Rappresentare la territorialità
a cura di Paola Bonora

Narrare l'urbano


Città smarginata e consumo di territorio
Paola Bonora

Abstract

What remains of «Red Bologna», which one that was praised during the 1970s by international scholars and held on as a model of a well planned and managed city? This paper illustrates the outcomes of a research on urban sprawl and land consumption. The investigated area is that of Bologna, a city popularized through its civic tradition and good administrative performance. This icon has been contradicted by the regional planning policies of the last 20 years, that was a period in which urban planning rules have yielded ground to the neo-liberist wave; the urban body sprawled across the countyside and land consumption was raised to very high rates. Quantitative and qualitative data bring clear evidences that show this urbanization process thorugh figures, carthography and images.

Cosa rimane della «Red Bologna» [Jaggi, Muller, Schmid 1977] inneggiata negli anni ’70 da studiosi internazionali e presa a modello [Putnam 1985 ] di città ben pianificata e amministrata? Il paper illustra i risultati di una ricerca su dispersione insediativa e consumo di territorio. L’area in esame è quella di Bologna, città conosciuta per la tradizione di civismo e buon rendimento istituzionale. Un’icona contraddetta dalle politiche del territorio degli ultimi venti anni, fase in cui le regole urbanistiche hanno ceduto le armi al neoliberismo, il corpo urbano è dilagato nelle campagne, l’occupazione di suolo ha raggiunto livelli elevatissimi.

Da alcuni anni all’Università di Bologna stiamo seguendo il processo di dilatazione e dispersione insediativa noto come sprawl e le sue conseguenze in termini di consumo di suolo. Nel 2006 il tema della deurbanizzazione e desocializzazione è stato affrontato nel convegno Dall’oblio dell’urbano alla città di città, (22 novembre, aula Absidale di Santa Lucia); a cui è seguito un affollato e riuscito esperimento di Teatro-Forum dal titolo Il piccolo urbanista: gioco partecipativo sulla città, che ha «messo in scena» il Piano Strutturale Comunale allora in discussione attraverso una tecnica partecipativa volta alla risoluzione dei conflitti e all’individuazione degli elementi di creatività collettiva da essi generati. Un metodo che dà voce agli «spett-attori» e li invita sulla scena a cambiare regole e trame del gioco.

Nell’anno accademico 2007-2008 un Laboratorio di urbanistica, abbinato al mio insegnamento di Geografia per il corso di laurea in Scienze geografiche, di cui in quella fase ero presidente, ha avviato un’indagine sull’area metropolitana bolognese i cui risultati sono confluiti in una mostra e un convegno dal titolo Interpretare la neourbanità. Prospettive per l'organizzazione metropolitana, (20 maggio 2009, Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche). Un’esperienza di ricerca in cui assieme a giovani ricercatori e studenti abbiamo analizzato il fenomeno sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo attraverso inchiesta diretta. Abbiamo poi tradotto i risultati delle indagini in forme di elaborazione e comunicazione grafica, cartografica e visuale. Un esercizio scientifico in cui conoscenza critica, curiosità intellettuale e mestiere si sono coniugati a consapevolezza civile.

Un terzo convegno, Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza tra urbano e rurale si è svolto il 21 gennaio 2011 (Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche). Ha dedicato particolare attenzione al problema del consumo di territorio e offerto un confronto tra idee volte a definire una nuova urbanità e le politiche del territorio che, pur avendo adottato un linguaggio di taglio critico, stanno cambiando ben poco sotto il profilo delle prassi applicative.

I tre incontri hanno rappresentato momenti di verifica importanti del percorso di ricerca che stavamo conducendo e ci hanno permesso di confrontarli con studiosi autorevoli.

La crisi mondiale innescata negli Stati Uniti dagli eccessi della finanziarizzazione e dalle sue liaisons dangereuses con il mercato immobiliare e le conseguenze immediate e rovinose sull’economia globale, ci hanno persuaso che la partita si stava giocando sulla città. Una città che negli ultimi decenni ha cambiato non solo i propri connotati morfologici, ma ha conosciuto una profonda mutazione culturale e politica [Rossi e Vanolo 2010; Bonora e Cervellati 2009, Bonora 2009a, 2009b].

Abbiamo perciò voluto andare a una verifica analizzando il processo di urbanizzazione avvenuto nell’intorno di Bologna. Un caso di studio che, se guardassimo solo il versante morfologico o di entità di popolazione, si presenta minuto e tuttavia significativo dal punto di vista territoriale. Una città di medie dimensioni, da sempre crocevia di relazioni, con aspirazioni di ‘metropoli’ di rango europeo, in cui il processo di deurbanizzazione si avvia a partire dagli anni ‘70 e configura una lenta e inarrestabile emorragia che sposta la popolazione dal nucleo centrale prima verso la cintura, in seguito verso i centri intermedi e negli anni più recenti inonda il territorio rurale con effetti di polverizzazione insediativa. Un processo che si svolge dunque secondo tappe e modalità analoghe a quanto avviene nel resto del mondo e ha consentito di assumere Bologna come caso esemplare della dinamica che sta trasformando la città.

Tanto più interessante sotto il profilo delle politiche del territorio. Bologna vanta infatti un’immagine internazionale fondata in larga misura sulla sua storica capacità di regolazione. Un’icona che si delinea tra la fine degli anni ’60 e la prima metà dei ’70 grazie al piano di salvaguardia del centro storico, che fa scuola a livello internazionale, e all’introduzione di logiche di pianificazione economica e territoriale a scala regionale particolarmente innovative. Interventi che contribuiscono – assieme ad un melange complesso di condizioni pregresse e caratterizzazioni sociali e culturali [Bonora 1999] – alla definizione di un milieu composito che, in un clima di generale accreditamento delle economie locali distrettuali, aveva portato al successo il sistema territoriale. Sino alla fine degli anni ’80 in Emilia funziona quel complesso interrelato di saperi taciti e saperi formali, volontà e norme, risorse e progetti che definiamo milieu, sistemi territoriali in grado di generare correlazioni multiple e transcalari. Non dunque territori-fabbrica, dalla connotazione produttivistica e funzionalistica, ma sistemi integrati al cui interno, in un amalgama complesso, le collettività locali mettono in campo tutto l’insieme delle proprie risorse, ereditarie e innovative. In cui i legami relazionali diventano quel capitale sociale che costituisce la trama di solidarietà e regole condivise su cui si impalca civicness. Il territorio dunque non come somma di prerogative e prestazioni o come supporto, ma attore in prima persona, dotato di precisa fisionomia e riconoscibilità. Un organismo pulsante in continua trasformazione che fino a quel momento aveva saputo riprodursi e autogovernarsi, ma non riesce a reggere il confronto neoliberista e ad esso si adegua in maniera supina e acritica, rinnegando la propria diversità e autonomia [Bonora 2005].

Un «modello», come con una buona dose di enfasi era stato definito in quegli anni, le cui contraddizioni erano manifeste già alla fine degli anni ‘70 senza che si fosse voluto prenderne atto. Un modello che in realtà non si è mai realizzato nei termini enunciati, ma che era parso a tal punto credibile, gli antagonisti politici anch’essi cooptati nella sua realizzazione, da concretizzare, sul piano dell’immagine e del consenso, l’idealtipo della regione «rossa ed efficiente», paradigma di una economia fondata su principi sociali. Una rappresentazione in cui semmai tratti di socialdemocrazia erano stati confusi con le retoriche socialiste e comuniste (non dimentichiamo che esisteva ancora il Partito Comunista Italiano) che connotavano il linguaggio politico e che nei decenni precedenti avevano consolidato un dispositivo semiotico che si autoalimenta e manterrà efficacia, inossidabile a scosse e abiure. Si tradurrà infatti, più tardi, sbiadito il significato originario, in ricetta economica e di buona condotta amministrativa. Una metafora che sino a che mantiene colorizzazione trova più contestazioni che plausi e finirà per accreditarsi a livello nazionale e persino internazionale solo assieme al paradigma della distrettualizzazione flessibile, dunque secondo criteri di natura economica in seno a una concezione dello stato sociale che si inquadra nella manovra redistributiva del tardo-fordismo che in Emilia si ammanta di pluralismo consensuale. Ma mentre la positività del modello si rivela veridica sotto il profilo dei risultati economici, la diversità su cui era poggiato scolora sempre più e intacca quel clima fiduciario e quell’antico senso del collettivo che ne erano presupposto sociale.

Anche Bologna ‘la rossa’, antica patria dell’urbanistica riformista e della salvaguardia, si tuffa euforica nell’onda neoliberista e lascia scatenare sul proprio territorio logiche speculative che snaturano la struttura insediativa e travolgono la campagna.

Dall’economia sociale di mercato alla deindustrializzazione nell’Emilia del postcomunismo

L’Emilia si è costruita una solida reputazione sulla capacità di regolazione. Una forma di governance su cui lungamente si è discusso, non solo in ambito locale, come espressione di civicness e nello stesso tempo di una originale mescolanza di economia sociale e di mercato che è riuscita a far interagire i diversi attori anche quando antagonisti. Una visione che, ibridando il materialismo dialettico delle origini con il riformismo e le alleanze allargate che vi erano implicite, ha prodotto una sorta di autoritarismo al tempo stesso partecipato e cooptativo che ha consorziato e orientato la società. Un dispositivo semiotico forte che ha retto anche quando il sogno di una via alternativa capace di coniugare attenzione sociale e capitalismo è tramontato, travolto dalla crisi delle idee, dal rimescolamento dei soggetti sociali ed è sfociato nell’adesione alle lusinghe del mito economicista.

L’immagine di un’Emilia custode del proprio patrimonio territoriale ha tenuto nei decenni successivi anche quando, dimenticate le radici ideali che l’avevano generata, hanno cominciato ad affiorare gli scostamenti tra retoriche politiche e realtà applicative. Uno iato ben evidente sul piano urbanistico e della pianificazione territoriale che per lungo tempo rimane celato dietro l’icona di progressismo. Nonostante segnali di frantumazione, instabilità, stanchezza progettuale, anche sul piano di quella buona amministrazione che è stata uno dei principali marcatori dell’immagine emiliana.

Un sistema politico e di governo che, andato in crisi con i rivolgimenti ideologici e culturali del tardo-fordismo, si è adeguato con neofita entusiasmo alla teoria economicista e mercantile. Un ribaltamento che assiste con inerzia al disgregarsi della società e alla sua frantumazione in gruppi portatori di interessi difficilmente conciliabili, trasversali a classificazioni generazionali o reddituali. Un insieme di soggettività che si chiudono in se stesse e rinnegano anche le alleanze su cui il postfordismo aveva costruito i successi distrettuali.

Il senso di comunità, i rapporti fiduciari, le vecchie reti delle intese collettive scompaiono in un magma di nuove relazioni dalle scale e direzioni diverse e contraddittorie. Sul piano economico vengono meno le reti di quel familismo virtuoso che aveva innervato i sistemi locali di spirito imprenditoriale. Che culmina nella fuga dei capitali dall’attività produttiva operata dalle seconde o terze generazioni di imprenditori, attirate dai facili profitti degli investimenti speculativi di tipo finanziario e immobiliare, isterilendo le fonti di autofinanziamento delle aziende e spingendole nella morsa della crisi.

Un processo che dura trent’anni e traghetta l’Emilia dalla crisi del fordismo all’attuale crisi del neoliberismo attraverso la parentesi fortunata dello sviluppo locale. Una parabola in cui l’insieme, il sistema territoriale, artefice del successo, si disgrega mentre l’ebbrezza della momentanea gloria continua ad abbagliare la vista.

C’era una volta la pianificazione territoriale «democratica»

Se gli anni ’70 rappresentano il decennio in cui in Emilia si esplicano le migliori esperienze pianificatorie – che dichiarano la propria diversità «democratica» nei rispetti della «programmazione economica» di livello nazionale - e il piano diventa l’espressione normativa della volontà riformista, è a partire dagli anni ’80 che si avvia un lento ma inesorabile ribaltamento delle prospettive del governo locale. Che va letto nel clima di ripensamento ontologico in cui il regolazionismo e le categorie moderniste cadono assieme ai muri e alle appartenenze ideologiche.

Il PRG del Comune di Bologna, discusso a partire dal 1985 e finalmente approvato nell’89 con modifiche di grande peso per gli sviluppi urbanistici successivi, documenta la svolta. Il passaggio alla deregolazione, l’allentamento delle cautele che un tempo, se da una parte avevano imposto un sin troppo rigido controllo, dall’altra avevano anche garantito quell’impalco di prescrizioni che faceva dell’Emilia-Romagna un riferimento di qualità territoriale.

Anche in Emilia prevale insomma la ribellione ai vincolismi e alle tutele sulle ali del vento neoliberista. Un’ansia da (post)modernizzazione che coinvolge l’intera società e ubriaca il centro-sinistra che la governa. Il PRG e gli altri strumenti urbanistici che verranno approvati in seguito per enfatizzarne la portata, si rivelano perfetti motori della trasformazione postindustriale della città. Non solo perché in corso d’opera tra la prima e l’ultima stesura, il PRG vede cambiare l’unità di misura dal metro quadro lordo al metro quadro netto per il calcolo dell’edificabilità, una forzatura che ‘costringe’ i progettisti alla verticalità e alla sovrapproduzione edilizia, ma perché l’atmosfera  culturale che lo porta ad approvazione interpreta il ‘mattone’ come migliore garanzia di profitto e crescita. Un appannamento da liberalizzazione tanto forte da privilegiare aspettative di scambio tra pubblico e privato che solo in minima parte sono state corrisposte e che il potere politico non ha voluto reclamare.

La città degli immobiliaristi prende il sopravvento mentre la popolazione continua a fuggire nelle periferie alla ricerca di convenienze economiche e migliori qualità ambientali. Il centro storico si trasforma in spazio elitario delle classi quaternarie e vetrina del consumo. La città fisica colma i pochi vuoti all’interno dei confini comunali occupando gran parte degli spazi residuali mentre si avvia un processo di riconfigurazione delle aree industriali attraverso processi di ‘riqualificazione’ che speculano sulla rendita posizionale e sottraggono investimenti alle attività produttive.

Nello stesso tempo la città espelle residenti ed esonda nel territorio provinciale. Un processo che avviene sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni, che lo reputano una positiva espressione di crescita e di dilatazione extra moenia della rendita. Nel quadro della crisi fiscale degli enti locali che li spinge ad attrarre investimenti immobiliari per incamerare oneri di urbanizzazione, la combinazione tra deregolazione e sussidiarietà si rivela una nefasta ricetta autarchica per i territori. Affida infatti ai singoli municipi decisioni che avrebbero richiesto una visione di area vasta in grado di contemperare le edificazioni a criteri di razionalità distributiva e funzionale. Un controllo che non avviene e lascia spandere l’urbanizzazione in maniera disordinata, con conseguenze perniciose sulla mobilità, sui costi e sulle prestazioni dei servizi.

Ciò che muta dunque non è solo la fisionomia della città, ma la sua natura. La frantumazione che si produce nel corpo urbano rispecchia lo sfilacciarsi del senso di cittadinanza, alimenta la disgregazione sociale. Per Bologna un cambiamento radicale, saltano i presupposti civili, i leganti sociali.

Dal regolazionismo alla concertazione privatistica

La città perde la connotazione di luogo del buon vivere, la prerogativa che aveva fatto di Bologna un’icona internazionale. I residenti fuggono dal caos, dall’inquinamento e da costi che non riescono a sostenere. Abbandonano la città e si disperdono in periferie prive di servizi, dalle quali quotidianamente generano una mobilità che ammorba anche le campagne. Si perde il tessuto gelosamente conservato nei decenni precedenti, l’edificato storico viene schiacciato dalla verticalità di un’edilizia di dubbia qualità. La società denuncia l’invivibilità, il traffico, segnala l’approfondirsi dei divari, si preoccupa dello stress e delle malattie da congestione. Scarica le proprie frustrazioni in un sentimento di intolleranza inedito nel panorama culturale bolognese. E continua a scegliere la fuga, alimentando il processo di urbanizzazione e circolarmente i fattori di degrado. Si scardina il rapporto tra abitanti e milieu.

Una dispersione che frantuma le reti relazionali e di vicinato, abbandona lo spazio urbano all’affollamento dei city users e a quei fenomeni di disagio e microcriminalità che aggiungono insicurezza e acuiscono il disagio. La convivenza civile, la più preziosa delle attrattive bolognesi, si trasforma nell’affollamento dello shopping e nell’invasione notturna degli studenti universitari. La città si frammenta in zone separate: gli spazi del consumo, le enclave residenziali, i buchi di incuria e abbandono.

Sotto gli occhi di amministrazioni che civettano con il mercato senza riuscire a governarlo, assecondano le volontà dei gruppi economici trascurando le contropartite pubbliche. Le grandi operazioni urbanistiche decise dai costruttori e dalla grande distribuzione. Assente il coordinamento istituzionale di area vasta, i comuni periferici entrano in competizione nell’offerta di spazi commerciali e residenziali. Una dispersione che avviene in maniera caotica moltiplicando la mobilità.

Una graduale transizione dalle prescrizioni urbanistiche degli anni ’70 alla competizione di impronta privatistica che si avvia negli anni ’90. Il Piano Territoriale Regionale varato nel 1990 ratifica l’abbandono del ruolo regolativo della pianificazione e abbraccia la dimensione metaprogettuale, intesa come «processo decisionale da costruire valorizzando il protagonismo, il ruolo creativo e innovatore del soggetto privato». Il riequilibrio e la redistribuzione, cardini delle fasi precedenti, abbandonano il campo alla competitività. Un’impostazione che si accentua quando il piano, sette anni dopo, viene aggiornato. Il nuovo documento si fonda sulla nozione di eccellenza e su interventi puntiformi “per superare la logica della dotazione territoriale e assumere quella della competitività tra territori” [Regione Emilia-Romagna 1997].

Nella normativa regionale di disciplina dell’uso del territorio e in alcuni documenti di piano più recenti (penso ad esempio al Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Bologna del 2004, ma anche al nuovo Piano Territoriale Regionale approvato nel 2010) non mancano ne’ la consapevolezza degli eccessi del processo di urbanizzazione, ne’ raccomandazioni al contenimento e alla razionalizzazione degli insediamenti. Ma quando dal versante delle enunciazioni saltiamo a quello delle pratiche il quadro diventa dolente e non troviamo traduzione coerente.

Afasia del controllo, caos insediativo, consumo di territorio

Quando analizziamo i fenomeni di dispersione insediativa e consumo di territorio dobbiamo dunque constatare, di fatto, una desolante e colpevole assenza di politiche urbanistiche e territoriali. Dove con ‘politiche’ non intendo le retoriche che imbellettano di correttezza formale i documenti ufficiali, ma gli atti concreti delle realizzazioni e dei controlli. L’urbanizzazione della campagna è avvenuta con aperta approvazione e convinta adesione degli enti locali, persuasi che la crescita andasse comunque favorita, che fosse sinonimo di sviluppo territoriale. Che non si dovessero selezionare, regolare e dunque neppure razionalizzare gli effetti distributivi. Il mercato immobiliare si sarebbe autoregolato, avrebbe trovato le migliori soluzioni economiche. Una visione che ha prodotto danni irreversibili ai paesaggi, alle funzionalità dei sistemi locali e al senso di cittadinanza.

Un’esplosione che ha travolto le campagne e le ha fagocitate nell’ingorgo di un moto perpetuo che rimescola senza tregua i luoghi di residenza, li distanzia dai luoghi di lavoro, di formazione, dai servizi – anche i più elementari. La popolazione in fuga dal caos cittadino che diventa paradossale artefice della sua propagazione.

In Emilia-Romagna sono persuasa non vi siano da temere illiceità (anche se la smania edificatoria ha distratto da infiltrazioni sospette di cui la magistratura si sta occupando). Gli enti locali emiliani sono ligi redattori di piani. Che poi, con altrettanta inappuntabile correttezza formale e procedurale, variano per concedere edificabilità non previste attraverso legittime deroghe. Non è dunque sotto il profilo della legittimità giuridica che potremo fare rilievi, ma semmai nel merito del principio di eccezionalità che dovrebbe essere implicito alla deroga, che da caso sporadico e speciale è stata promossa a prassi usuale e continuativa. Criterio che rientra in una concezione che vede il territorio come campo privilegiato di investimento e deve perciò presentarsi attraente agli speculatori privati anche sotto il profilo della liberalità delle concessioni. Negoziazioni e concertazioni perequative rivelano infatti il reale peso e potere dei contraenti mostrando il più delle volte il deciso favore riservato ai privati. Contratti in cui il pubblico rivela tutta la propria debolezza.

Bologna esplode nelle campagne: un racconto cartografico e per immagini

Documentare sprawl e consumo di territorio nell’area bolognese ha significato muoversi su più piani di indagine, quantitativa utilizzando fonti diverse che via via menzionerò, e qualitativa, attraverso interviste semi-strutturate a cittadini che hanno compiuto scelte diffusive per coglierne comportamenti e percezioni. In entrambi i casi i risultati delle ricerche sono stati tradotti nel linguaggio grafico e cartografico. Abbiamo lavorato anche sul piano visuale documentando attraverso immagini i paesaggi della città slabbrata. Buona parte degli elaborati hanno costituito la base della mostra di cui ho detto all’inizio.

Bologna è l’epicentro di correlazioni che superano la scala urbana e andavano posizionate almeno entro la dimensione regionale. Sicché abbiamo prima di tutto messo a confronto le dinamiche di popolazione negli intervalli censuari a partire dal 1951. Il mosaico delle densità (Figura 1.1) evidenzia le due dinamiche contrapposte del processo di urbanizzazione: fino al ’71 la concentrazione della popolazione nell’area pedemontana e di pianura, con l’abbandono della fascia montana e una decisa concentrazione nell’area centrale che storicamente ha rappresentato il ‘corridoio’ attrattivo di attività e residenti. Dal ’91 e con maggiore intensità nel 2001, notiamo l’inversione di tendenza e lo spandimento delle zone di residenza, specie in corrispondenza del nucleo centrale costituito dalle province di Bologna, Modena e Reggio-Emilia, da sempre il più denso di attività. Cogliamo meglio la natura urbana dell’espansione nella rappresentazione anamorfica (Figura 1.2). Un dato demografico che abbiamo voluto confrontare con la distribuzione di imprese e di addetti nel settore industriale (Figura 1.3) evidenziando il ruolo cardine delle città capoluogo e delle loro corone. Il cartogramma successivo (Figura 1.4) comincia ad entrare nel merito del tema che più ci interessa, ossia il rapporto tra aumento degli abitanti e aumento delle costruzioni residenziali, che porta a notare andamenti disallineati a deciso favore delle costruzioni. I due trend sono fortemente differenziati, l’offerta di costruzioni non ha tenuto conto delle dinamiche di popolazione e dunque della potenziale domanda. Un processo che possiamo cogliere con maggiore accuratezza in relazione all’aumento dei nuclei familiari e alla loro distribuzione nei comuni della regione (Figura 1.5), confrontato, nel medesimo cartogramma, con la localizzazione puntuale di due tipologie di servizi, gli ospedali e i supermercati. Una correlazione che avrebbe bisogno di ulteriori implementazioni di dati, ma che anche solo a questo stadio permette di cogliere una distribuzione dei servizi non coerente con le aree di diffusione delle famiglie e dunque offre una delle spiegazioni degli incrementi di mobilità indotti dalla dispersione.

La Figura 1.6 documenta l’incremento dello stock abitativo sulla base dei dati dell’Agenzia del Territorio mentre la Figura 1.7 costruita attraverso il database delle carte dell’utilizzazione del suolo della Regione Emilia-Romagna prodotte negli anni indicati, mette in risalto la progressiva urbanizzazione delle campagne e di polverizzazione degli insediamenti. Quando infatti scendiamo alla scala provinciale ed esaminiamo i dati di popolazione (Figura 1.8), è di grande evidenza l’inversione delle correnti insediative: i residenti nei comuni della provincia (esclusa Bologna) calano fino a metà degli anni ’60 e da quel momento in poi riprendono ad aumentare in maniera costante. Viceversa il comune di Bologna aumenta fino al ’71 e assume in seguito un andamento diametralmente opposto a quello del territorio provinciale. Un riaggiustamento nella distribuzione della popolazione che ispessisce il ruolo dei comuni maggiori, come è evidente dalla rappresentazione anamorfica della Figura 1.9. Nello stesso cartogramma troviamo documentati graficamente e confrontati gli andamenti della popolazione e delle costruzioni di abitazioni, due trend che non hanno alcuna relazione e spiegano la situazione attuale di stallo del settore.

Ragionare di dinamiche insediativa significa anche riflettere sul tipo di aggregazioni familiari da cui può scaturire domanda residenziale, la Figura 1.10 mostra la distribuzione per comuni delle famiglie in base al rapporto tra numero medio di componenti e totale delle famiglie. Un dato che viene puntualizzato attraverso la distribuzione dei nuclei unifamiliari (notiamo importanti quote di single nel comune di Bologna e nelle aree montane, per ragioni sociologiche opposte) e dei nuclei con più componenti (evidente il densificarsi di famiglie con prole nei comuni di seconda cintura).

In un clima demografico da tempo ad andamento negativo, ci è parso utile localizzare la componente immigratoria (Figura 1.11) sia in termini assoluti che in rapporto alla popolazione residente. Specie nel 2001 balza agli occhi il relativo ripopolamento dei comuni montani che si avvantaggiano dei minori costi delle abitazioni. Aree in cui aumentano infatti sia il rapporto tra popolazione attiva e residenti (Figura 1.12) che la quota di residenti occupati che lavorano fuori dal comune (Figura 1.13). Un aumento della popolazione costretta ogni giorno a spostarsi dal luogo di residenza che va ad incrementare la mobilità e che nella maggior parte dei casi sceglie come mezzo di trasporto l’auto privata, un comportamento che nell’ultimo decennio si è amplificato ai danni di altre modalità di spostamento ecologicamente ed economicamente più sostenibili (Figura 1.14). L’istogramma mette in evidenza un altro dato che mi sembra importante rilevare: mentre la quota di spostamenti che avviene attraverso autobus e filobus urbani tra il 1991 e il 2001 aumenta, quella di corriere e autobus extraurbani cala. Ovvio conseguirne che la capillarità e il cadenzamento dei mezzi pubblici urbani incentiva il loro utilizzo mentre la maggiore rarefazione dei servizi di trasporto collettivo in una condizione di forte dispersione rururbana rende meno appetibile il loro utilizzo. Una constatazione che sottolinea la mancata correlazione tra pianificazione insediativa e piani dei trasporti.

La Figura 1.15 confronta la quantità di abitazioni presenti nei comuni della provincia di Bologna alle date dei censimenti mostrandone la progressiva crescita e le aree di addensamento nelle diverse fasi. La Figura 1.16 mostra gli incrementi relativi alle decadi. La Figura 1.17 opera una serie di confronti tra popolazione, sia in valori assoluti che come nuclei familiari, e abitazioni da cui emerge la progressiva scollatura tra i due dati. La Figura 1.18 riproduce, per sezioni censuarie e secondo gli intervalli di dati messi a disposizione dall’Istat, le abitazioni costruite a Bologna – un modo per localizzare diacronicamente e datare il patrimonio costruito nel comune capoluogo.

Per esaminare l’ultimo decennio, il più interessante per riflettere sulla crisi immobiliare da cui è partita l’indagine, non potendo appoggiarci ai dati di censimento, siamo ricorsi alla banca dati dell’Agenzia del Territorio e all’Osservatorio Immobiliare della Fiaip. Avevamo già documentato, quantomeno fino all’ultimo censimento, l’onda edilizia crescente e il graduale scostarsi tra la potenziale domanda di abitazioni da parte di una popolazione in stasi e un’offerta di costruzioni sovradimensionata. La fonte Fiaip (Figura 1.19) si è dimostrata preziosa per entrare nel merito dei valori immobiliari e documentare gli andamenti di mercato nell’ultimo decennio: fino al 2007 in costante e rapida ascesa e poi, in simmetria con le dinamiche internazionali, in stasi e calo. Andamenti di segno parallelo vengono testimoniati dall’Agenzia del Territorio attraverso il numero di transazioni operate, ma in questa occasione mi sembra più utile porre attenzione ai trend dei prezzi, rinviando a lavori precedenti per quel tipo di considerazioni [Bonora 2009a].

Conosciamo gli effetti della crisi immobiliare e le sue conseguenze sull’economia mondiale. Benché in Italia il fenomeno paia abbastanza contenuto, i dati che provengono dalle nazioni che più si erano esposte nel settore rappresentano un utile momento di confronto. Tra 1998 e 2007 in Irlanda gli investimenti in costruzioni sono aumentati dell’ 82,2%, in Spagna del 73,4%, in Grecia del 69,9%. Paesi che stanno scontando una crisi profonda la cui origine sarebbe azzardato attribuire alla sola sovrapproduzione edilizia, ma di cui è per certo una componente. In Giappone il fenomeno è esploso già all’inizio degli anni ’90: in un quindicennio, tra 1991 e 2006, il calo dei valori immobiliari è stato del 68%. Negli Stati Uniti, dove il connubio perverso tra finanza avventuriera e settore delle costruzioni ha innescato la crisi mondiale, il calo medio dei valori dal 1997 è stato del 30%, con una perdita di ricchezza per i proprietari stimata a fine 2008 intorno ai 4.000 miliardi di dollari. In Europa i cali delle compravendite vanno dal - 80% della Spagna al - 30% della Francia; in Italia tra 2006 e 2010 le compravendite sono calate del 26,2% i prezzi del 17,2% (medie nazionali).

Un clima allarmante che mette in gioco i destini delle economie e delle società locali, che abbiamo voluto verificare a Bologna e nella sua area di dilatazione. L’ Osservatorio Immobiliare della FIAIP fornisce annualmente valutazioni sui prezzi delle abitazioni sulla base di una zonizzazione per aree a valore omogeneo per i comuni maggiori e su base comunale per gli enti minori. Una banca dati che abbiamo digitalizzato per analizzare in maggior dettaglio gli andamenti dei prezzi tra il 2000 e il 2009 in Bologna e in alcune fasce di dilatazione insediativa. Il centro storico non mostra cali significativi dei valori, (Figura 1.20) presenta un andamento dei prezzi crescente fino al 2006 ma poi su quella soglia si stabilizza, salvo piccoli scostamenti negativi nelle zone meno qualificate. Andamenti analoghi, pur con distinzioni anche notevoli nei valori relativi a seconda della qualificazione della zona, si riscontrano nei quartieri esterni a consolidata vocazione residenziale (Figura 1.21).

Il quadro cambia esaminando le fasce esterne al corpo urbano. Anche nell’area pregiata dei colli prospicienti la città, al picco del 2006 seguono cadute significative (Figura 1.22). Un trend che si accentua nella conurbazione storica (Figura 1.23) e nei comuni di prima cintura sia nell’area di pianura (Figura 1.24) che nelle zone pedecollinari (Figura 1.25). In stasi fino al 2009 invece i valori della seconda fascia di pianura (Figura 1.26). Un quadro che sotto il profilo economico non è drammatico e tuttavia denuncia uno squilibrio che può danneggiare non il solo settore ma l’intero sistema territoriale. Una sofferenza che abbiamo voluto raccontare attraverso una cernita di immagini sintomatiche: paesaggi di cantieri inconclusi (Figura 1.27), di immobili invenduti (Figura 1.28), mentre si fa sempre più evidente la scollatura tra i sogni propagandati (Figura 1.29) e le realtà di insediamenti isolati dai contesti relazionali e apparentemente deserti (Figura 1.30) anche nei giorni di week-end in cui le fotografie sono state scattate.

Paesaggi in cui la cifra estetica dei manufatti parla il linguaggio dell’anomia e della ripetitività (Figura 1.31 e Figura 1.32), il gusto assume espressioni bizzarre (Figura 1.33), sceglie accostamenti arditi (Figura 1.34), fisionomie minacciose (Figura 1.35).

L’indagine ha previsto anche un’incursione di taglio antropologico. Attraverso interviste semi-strutturate abbiamo voluto cogliere i sentimenti di abitanti che hanno scelto di allontanarsi dalla città. I risultati sono riassunti in tre tavole infografiche (Figura 1.36, Figura 1.37 e Figura 1.38) in cui si abbandona la tecnica cartografica per lasciare spazio a rappresentazioni impressionistiche. Mappe abbozzate manualmente nel corso dei colloqui per schizzare le direzioni degli spostamenti, delle relazioni, dei radicamenti e dei rapporti territoriali e fornire una rappresentazione dello spazio scaturita dalle soggettività, dai vissuti. Ne emerge la rappresentazione dello sprawl come risposta esistenziale, la ricchezza umana della contraddittorietà delle motivazioni.

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DOI 10.1473/quadterr01
Storicamente 2011

Published: December 8th 2011

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