizione di Sack – influenzando e controllando soggetti, fenomeni e relazioni all’interno del territorio urbanizzato.

Per dimostrare la validità di questa osservazione osserviamo quello che accade a Gerusalemme. L’osservazione empirica del tessuto urbano-territoriale di Gerusalemme oggi – svolta dall’autore nell’estate 2009 -– può servire a dare un assaggio del tipo di rapporti di potere che vigono attraverso lo spazio cittadino. ll succedersi di ricchi quartieri con centri commerciali e fastose abitazioni abitate da ricchi occidentali, campi profughi densi di scritte in arabo dalle vie strette e polverose, fatiscenti quartieri recintati popolati da haredim, le affollate vie del suq della Città Vecchia, le villette identiche e perfette delle colonie ebraiche a Gerusalemme Est evidenziano una elevata discontinuità territoriale, certo tipica di molte città dove la forbice tra ricchi e poveri è elevata. Solitamente però la struttura territoriale si contrasta tra un centro ricco e uno sprawl povero, un immenso suburbio informale che circonda i quartieri ricchi. A Gerusalemme invece il tessuto si organizza come un insieme affastellato di arcipelaghi, discontinuo, specialmente nella parte est. L’epitome di questa totale discontinuità si ha nella città vecchia dove sopra il suq palestinese, inteso verticalmente come i piani superiori, si sono costruite sinagoghe ed abitazioni, molte occupate, di gruppi ultraortodossi. Questo spettacolo di schizofrenia urbanista porta a credere di trovarsi non certo in una città, ma in un mondo caotico, un insieme apparentemente insensato senza logica apparente. L’idea che si fa lo straniero è quella di attraversare nell’arco di un chilometro una serie di villaggi completamente diversi per paesaggio ed identità, giustapposti casualmente da una divinità dispettosa. Questa non-urbanistica in realtà è il prodotto di una strategia biopolitica ben precisa, che l’occhio non riesce a cogliere se non per un momento. Vari hanno dichiarato che la “non-pianificazione” a Gerusalemme è in verità un processo intenzionale di gestione dei corpi e di creare il territorio in funzione di necessità politiche o militari-strategiche [Bollens 2000; Khamaisi 1999; Khamaisi e Nasrallah 2003; Khamaisi e Nasrallah 2005; Klein 2001; Margalit 2006]. Le motivazioni sono molteplici, proviamo a valutarne  alcune.

Gerusalemme oggi è entro i suoi confini territorio sovrano de facto israeliano – mai riconosciuto internazionalmente – riunito dopo l’occupazione del 1967. Sebbene proclamata come capitale desiderata palestinese e come corpus separatum (secondo la risoluzione dell’ONU del 1947) la città oggi è totalmente amministrata dalla municipalità israeliana. Il municipio ha la naturale gestione della pianificazione urbanistica e delle politiche urbane e delle risorse economiche necessarie. Scott Bollens sottolinea spesso nei suoi libri e nelle interviste che, in una città caratterizzata da uno scontro etnico, l’azione di pianificazione ed amministrazione è naturalmente guidata dagli intenti del governo statale. Questi intenti possono essere indirizzati in quattro modalità:

  1. Neutrale, gestione di problemi locali, evitando questioni generali

  2. Partigiana, mantenendo le disparità presenti o aumentandole,

  3. Equa, gestendo le tensioni del conflitto etnico attraverso lo soddisfacimento delle richieste di entrambi i gruppi etnici;

  4. Risolutiva, indirizzata cioè a risolvere alla radice dei problemi del conflitto, quali questioni di sovranità e rappresentatività, spartizione del territorio [Bollens 2000, 20-27].

 Nel corso della storia dell’amministrazione di Gerusalemme post 1967 sono stati fatti tentativi per utilizzare un approccio neutrale o egalitario al planning, specialmente durante l’era di Teddy Kollek, al fine di accludere i palestinesi nella vita urbana e politica di Gerusalemme. L’amministrazione Kollek, ed in parte quella Olmert, hanno fornito infrastrutture basilari, piani per l’educazione e risorse in generale, per lo sviluppo del tessuto urbano delle aree palestinesi della città. Ma questo approccio si è spesso risolto in approccio ultra partigiano dove certe politiche o zoning servivano unicamente come facciata da impiegare nei processi di pace oppure perché intimamente connesse con le necessità dei cittadini israeliani come si vedrà in seguito.

Negli ultimo decennio si è aperto – a livello esclusivamente teorico – un dibattito su l’impiego di una pianificazione e di policy orientate alla risoluzione del conflitto e un’innumerevole quantità di piani e volumi sono stati redatti per presentare scenari possibili e piani concreti di sviluppo [Auga et al. 2005; AA VV 2004; Baskin e Twite 1993; Khamaisi 1999; Khamaisi e Nasrallah 2003; Khamaisi e Nasrallah 2005; Sorokin 2002; Romann e Weingrod 2001; Misselwitz e Rieniets 2006]. Niente che però abbia scalfito o influito sul ruolo predominante nell’organizzazione del territorio da parte del governo centrale e dei vari ministeri. La politica accentratrice del governo ha, piuttosto vanificato le scarse proposte ideate negli uffici del municipio di Gerusalemme da tecnici ed architetti coraggiosi per cercare di implementare la condizione dei residenti palestinesi nella città. Come ricorda Teddy Kollek, i pochi piani di sviluppo delle aree palestinesi promosse dal governo centrale sono quasi esclusivamente quelli funzionali allo sviluppo dei quartieri ebraici nel settore est della città. Solo eccezionalmente si sono approvati piani per le aree palestinesi e, quasi sempre, con il secondo fine di mantenere la calma tra la popolazione palestinese [Cohre e Badil 2005, 126].

Questo controllo top-down della pianificazione da parte del governo israeliano è stato reso agile dalla specifica regolamentazione della pianificazione ereditata dal governo britannico. Il governo britannico, che basava il suo potere coloniale su un’autorità centralizzata, nel 1936 aveva emanato la Town Planning Ordinance al fine di sovrintendere a tutti i lavori di pianificazione nella regione. Questa legge fu ripresa ed incorporata nella legge fondamentale Planning and Building Law 5725 del 1965 che, tutt’oggi, costituisce il framework della pianificazione [Bollens 2000, 67]. Essa definisce l’autorità dei vari livelli amministrativi – statale, regionale, locale – e designa il National Planning Office, collocato all’interno del ministero degli Interni, come principale regolatore di qualsiasi aspetto della pianificazione e costruzione delle infrastrutture e delle abitazioni e responsabile dell’applicazione ed implementazione delle leggi sulla pianificazione e costruzione [Cohre e Badil 2005, 48]. Il ministero degli Interni agisce, inoltre, in collaborazione con una serie di agenzie ed uffici paralleli, che spaziano dall’Israeli Land Authority al ministero della Difesa. Il National Planning Office e il ministero degli Interni stabiliscono l’outline della pianificazione delle infrastrutture (strade, aree edificabili, aree verdi) e fissano i parametri della distribuzione demografica. Esiste poi un ufficio parallelo, nominato Ministrial Committee on Jerusalem, che lavora sulle politiche inerenti a Gerusalemme, in particolare sull’uso del suolo (sono note le controverse decisioni delle espansioni degli insediamenti ebraici in Gerusalemme est, come ad esempio il caso di Har Homa, nel 1997 [Bollens 2000, 68]). La commissione locale di pianificazione prende spunto dalle linee guida di questi uffici governativi ed elabora piani dettagliati sulle aree urbane e sviluppa piani strategici legati prevalentemente alle politiche urbane.

La pianificazione urbana a Gerusalemme è gestita attraverso la pianificazione classica per settori (zoning) e la pianificazione strategica finalizzata ad indirizzare le politiche urbane ed urbanistiche, verso risultati desiderati nel lungo periodo (sviluppo economico, incremento viabilità, mantenimento sicurezza, preservazione della proporzione demografica). La pianificazione dell’area metropolitana e regionale è invece delegata all’ufficio del Jerusalem District che lavora in stretto contatto con l’amministrazione per la pianificazione nella West Bank e l’Agenzia Ebraica, in particolare per la pianificazione nelle colonie intorno a Gerusalemme come il Gush Etzion e Ma’aleh Adumim [Khamaisi e Nasrallah 2003, 304].

La popolazione palestinese è però attualmente completamente esclusa da qualsiasi consultazione per nuovi piani urbani. Prima di Ehud Olmert e Uli Lupolianski avvenivano sporadiche consultazioni informali tra muktars (rappresentanti clanici delle comunità palestinesi) ed amministrazione israeliana. L’attuale sindaco Nir Barkat, eletto a fine 2008 sembra aver completamente escluso qualsiasi tipo di rappresentanza palestinese, nemmeno informale.  In un’intervista rilasciata da Meir Margalit nel 2009, membro del Jerusalem City Council, è emersa la totale assenza di qualsiasi piano negoziato o richiesto dai cittadini palestinesi. “Partecipazione” sembra non far parte del vocabolario degli urbanisti gerosolimitani. A titolo esemplificativo basta osservare la composizione degli specialisti che nel 2004 hanno redatto il piano strategico Tojnit Ab-Estrategit LeYerushalaim 2020, il Jerusalem Masterplan 2020 [AA VV 2003]: di 39 professionisti e 31 membri della commissione uno solo era arabo, peraltro sottoposto a forti pressioni [Margalit 2006, 153]. L’ANP in questo è altrettanto assente: a nessun livello si è mai adoperata per proporre piani urbanistici per alcuna zona di Gerusalemme. Ad incaricarsi della rappresentatività dei palestinesi e dell’implementazione dei piani di zoning oggi sono principalmente le ONG internazionali  e locali che si adoperano per la revisione dei piani israeliani, fornendo critiche ed alternative (si veda il lavoro dell’IPPC e il lavoro del Mapping Office di Gerusalemme, parte dell’ex Orient House).

Si potrebbe immaginare che, per organizzare dettagliatamente il territorio, gli uffici per pianificazione dell’uso del suolo, fin dal 1967, abbiano implementato un sistema di mappatura e pianificazione, organico e dettagliato. In verità fino al 1983 non sono esistiti veri piani. O meglio, fino al 1983 non si sono fatti veri town-planning scheme per le aree palestinesi, poiché la municipalità voleva evitare di pubblicare piani che avrebbero permesso ai nuclei abitati palestinesi di crescere e svilupparsi [Kaminker 1997, 7; Bollens 2000, 87; B’tselem 1997]. Questa assenza di pianificazione ha sempre permesso una totale sorveglianza informale sui processi di edificazione di sviluppo delle popolazione nelle aree palestinesi. In seguito negli anni Ottanta è stato stabilito dalla municipalità, sotto approvazione del National Planning Office, di preparare zoning plans per gli insediamenti palestinesi in Gerusalemme Est. Questi piani sono stati completati solo verso la metà degli anni Novanta: di ventitré piani, diciannove hanno avuto l’approvazione nel 1997 [Arnon 1998, 6], mentre i quattro rimanenti dopo il 2003. Tutti ancora revisionabili. Ad esempio l’area di Shu’fat e Beit Hanina (piano generale #3000B) ha richiesto oltre 12 anni per vedere le prime tavole per l’uso del suolo; da una richiesta iniziale d’espansione dell’area abitativa di 17.000 unità abitative palestinesi, il piano finale ha concordato l’implementazione di solo 7.500 unità (va ricordato, però, che il piano #3000B ha agevolato la costruzione di case a tre piani, delimitando l’estensione dell’area abitativa). I pochi piani regolatori per gli insediamenti palestinesi non sono stati finalizzati a regolamentare la costruzione e l’espansione delle unità residenziali, bensì si sono rivelati un altro strumento di costrizione e controllo dello sviluppo di queste stesse aree [Arnon 1998, 21].

Espropriazioni e territorialità

La territorialità, secondo Robert Sack ha come effetto di svuotare i luoghi, di riconfigurarne l’uso ed i soggetti occupanti [Sack 1986, 24]. Israele, dopo aver occupato Gerusalemme Est nel 1967, ha pianificato accuratamente l’espropriazione delle terre per prenderne possesso. Sebbene la Quarta Convenzione di Ginevra proibisca l’insediamento da parte dell’occupante nei territori occupanti e vieti il trasferimento dei civili, Israele ha proceduto nella confisca di terreni e nella costruzione degli insediamenti su questi terreni espropriati, giustificando l’azione attraverso il diritto di sovranità de facto e il diritto storico sul territorio. L’espropriazione è avvenuta attraverso il quadro delle leggi già utilizzate per l’espropriazione di proprietà nel 1948 [Cohre e Badil 2005, 43-49]. Il metodo più utilizzato, infatti, è stato la confisca di terre per ragioni di “pubblico utilizzo”, secondo una legge britannica del 1943, mai abrogata, implementata nel 1964 (Acquisition for public purposes Law 5274-1964). In realtà la motivazione “il suolo pubblico per il pubblico utilizzo” è stata impiegata per favorire, da un lato, l’insediamento di colonie ebraiche nella parte est della città, e per congelare, dall’altro,  qualsiasi progetto d’edilizia palestinese [Cohre e Badil 2005, 132].

Di oltre 70 Kmq annessi nei confini municipali nel 1967, 23,5 kmq sono stati espropriati tra il 1967 ed il 1991 ed altri 2 kmq sono stati aggiunti nel periodo 1991-1999. Circa un terzo di questi 25 kmq sono stati utilizzati prima del 1992 per costruire abitazioni delle colonie. Si veda la tabella 1 con tutti gli insediamenti israeliani costruiti su terreni espropriati.

Questo patrimonio di suolo pubblico – a Gerusalemme Est, ma prima del 1948 anche a Gerusalemme Ovest – è stato costituito attraverso l’esproprio da varie tipologie di proprietari.

  1. La municipalità giordana, in particolare nelle adiacenze della Città Vecchia.

  2. Proprietari privati. Una modalità era l’esproprio secondo la Law of Public Benefit (1948) per infrastrutture pubbliche; era assegnato risarcimento se era provata la proprietà, nessun risarcimento in assenza di idonea documentazione. Gli espropri venivano effettuati anche in base a necessita varie di pianificazione.

  3. Le proprietà del Tesoro del Regno Hashemita di Giordania (affidate alla ILA).

  4. Terre abbandonate, includono sia quelle confiscate in accordo con la legge Ottomana, sia tutte le proprietà controllate dall’autorità di Custodia delle Absentee Properties (in particolare le proprietà nella città Vecchia).

  5. Proprietà appartenenti ad organizzazioni  come ONG e il Waqf [Khamaisie e Nasrallah 2003, 210-212].

Il patrimonio di suolo pubblico, tuttavia, è oggigiorno sempre meno disponibile per opere ed infrastrutture nella parte Est della città. Lo stato ha concesso soprattutto molti terreni del demanio per edificare sempre di più intorno agli insediamenti ebraici. Inoltre nuovi piccoli insediamenti come Nof Zion, Ma’aleh Zeitim, Bet Orot ed alcuni nuclei abitati nella Città Vecchia, sono stati sviluppati recentemente da gruppi di coloni ultra-ortodossi, con il beneplacito silenzioso di una parte dell’autorità politica israeliana. La popolazione ebraica a Gerusalemme Est continua ad aumentare, in risposta lo stato israeliano ed il municipio pianificano la costruzione di insediamenti sempre nuovi, riqualificando le aree espropriate per l’edificazione, nonostante il recente veto dell’amministrazione Usa (White House press release, 20 maggio 2009).

Con quale criterio queste terre sono state selezionate per essere espropriate? Secondo quali parametri sono stati localizzati i siti per nuovi insediamenti ebraici costruiti? A Gerusalemme dopo il 1967 si è perseguita la stessa logica militare di organizzazione dello spazio, denominata Huma Amigdal, basata sul controllo ed insediamento sulle alture, impiegata nella West Bank e lungo il fiume Giordano. Il risultato è che tutti i quartieri israeliani sono oggi in maggioranza sulle alture sovrastanti le valli d’accesso dove si sono stabiliti i quartieri palestinesi. In questo caso si può rilevare il minuzioso lavoro svolto, grazie anche all’uso intensissimo della mappatura altimetrica con foto aeree stereoscopiche (vedi Figura 1.4 e Figura 1.5).

Agglomerati di costruzioni su colline tipicamente strutturate lungo le linee altimetriche delle mappe attraversate da circoli di strade, suddivisi in lotti uguali e ripetitivi, sono sorti sulle cime delle colline di Gerusalemme [Segal e Weizman 2003, 83]. Esse sono state distribuite omogeneamente su tutto il territorio in modo da interrompere la continuità territoriale dei villaggi palestinesi controllandone gli accessi e lo sviluppo, grazie anche all’intricato reticolo di strade (vedi Figura 1.6,, Figura 1.7 e Figura 1.8).

Sebbene molte delle colonie siano composte da abitazioni a due tre piani, secondo le direttive di Teddy Kollek di mantenere il paesaggio storico della città, recentemente si sono costruire abitazioni a 6-8 piani, come ad esempio a French Hill, il progetto Jerusalem of Gold, o i complessi intorno alla nuova area gentirficata di Mamilla (vedi Figura 1.4 e Figura 1.5), grazie ad un autorizzazione rilasciata dal municipio, esclusivamente per i quartieri israeliani [«Ha’aretz», 6 novembre 2006]. Questi insediamenti sono abitati sia da ebrei secolari che da haredi (come Ramot), con una densità abitativa relativamente bassa, meno di una persona per stanza contro la media palestinese di 2,2, per un numero totale di 44,610 unità abitative (Il dato si riferisce al 2002. Fonte: www.bteselm.org, sezione statistiche). Questi insediamenti, come li definiscono gli israeliani, colonie secondo i palestinesi, insieme alle unità costruite a Gerusalemme Ovest, costituiscono quasi il 90% di tutte le case costruite dal 1967 al 1999 all’interno dei confini municipali. I palestinesi, che costituiscono il 30% della popolazione, hanno edificato e occupano, poco di più del 10% del totale delle abitazioni costruite

Uno spazio molto ristretto. Proprietà ed urbanistica

Conviene ora chiedersi come le proprietà palestinesi confinate entro i confini di Gerusalemme dal 1967 sono state organizzate dagli urbanisti. Fino ad oggi non sono stati realmente pianificati progetti edilizi per espandere il numero di abitazioni palestinesi. Il 35% del totale del suolo della parte Est della città è stato pianificato, individuando alcune aree limitate per l’edilizia, presente e futura, che corrispondono a circa il 14% di tutta la Gerusalemme Orientale. Il 29% non è ancora pianificato, ragion per cui si diceva precedentemente che la “non-pianificazione” è una strategia. Infatti si tratta prevalentemente di altre zone verdi, wadi ed altre aree che difficilmente verranno utilizzate per l’edilizia per cittadini palestinesi, dati specifici vincoli legislativi. Dunque la crescita urbanistica dei villaggi e dei quartieri arabi di Gerusalemme est è sostanzialmente bloccata per volontà dei pianificatori israeliani che da un lato non hanno pianificato quasi un terzo di gerusalemme Est, ben 21 kmq, e con la tattica delle aree verdi e demanio pubblico hanno allocato una parte insignificante all’edilizia palestinese (vedi Figura 1.10).

Oltre alle espropriazioni ed all’uso del suolo pubblico, le restrizioni venivano imposte attraverso le cosiddette green areas (zone verdi), linee guida “non-dette” e una serie di politiche discriminatorie da parte del comune nell’assegnamento dei permessi di costruzione [Bollens 2000, 83]. Le zone verdi nello zoning di Gerusalemme Est sono composte in parte delle aree pianificate ed in parte dalle aree non pianificate. Occupano circa il 36% dell’uso del suolo predisposto per le zone palestinesi contro il 14% occupato dalle abitazioni (per un elenco dettagliato dell’uso del suolo urbano si rimanda a Khamaisi e Nasrallah [2003, 216]). Queste zone non sono utilizzate unicamente per preservare il paesaggio naturale di Gerusalemme e per mantenere sacche verdi nel tessuto urbano, ma sono impiegate per limitare la crescita e lo sviluppo degli insediamenti palestinesi. Come sostentuo da Rouhana e Khamaisi e Nasrallah: “il verde è pericoloso” [Rouhana 2001, 21; Khamaisi e Nasrallah 2003, 216]. Le zone verdi possono infatti diventare una tattica per l’espansione degli insediamenti ebraici. I pianificatori improvvisamente ed in maniera assolutamente partigiana, possono riconvertire le green areas in zone edificabili per allargare le colonie. Questo spiega come mai le green areas che non rientrano nei piani urbanistici svolti siano soprattutto disposte intorno alle colonie ebraiche. Per i palestinesi esse sono solo dei “muri” tracciati sulla mappa per circondare i quartieri e villaggi per impedire qualsiasi allargamento. Come nota Rouhana: «on planning maps it’s vividly apparent how many arabs town are encircled by green areas» [Rouhana 2001, 22].

Un altro elemento di discriminazione è la densità insediativa. Mentre a Gerusalemme Ovest e nelle colonie ad Est la percentuale di densità è del 80-120% (indicativamente fino a sei case a quattro piani in un ettaro) per le aree palestinesi, col pretesto di mantenere il “carattere rurale”, la percentuale è limitata tra il 40-75% (vedi Tabella 1.1). L’esempio più spregiudicato è il permesso di costruzione di Ma’aleh Zeitim (costruita da Irwin Moskowitz ), con una densità insediativa del 115%, nei pressi di un villaggio palestinese dove il massimo consentito è il 25% [Margalit 2006, 40].

Tabella 1.1. Densità di costruzione

Insediamenti israeliani Quartieri palestinesi
Neve Ya’akov: 90% Beit Hanina: 50% - 75%
Gilo: 75% Beit Safafa: 50%
Pis’gat Ze’ev: 90% - 120% Jabel Mukhabar: 50%
Har Homa: 90% - 120% Sur Baher: 35% - 50%
French Hill: 120% Al 'Issawiya: 70%
Ramat Shlomo: 90% - 120% Shu’fat: 75%

La burocrazia dell’occupazione

Zone di sviluppo limitate e densità edificatoria ridotta non sono i soli scogli allo sviluppo edilizio palestinese. Dalle ricerche effettuate e dalla letteratura esistente sono emerse anche una serie d’impedimenti connessi alla burocrazia legata all’ottenimento del permesso d’edificazione. L’ottenimento di questo permesso di edificazione è legato alla parcellizzazione dello zoning plan, ovvero i piani catastali per determinare la proprietà del terreno al fine di ricevere il riconoscimento legale di detenzione della proprietà. In circa il 20% delle zone residenziali palestinesi, nessuna costruzione può avere inizio poiché le mappe catastali non sono state pubblicate, in quanto incomplete. Il problema del completamento delle mappe catastali è legato alle supposte difficoltà nel determinare la reale proprietà. In molte aree nessun permesso può essere assegnato per l’assenza d’infrastrutture (fogne, tubature, strade) e la municipalità non dispone (o afferma di non disporre) dei fondi per svolgere questi lavori strutturali.

Fino al 2002 il processo di riconoscimento della proprietà per i residenti palestinesi era alquanto complesso: si basava su una combinazione di prove tradizionali ed amministrative, quali l’evidenza, contratti di vendita confermati dai mukhtar, vecchi affidavit, ed pagamenti della tassa di proprietà e dell’Arnona. Nel 2002 il ginepraio di balzelli e cavilli burocratici, invece che snellirsi, s’è complicato ulteriormente. Oltre alle prove precedentemente menzionate, oggi solo per iniziare il processo d’edificazione si richiedono tutte le firme dei proprietari della zona, uno statuto per provare l’assenza di dispute sul territorio, la conferma dal Custodian of Absentee Property della disponibilità della proprietà ed infine la conferma dall’Israeli Mapping Center che il lotto è stato identificato. Seppur appaiano come semplici garbugli burocratici, in realtà il processo diviene molto spesso insolvibile a causa di incongruenze con la legge giordana sulla proprietà, in particolare sui passaggi di proprietà e sull’eredità o d’intoppi procedurali molto spesso arbitrari [Margalit 2006, 44].

Questi sono solo i requisiti per iniziare il processo d’edificazione. Il processo d’edificazione è altrettanto intricato ed oltremodo costoso, tra costi burocratici, tasse municipali, spese d’allacciamento secondo lo standard israeliano, spese di mappatura (Plan Registration Purpose, solo questo circa 3.000 $). Pochissime famiglie palestinesi possono permettersi una spesa simile – in media 22.000 $ – che spesso va quasi a coincidere con il costo di costruzione dell’abitazione [Margalit 2006, 50]. Nella parte ovest questo costo viene ammortizzato attraverso la costruzione di palazzine a tre, quattro piani, quindi ridistribuito su una decina di famiglie, mentre nella parte est, dove come abbiamo visto la densità abitativa è bassa e non si può costruire in altezza, il costo viene suddiviso tra massimo due famiglie. Si deve tenere conto che il livello socio-economico dei palestinesi è nettamente inferiore a quello degli israeliani di Gerusalemme Ovest ed oltre il 70% vive sotto la soglia di povertà [Municipal Welfare Division e Ullmann U., coll. pers.]. Per completare questa tragica fotografia delle condizioni palestinesi va ricordato che in molti casi s’aggiunge anche il veto da parte delle autorità del patrimonio archeologico che vietano di costruire entro il perimetro del Holy Basin, il veto del ministero delle Infrastrutture per il nuovo Eastern Ring Road o altre strade ed il veto per “motivi di sicurezza” del Muro di Separazione.

Politiche urbane a Gerusalemme: ovvero come fare geopolitica dietro la scrivania di un ufficio municipale

In seguito all’occupazione della città fu offerta a tutti i palestinesi la residenza a Gerusalemme. Ma ciò non comportò, come si è già detto, l’ottenimento della cittadinanza israeliana, poiché ciò avrebbe conferito il titolo di israeliani e quindi di elettori  per le politiche nazionali, cioè di soggetti intitolati alla partecipazione politica della vita israeliana. La municipalità cercò d’esportare, almeno in principio, i servizi pubblici offerti a Gerusalemme Ovest nel nuovo settore Est. Dai tribunali ai servizi medici e sociali, il corpo amministrativo israeliano, responsabile di tutti coloro che erano residenti in Gerusalemme, doveva permettere eguale accesso ai servizi ed alle risorse ai cittadini israeliani e ai nuovi residenti palestinesi. In alcuni casi, come motorizzazione e tribunali, fu garantita un’offerta di servizi equivalenti; in altri furono sviluppate politiche urbane separate, diversificate per etnia e per area [Romann, Weingrod 1991, 148].

Si può affermare quindi che lo sviluppo della città e l’offerta dei servizi sia governato dalla logica dei due pesi e due misure? Da un lato si è sviluppata una Gerusalemme Ovest (più le colonie ad est), florida, bella, dove la qualità della vita è alta – i quartieri ultraortodossi fanno eccezione – e dove è possibile mettere le basi per una solida economia, in particolare nel settore terziario. Si potrebbe dare facilmente la colpa ai palestinesi per il mancato sviluppo delle proprie aree, e in una certa misura questa affermazione può essere vera. Eppure la divisione che abbiamo visto fin qua è il prodotto di una direzione politica ben specifica applicata sia nella pianificazione che nella gestione amministrativa della città. Va ricordato che lo standard di vita nella Gerusalemme Est palestinese è più alto di quello dei Territori Occupati (nonostante da quando il Muro è stato completato pare si  stia verificando un inversione di tendenza) e che molte fondazioni ed ONG israeliane hanno fatto molto per migliorare il welfare delle aree residenziali. Inoltre bisogna ricordare come i palestinesi spesso abbiano agito in modo a volte contradditorio, o denunciando l’assenza dei servizi e l’inoperatività del municipio, oppure rifiutando l’assistenza statale come tattica di resistenza per evitare l’annessione totale a Israele. Servizi di trasporto separati, rifiuto dell’assistenza medica, istruzione speciale, istituzioni parallele, sumud, sono pratiche che fino agli anni ‘90 sono state molto comuni tra i palestinesi gerosolimitani che, attraverso le proprie istituzioni, sindacati, associazioni professionali, l’assistenzialismo offerto dai partiti e delle ONG, hanno saputo arrangiarsi autonomamente e con dignità resistendo all’occupazione israeliana [Benvenisti 1996, 132]. All’inizio del 2000, con l’indebolimento del ruolo delle istituzioni palestinesi, i residenti hanno cominciato a dipendere sempre più dalle istituzioni israeliane, superiori per qualità ed efficienza, ma restie ad integrare le aree non israeliane al proprio sistema si servizi per i residenti, fino a diventarne oggi completamente dipendenti [Margalit 2009, colloqui personali]. Eppure questo non basta per scagionare l’azione separatrice, territorializzante e discriminatoria  prodotta da un elevato numero di uffici amministrativi israeliani e di politiche generate a livello governativo. La territorialità crea per definizione gerarchie sociali, definisce spazialmente relazioni sociali e contiene un moto per creare ineguaglianze.

Nel caso di Gerusalemme si può affermare che le politiche urbane creano ineguaglianze a seconda dell’etnia: producono cittadini di serie A che possono fruire di tutti i servizi e cittadini di serie B che ricevono un trattamento particolare. I servizi vengono redistribuiti in varie parti della città in modo ineguale per mantenere l’ineguaglianza. Risulta evidente che a perpetrare questa disparità è l’allocazione delle risorse economiche per l’educazione, la salute, le infrastrutture, il welfare, l’erogazione dell’acqua e la raccolta dei rifiuti. Il primo report del municipio che segnala questa enorme disparità è del 1995. Proprio in quell’anno le zone palestinesi di Gerusalemme Est hanno ricevuto solo 1,5 milioni di NIS [1]dei 175milioni di NIS stabiliti di spesa pubblica, meno dell’1%. Questo 1% è stato utilizzato principalmente a Beit Safafa per una nuova tangenziale che avrebbe servito vari insediamenti ebraici nell’area [Klein 2001, 75-76]. Sebbene la percentuale del 1995 sia “un’eccezione”, la media annuale nel periodo 1992-2000 di fondi allocati si è assestata su una percentuale mai superiore al 9% del budget complessivo della spesa pubblica del municipio [Bollens 2000, 93].

Governare i fondi pubblici. Denaro e territorialità

A quanto fin qua descritto si aggiunge anche una dubbia redistribuzione del budget municipale. Dall’analisi dei dati è emerso che buona parte dei fondi assegnati per settori specifici non siano ridistribuiti equamente nei quartieri palestinesi, per altro più bisognosi date le carenze infrastrutturali, favorendo aree israeliane della città. Uno studio comprensivo sull’uso dei fondi pubblici è stato condotto per l’anno 2003 da Meir Margalit [2006]. In quest’anno amministrativo il municipio di Gerusalemme ha ricevuto ingenti finanziamenti stanziati dal PM Ariel Sharon per potenziare le infrastrutture ed i servizi di Gerusalemme allo scopo di limitare le emigrazioni ed attrarre nuovi residenti in città, oltre che potenziare le costruzioni ed implementare i piani di sicurezza e controllo sulla città [Ullmann U, coll. pers.]. Il budget complessivo per i dipartimenti responsabili dei servizi è stato di 2.666.531.700 NIS (New Israeli Shekel). Queste risorse sono così state ripartite per dipartimenti che a loro volta hanno ridistribuito per area geografica

Lo share complessivo assegnato ai palestinesi è stato del 11,72% del totale. Vediamo in questo grafico il rapporto tra share della spesa in rapporto con la percentuale di popolazione.

Nonostante l’elevate necessità dei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, come si può vedere dalla Figura 1.11, le spese del municipio sono state minime e l’allocazione assolutamente discriminatoria. In questa parte della città mancano oltre 21 km di strade, 150 km di tubature per gli scarichi e per l’approvvigionamento d’acqua; la raccolta rifiuti è stata implementata solo recentemente sotto pressione dei cittadini israeliani (anche se ci sono solo 655 contenitori nei quartieri palestinesi contro 11040 per gli israeliani). Mancano oltre 300 aule per soddisfare le richieste; strutture per contenere la crescente tossicodipendenza; strutture di assistenza per gli indigenti. Disparità che emergono anche nel settore della cultura: delle 39 biblioteche cittadine solo 3 sono in aree palestinesi.

 Stanziamenti speciali sono stati richiesti ripetutamente ai vari ministeri, ma quasi mai le richieste sono state soddisfatte. Il più delle volte questi fondi sono stati indirizzati in progetti come la ricostruzione della Town Hall, dello stadio o di memoriali [Cheshin 1998, 65]. Il municipio spesso giustifica questa spesa limitata con il fatto che la raccolta delle tasse municipali, dette Arnona, a Gerusalemme Est è nettamente inferiore alla somma investita nel budget per lo sviluppo di questa parte della città. Ciò è parzialmente vero. Se si considera che il livello di evasione di Gerusalemme Est è superiore a quello della parte ebraica, le entrate del municipio dovute all’Arnona rimangono elevate, specialmente se si considera la situazione economica dei residenti palestinesi. Secondo i dati in possesso da Meir Margalit si nota tuttavia come i palestinesi partecipino solo in parte alle entrate municipali [Margalit 2006, 137-139].

Le entrata palestinesi, che corrispondono al 9% del totale delle entrate municipali, non vengono però reinvestite in progetti di sviluppo economico che avrebbero il pregio di aumentare la reddittività. Il settore che più risente di questo svantaggio è quello turistico. È in declino dal 1967: da 2061 stanze d’albergo oggi sono scese a 1970, contro un aumento, nello stesso periodo, di circa 6.000 stanze negli hotel israeliani, supportati da agevolazioni fiscali e piani di rilancio del settore. Il segmento turistico nelle aree palestinesi, gestito da palestinesi, invece che ricevere aiuti per potersi espandere, è costantemente ostacolato dai permessi per costruire e dalle elevate tasse, che hanno portato alla chiusura di numerosi ristoranti e alberghi [Khamaisi e Nasrallah 2003, 60]. La scarsa possibilità di avviare imprese indipendenti spinge molti palestinesi a lavorare nel settore dell’economia informale, come bassa manovalanza e in lavori a bassa qualificazione, in particolare in Gerusalemme Ovest [Samerr Hazboun in Khamaisi, Nasrallah, Brooks, e Abu-Ghazaleh 2005, 107]

 L’anno prossimo insieme a Gerusalemme

Dall’analisi dei dati e del letteratura esistente, è inconfutabile il tentativo – dire se giusto o sbagliato non è compito di un accademico – da parte dell’amministrazione israeliana di controllare la popolazione palestinese, “producendola” nel senso di controllare la crescita demografica, disgregando l’identità culturale, indebolendo l’economia nelle aree popolate principalmente da palestinesi, dando luogo ad un amministrazione con due pesi e due misure , come sostiene il ricercatore israeliano Meir Margalit [Margalit 2006]. In particolare lo pianificazione tramite zoning e il budget municipale sono due strategie evidentemente efficaci per rafforzare ed indebolire determinati gruppi target di popolazione (in questo caso israeliani e palestinesi). Ne emerge una tipologia altamente territorializzante di pianificare ed amministrare che difficilmente potrà creare un terreno fertile per una pacificazione nella città tra i due popoli. Processi di pace, accordi straordinari, strette di mano. Dopo la guerra a Gaza del 2009 e il rifiuto delle richieste avanzate a maggio 2010 da Barack Obama si è visto per l’ennesima volta la lentezza da parte dell’élite politica israeliana a dare una avvio concreto ad un processo di pacificazione e collaborazione, peraltro osteggiato dalle difficoltà di compromettersi e trovare un interlocutore ufficiale da parte dei palestinesi, divisi ancora tra Hamas e Fatah. Gerusalemme è una città che contiene la parola pace nella radice del suo nome (Yerushalyim, contiene la parola ebraica shalom). Eppure da migliaia di anni è dilaniata da conflitti religiosi, tribali, etnici. La capitale della tolleranza e della pace universale è invece un ghetto per palestinesi, una vergogna per molti ebrei liberali che invece sarebbero propensi ad una gestione equalitaria della pianificazione e delle politiche urbane. Rimane dunque un immenso laboratorio della disuguaglianza, del non rispetto, dell’assenza di fratellanza che da entrambi le parti fatica a mettere le radici. Un pianificazione risolutiva è necessaria, attraverso un rinnovato rapporto con l’altro, dove ogni espressione di identità è consentita e si riflette attivamente sulla produzione del tessuto urbano. Una pianificazione risolutiva che consideri tutti i cittadini identici nei diritti e nei doveri, che sia indipendente dagli interessi governativi, che sia regolamentata anche dall’esterno, una forza di pace internazionale. La segregazione e l’approccio partigiano nella pianificazione fino ad ora hanno prodotto alcuni risultati sperati dagli oltranzisti ma non garantiscono affatto uno sviluppo armonico e pacifico di Gerusalemme e nemmeno garantiscono il successo della battaglia demografica. In un vero processo di pace Gerusalemme deve essere un argomento dove ognuno sia pronto a negoziare, a condividere e a gestire in maniera congiunta, lontano dai deliri millenaristi del fanatismo religioso, dal nazionalismo, dagli assurdi proclami di unica capitale da entrambi i lati. Gerusalemme è indivisibile solo se si è uniti. La spinta fondamentale verso questa direzione deva arrivare dal basso, dai segretari municipali, dalle ONG palestinesi, dai pianificatori, dagli architetti, dai paesaggisti, dagli studenti, dagli amministratori, dai cittadini comuni e supportata dall’alto dalla comunità internazionale e dalle élite politiche israeliana e palestinese. Finché non esisterà una forza coesa dal fondo la disuguaglianza proseguirà il suo cammino verso l’intolleranza e la divisione.

Dedicato ai figli dei miei amici, palestinesi ed israeliani, perché possano crescere in un’altra Gerusalemme.

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DOI 10.1473/quadterr01
Storicamente 2011

Published: December 8th 2011

 

 

Notes

1] NIS, New Israeli Shekel. 1 NIS = 0,43€ al 30 maggio 2007.


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