Rappresentare la territorialità
a cura di Paola Bonora

Spazi contesi


Rappresentare la società post-secolare: temi e orientamenti della geografia delle religioni
Giuseppe Carta

Abstract

This article provides a literature review on the recent development of the geography of religion. Specifically, it aims to highlight two issues: (a) the theoretical and methodological evolution of this sub-field, gained by the recognition of the reciprocal relations between environment and religious experience as well as of the fluidity within the separation between sacred and secular; (b) the relations between state and religion in decision making processes and definition of urban policy. Moreover, the article illustrates those concepts in a brief analysis of a case study, the new town of Ave Maria Town in Florida.

Indice

Introduzione
Sviluppo della geografia delle religioni: reciprocità e fluidità
Nuove sfide: le politiche urbane in età post-secolare
Ave Maria Town: la geografia delle religioni nello sprawl
Conclusioni
Bibliografia

Introduzione

Negli ultimi decenni la religione ha riscosso un interesse accademico crescente, sia nelle scienze sociali che in quelle umanistiche. Le ragioni di questo interesse affondano nelle dinamiche innescate dal consolidamento dei processi di globalizzazione, da un lato l’intensificarsi dei flussi migratori, che ha alterato la distribuzione delle appartenenze religiose e alcuni elementi sostantivi delle tradizioni cultuali, e dall’altro la maggiore visibilità delle religioni nella sfera pubblica e nell’arena politica [cfr. Beckford 2003; Juergensmeyer 2006]. Se gran parte delle attenzioni si sono concentrate sull’esplodere dei fondamentalismi, altri accadimenti di minore impatto mediatico testimoniano le trasformazioni sociali avvenute a livello globale presso movimenti e tradizioni religiose e sono stati oggetto di trattazione scientifica. Le pubblicazioni dedicate ai diversi aspetti del fenomeno religioso sono cresciute in maniera sensibile e rimandano a una pluralità di prospettive analitiche: in ambito filosofico si è cercato di riconoscere, assieme a Gauchet e a Derrida, i caratteri dell’esperienza religiosa nell’età contemporanea [Taylor 2009; Raschke 2003]; in ambito sociologico il tema della secolarizzazione ha vissuto un rilevante rinnovamento, stimolato dal confronto tra i fautori della teoria del «ritorno al sacro» e chi invece attribuisce alla teoria della secolarizzazione, seppur articolata sotto differenti declinazioni, una persistente validità euristica [Gorski e Altinordu 2008; Norris e Iglehart 2008]; in ambito politologico particolare risalto hanno avuto le teorie di Habermas e Rawls, accompagnate da un vivace dibattito intorno alle modalità di integrazione politico-giuridica in una società pluralista [Bader 2003; Rusconi 2008]; infine si segnala il successo editoriale di alcune opere divulgative di esegesi dei testi sacri e di storia delle religioni [ad es. Augias e Pesce 2006; Luzzato 2007]. Accanto a un interesse puramente analitico è palese un interesse normativo: rappresentare per conoscere dunque, ma anche per dirimere e governare.

La geografia non ha fatto eccezione e si è distinta come una delle voci più rilevanti nel rinnovamento degli studi religiosi. Benché presso altre tradizioni disciplinari sia da tempo riconosciuto e indagato il ruolo delle religioni in dinamiche geografiche quali costruzione delle identità territoriali e produzione degli spazi pubblici, così come l’impronta di spazio e luogo nella formazione dei concetti di religioso e sacro e nei processi di istituzionalizzazione delle religioni [cfr. Brace, Bailey e Harvey 2006; Karner e Aldridge 2004; Casanova 2001; Harvieu-Léger 2002], i geografi hanno tardato ad accogliere l’analisi del fenomeno nelle proprie competenze e ad adeguare a tal fine i propri modelli conoscitivi. Negli ultimi tempi invece, in un primo momento nel solco della geografia culturale e della geopolitica e in seguito quale campo autonomo, la geografia delle religioni ha attraversato una profonda riflessione epistemologica: se solo dieci anni fa appariva difficile riscontrare una parentela tra le ricerche, se non a posteriori [Kong 2001], oggi essa si afferma come sottodisciplina matura, caratterizzata da interessi specifici e portatrice di prospettive critiche che ambiscono a rinnovare i fondamenti cognitivi della geografia umana stessa [cfr. Holloway e Valins 2002; Dewsbury e Cloke 2009; Hancock e Srinivas 2008]. Oltre al proliferare di numeri monografici dedicati dalle più importanti riviste geografiche internazionali al tema, la misura di questo progresso disciplinare può essere verificata osservando come l’influenza della geografia delle religioni – in particolare nelle nozioni di spazio e paesaggio – sia oggi presente in studi riconducibili ad altri campi scientifici e persino nella teologia [cfr. Yorgason e della Dora 2009; Hervieu-Legér 2002; Knott 2005; Sheldrake 2001; McAlister 2005; Williams 2010; Inge 2003; Lane 1998].

Questo articolo ha l’obiettivo di raccogliere gli spunti teorici emersi di recente nella geografia delle religioni, al fine di portare alla luce riflessioni e tematiche con cui la ricerca geografica italiana si è raramente confrontata [Minca 2005]. A tale proposito si cercherà di integrare quanto offerto nei due numeri monografici di Geotema curati da Graziella Galliano [2002; 2003], che costituiscono tuttora il più rilevante contributo disciplinare della letteratura accademica di casa nostra. La rassegna presentata ambisce a mostrare come il rapporto tra geografia delle religioni e studi religiosi non possa limitarsi a una mera migrazione di categorie, metodi di ricerca e definizioni operative, o come spesso è accaduto a un’a-problematica catalogazione delle religioni tradizionali o variamente istituzionalizzate nello spazio, ma debba al contrario fondarsi su un reciproco sostegno [Henkel 2005]. In altre parole, secondo la ricerca corrente la geografia deve dialogare con campi disciplinari lontani per tradizione accademica in due modi complementari e interdipendenti: (a) attraverso teorizzazioni complesse atte a cogliere le relazioni mutuali tra religioni e spazialità; (b) attraverso indagini empiriche intorno alle varietà nelle quali il religioso si territorializza. Consapevoli della difficoltà di definire in maniera tassonomica il religioso, in accordo con Ivakhiv [2006] si considererà la geografia delle religioni come lo studio delle relazioni tra territorio e quelle costruzioni di significato associate al mutevole segno di religioso e sacro, segno che si determina storicamente in concerto con paesaggi, culture e pratiche sociali [cfr. Gatti 2003; Andreotti 2003].

Il ricorso al termine post-secolare, evocato nel titolo, riflette un duplice intento: da una parte segnalare un mutamento negli assunti delle scienze umane, che hanno cessato di considerare il religioso come residuale e hanno proposto nuove interpretazioni dei concetti di secolarizzazione, di secolare e secolarismo; dall’altra attribuire alla rappresentazione geografica il compito di supportare altre discipline nella definizione di modelli, sia cognitivi e sia normativi, capaci di descrivere il religioso e rispondere alle istanze di espressione pubblica delle religioni nella società civile e nella sfera politica [Proctor 2006]. Per ovviare alle perplessità che spesso tale espressione ha suscitato, persino in ambito geografico [Kong 2010; Wilford 2009], si intenderà qui per società post-secolare una società in cui il religioso ricopre una dimensione pubblica e diventa visibile nello spazio pubblico, nel variare degli orientamenti istituzionali prevalenti su scala locale o dei livelli di affiliazione e credenza religiosa. È insomma del tutto estraneo ai nostri obiettivi sostenere il definitivo superamento della teoria della secolarizzazione come strumento analitico e un «ritorno al sacro» discutibile sul piano ontologico e finora indimostrato dalla ricerca empirica, o il declino dei principi modernisti di autonomia dello stato rispetto alle confessioni religiose, in favore di affiancamenti del potere politico a fonti di significato particolaristiche ed esclusive. Contrariamente a come è spesso inteso, il concetto di post-secolare non indica affatto un’uscita dall’età secolare ma invece una trasformazione processuale delle religioni all’interno delle strutture sociali moderne e un adeguamento di queste al ruolo pubblico ricoperto dalle religioni. All’interno del dibattito sul post-secolare, la rappresentazione geografica si pone come strumento in grado di offrire una conoscenza più ampia e puntuale del religioso nel territorio e dunque di suggerire idee e spunti per la rimozione delle asimmetrie nel dialogo tra diversi attori sociali, siano essi religiosi o non-religiosi, per la risoluzione dei conflitti e l’elaborazione di politiche urbane più eque e inclusive.

È bene premettere che, malgrado sia nostra intenzione offrire al lettore una bibliografia quanto più ampia possibile, la rassegna qui presentata sarà frutto di una selezione e dunque parziale e incompleta. Nel primo paragrafo illustreremo lo sviluppo della geografia delle religioni attraverso l’assunzione dei principi di reciprocità nelle relazioni tra ambiente e religioso e di fluidità di sacro e secolare, in linea con le ricerche di Buttner [1980] e Kong [1990; 2001; 2004; 2010]. Nel secondo paragrafo verranno riportate alcune ricerche intorno al rapporto tra religioni e sfera politica, ambito nel quale il sapere geografico può arricchire e sostenere una riflessione di carattere normativo. Come tentativo di sintesi, alcuni dei concetti introdotti saranno esemplificati nella presentazione di uno studio empirico compiuto in Florida presso la comunità residenziale di Ave Maria Town.

Sviluppo della geografia delle religioni: reciprocità e fluidità

I primi studi intorno ai rapporti tra geografia e religione erano animati da principi molto lontani rispetto a quanto emerso nelle ricerche più recenti. Dato che questi indirizzi continuano a suggestionare i non specialisti, un rapido esame intorno all’evoluzione di prospettive e metodologie servirà a evidenziare le istanze cognitive avanzate della geografia delle religioni attuale.

In una prima fase la conoscenza geografica era subordinata alla teologia e agli obiettivi posti dalle istituzioni religiose, tanto che si deve parlare di geografia religiosa [Buttner 1980; Kong 1990; 2004]: una corrente particolarmente fertile era rappresentata dalla geografia ecclesiastica, dedita a una mappatura della distribuzione spaziale delle religioni e finalizzata a supportare la colonizzazione cristiana e le missioni di evangelizzazione; tra il ‘500 e il ‘600 si sviluppava la geografia biblica, orientata a identificare toponomastica e localizzazione dei luoghi narrati nella Bibbia; nel tardo ‘700 fioriva invece una prospettiva fisico-teologica, che si proponeva di dimostrare l’esistenza di Dio attraverso lo studio dell’ambiente naturale, secondo una concezione della geografia come osservazione degli aspetti materiali e sensibili quali risultato di un atto di creazione divina [cfr. Aiken 2010]. Con la modernità la geografia diventava una disciplina «teologicamente neutrale» [Buttner 1980] e seppur nel prevalere della geografia ecclesiastica, supportata da nuove e più sofisticate tecniche di rappresentazione cartografica, prendevano corpo nuove prospettive di analisi scientifica.

Lo sviluppo della geografia delle religioni quale campo di studi autonomo passa attraverso l’opposizione di due differenti e opposti determinismi, quello ambientale e quello religioso, seguiti da una loro integrazione con l’emergere del principio di reciprocità nelle relazioni tra religioso e luogo – in un ciclo di tesi, antitesi e sintesi [Kong 1990]. In un primo momento la ricerca assume quale oggetto di studio l’influenza dell’ambiente naturale sul religioso, nell’osservare il modo in cui teologia e simbolismo delle tradizioni religiose risultino determinati nel loro complesso dalle caratteristiche dell’ambiente naturale in cui si sviluppano. Tale costruttivismo ecologico consentiva di tracciare relazioni di causalità tra fattori ambientali, come ad esempio il clima torrido del Medio Oriente, e specifiche costruzioni teologiche e cultuali, ad esempio le concezioni dell’aldilà nei monoteismi [Livingstone 1994]. In un secondo momento la prospettiva si ribalta e, in linea con la sociologia weberiana, assurge a oggetto della riflessione l’influenza svolta dalla religione sulle strutture economiche e sociali, attribuendo ad essa un ruolo attivo nell’antropizzazione dell’ambiente naturale. La ricerca empirica, sotto l’influsso della geografia culturale di Carl Sauer e Deffontaines, predilige un approccio storico e descrittivo e si focalizza su aspetti quali la distribuzione delle comunità dei fedeli, l’analisi di modelli spaziali di diffusione dei gruppi religiosi così come sullo studio fenomenologico del paesaggio [Kong 2004]. In questa fase la geografia delle religioni si limita insomma a censire e rappresentare gli aspetti visibili del religioso, per concentrarsi sulle modalità di espressione delle religioni nel paesaggio antropico, con particolare attenzione verso i luoghi di preghiera e di pellegrinaggio.

Con gli anni ’60, soprattutto grazie ai lavori di Fickeler e Sopher, il principio di reciprocità sostituisce i due determinismi unidirezionali, e impone lo studio delle relazioni dialettiche tra ambiente e religione [Kong 1990]. Secondo la ricostruzione storica qui tracciata, questo passo costituisce una piccola rivoluzione paradigmatica negli studi disciplinari e consente la nascita della geografia delle religioni contemporanea. Superata una concezione della geografia circoscritta alla rappresentazione spaziale e cartografica di categorie mutuate da altre discipline, così come all’interpretazione di aspetti teologici attraverso le categorie di spazio e paesaggio, con l’instaurarsi del principio di reciprocità la geografia esce finalmente dalla posizione di minorità rispetto ad altri campi degli studi religiosi e acquista una voce autonoma. Diversi geografi sottolineano la necessità di una stretta cooperazione tra geografia e studi religiosi, in modo che né il geografo ignori metodi e risultati delle ricerche compiuti dai filosofi, teologi, sociologi e storici delle religioni, né questi sottovalutino la dimensione geografica del fenomeno religioso e gli esiti delle ricerche empiriche sul territorio [Buttner 1980; Henkel 2005; Proctor 2006].

Alcuni orientamenti assumono particolare consistenza. Parte degli studiosi accoglie come oggetto di studio primario la comunità o il gruppo religioso quale forza intermedia tra religione e ambiente, osservato nella sua organizzazione spaziale così come nelle attività sociali svolte nella sfera secolare e nella strutturazione delle pratiche quotidiane dei propri affiliati [cfr. Valins 2000]. Levine [1986], ad esempio, sostiene la necessità di un approccio di carattere materialista, che privilegi le modalità di istituzionalizzazione e le organizzazioni ecclesiastiche quali strumenti primari di legittimazione delle costruzioni teologiche e di territorializzazione del religioso. Altri geografi, tra cui Buttner e Cooper, conferiscono invece all’interpretazione individuale dell’esperienza religiosa dignità di analisi scientifica: secondo un’impostazione assimilabile alla geografia culturale di Cosgrove e Duncan, luogo ed esperienza religiosa vengono interrelati a una pluralità di relazioni sociali e materiali, laddove teologia ufficiale e azione sociale delle religioni istituzionali non costituiscono che una parte delle forze in gioco [Buttner 1980; Cooper 1992; cfr. Hervieu-Léger 2003].

Accanto al principio di reciprocità, lo sviluppo disciplinare della geografia delle religioni riceve un contributo decisivo dal concetto di fluidità di religioso e secolare, sfere considerate intercomunicanti a livello materiale, simbolico e ontologico. Il concetto è analizzato nel dettaglio nella seconda rassegna decennale curata dalla geografa Lily Kong [2001], che lo assume come tratto costitutivo delle «nuove geografie delle religioni». Il sacro, afferma Kong, discende da pratiche e processi sociali, mai può essere assunto a priori ma deve sempre essere oggetto di analisi specifiche; se niente è intrinsecamente sacro, allora gli spazi sacri sono necessariamente spazi reclamati, prodotti e contestati dai diversi attori sociali attraverso pratiche di significazione e sacralizzazione divergenti e talvolta concorrenti [cfr. Dewsbury e Cloke 2009]. In conseguenza di questo principio, per la ricerca geografica diventa cruciale lo studio delle relazioni di potere, e si rivela opportuno concentrarsi sul dialogo tra gruppi e comunità religiose e quelle forze imprenditoriali, sociali e politiche che presiedono alle pratiche di sacralizzazione degli spazi [Kong 2004].

Se è vero che parte della ricerca persiste nello studio di spazi religiosi quali luoghi di culto, santuari e luoghi di pellegrinaggio, a cambiare radicalmente è il modo di approcciare tali realtà. Un esempio è offerto dalla stessa Kong in una ricerca riguardo alle pratiche di pianificazione urbanistica degli edifici di preghiera a Singapore [1993]. Attraverso uno spostamento dalla dimensione puramente materiale a quella simbolica e valoriale, supportata dal ricorso alla dialettica gramsciana di egemonia/resistenza, l’autrice si concentra sulle discriminazioni perpetrate dal potere statale nei confronti delle diverse denominazioni religiose e sui contrasti riguardo ai significati attribuiti agli edifici religiosi, visti come spazi funzionali al mantenimento dell’ordine pubblico da parte dell’amministrazione e come luoghi sacri dalle comunità religiose. Un campo rinnovato dall’assunzione del principio di fluidità di sacro e secolare risulta essere lo studio dei luoghi di pellegrinaggio, del turismo religioso e dell’utilizzo profano dei luoghi sacri [Collins-Kreiner 2010], ad esempio assurti a simbolo a-religioso della cultura locale tout-court mediante uno svuotamento del significato sacrale da parte delle forze imprenditoriali [Murray e Graham 1997], o in strumenti di legittimazione del potere statale attraverso una promozione dell’identità nazionale incentrata nel religioso che di fatto nasconde la violenta segregazione subita dalle minoranze religiose [Philp e Mercer 1999].

Il concetto di paesaggio viene ridiscusso criticamente, non più piegato a una impostazione meramente descrittiva ma assunto come dispositivo in grado di illuminare relazioni sociali complesse e processi contestuali di scrittura e decodifica del religioso e delle identità locali. Di particolare rilievo sono gli studi di Shilhav, che presenta una ricerca sui conflitti generati tra soggetti secolari e gruppi religiosi riguardo agli usi del suolo e ai criteri di localizzazione funzionali e simbolici delle sinagoghe in Israele [1983; cfr. Cohen 2007], e di Lewandowski, il quale studia il modo in cui lo stato indiano, pur nel permanere di orientamenti di carattere secolarista, persegua fini politici di legittimazione del proprio potere attraverso il rafforzamento della presenza simbolica dell’Induismo come simbolo dell’emancipazione dall’impero coloniale [1984]. Un tentativo di ricorrere in maniera innovativa alla nozione di paesaggio è portato dal geografo Raivo [1997], in una ricerca storica riguardo alla presenza ortodossa in Finlandia. Secondo Raivo il paesaggio sensibile costituito dall’architettura dei luoghi di culto contribuisce alla costruzione delle ideologie e delle identità nazionali mediante un processo di scrittura, lettura e interpretazione complesso: da una parte, segnala l’autore, gli edifici ortodossi maggiori per dimensioni e visibilità sono percepiti quali simbolo della colonizzazione russa e in quanto tali spesso combattuti; dall’altra, in particolar modo nelle aree di confine, le piccole cappelle e i monasteri ricevono invece il benestare della comunità locale come simboli di pacificazione e integrazione. Questa ricerca dimostra insomma come gli aspetti materiali e visibili del paesaggio, dettati dal disegno architettonico o dalle volumetrie così come dalla localizzazione e da relazioni di prossimità, siano intrecciati a fattori politici e culturali e debbano essere correlata dalla ricerca geografica a specifiche forme di esperienza religiosa, capaci di generare o alimentare istanze conflittuali così come forme di integrazione sociale e politica.

I concetti di reciprocità di ambiente e religione e di fluidità di sacro e secolare assumono la qualità di principi nodali nello sviluppo della geografia delle religioni, sia nel dibattito teoretico sia nella ricerca empirica. Segnaliamo qui alcuni contributi, che indicano la fecondità di tali principi nella pubblicistica recente. Lo studio di Brace, Bailey e Harvey [2006] propone un modello in grado di analizzare il modo in cui le religioni, attraverso la produzione di narrative e tradizioni rituali, offrono alle comunità locali una base di significato condivisa che permette di ricordare, raccontare e riprodurre aspetti cruciali della propria identità storica quale supporto per l’autocomprensione e per un’azione politica e morale nel presente. Proprio in virtù della sua capacità di rendere conto della dimensione dialettica e processuale dello spazio quale prodotto sociale, diverse ricerche empiriche tentano di avanzare innovazioni metodologiche fondate sul modello della produzione dello spazio di Lefebvre [1976]. Un tentativo da segnalare è quello di Gatrell e Collins-Kreiner [2006], nel quale l’uso intensivo di tale modello mostra come la sovrapposizione di motivi religiosi e interessi secolari nello sviluppo turistico dei giardini di Haifa in Israele dia luogo alla coesistenza di due dimensioni socio-spaziali, quello del turista e quello del pellegrino, entrambi indispensabili per l’indagine geografica. Altri tentativi rimarchevoli in questa direzione sono compiuti da Gale [2004] nell’analisi delle pratiche di pianificazione urbanistica di tre moschee a Birmingham e da MacDonald [2002], in uno studio sulle intersezioni tra teologia presbiteriana ed estetizzazione della tradizione architettonica nella Scozia rurale. È da registrare inoltre come la concezione dello spazio di Lefebvre trovi applicazione anche presso altri campi disciplinari degli studi religiosi [Knott 2005; 2009; McAlister 2005; Sheldrake 2007].

Come segnalato da Kong [2001; 2004], più di recente la geografia delle religioni ha esteso il proprio sguardo oltre l’«officially sacred», per comprendere come altri spazi oltre ai luoghi sacri e di preghiera assumano significazioni di carattere religioso attraverso specifiche pratiche di sacralizzazione. Brevemente si segnalano alcuni studi: Ismail illustra come durante il Ramadan a Singapore la strada diventi un veicolo spaziale – ma solo stagionale – di espressione religiosa, spazio di resistenza e di rivendicazione dell’identità comunitaria [2006]; Gokariksel riflette sulle dinamiche di incorporazione del religioso e di produzione della soggettività religiosa attraverso lo studio dell’uso del velo nella Turchia secolarista [2009]; Dittmer e Spears interpretano i contenuti geopolitici della serie Left Behind, senza dubbio il più rilevante caso di best seller letterario a sfondo religioso [2009]; Valins studia la tensione tra rivendicazioni di matrice religiosa e tendenze differenzialiste alla radice di una riforma scolastica incentrata su tutela e valorizzazione delle credenze religiose in Gran Bretagna [2003]; la stessa Kong affronta l’analisi dello spazio mediatico come spazio per l’espressione religiosa [2001b] così come delle relazioni tra religioni e mercato [1996]. Allo stesso tempo emergono altre prospettive innovative intorno alla dimensione transnazionale del religioso: Ebaugh considera gli scambi monetari tra immigrati di prima generazione e paese di provenienza attraverso lo studio empirico di sei comunità negli Stati Uniti [2005]; Olson analizza la rielaborazione dei modelli di sviluppo socioeconomico di matrice religiosa nei processi di trasformazione delle aree rurali presso una comunità Quechua in Perù [2006]; Ghosh analizza le scelte abitative e le esperienze di insediamento degli immigrati bengalesi a Toronto [2007]; Goh esamina i meccanismi di resistenza delle comunità cristiane a Singapore, stretti tra politiche statali e una diffusa percezione negativa della cristianità come elemento esogeno e occidentale [2009]; McGregor suggerisce un avvicinamento tra la geografia dello sviluppo e la geografia delle religioni, in una ricerca riguardo al ruolo delle associazioni religiose transnazionali nella ricostruzione degli spazi sacri distrutti dallo tsunami del 2004 in Indonesia [2010].

Nuove sfide: le politiche urbane in età post-secolare

La terza rassegna decennale proposta da Kong [2010] segnala un netto incremento nel volume e nella complessità degli studi geografici intorno alla religione. Come detto tale incremento riflette un’attenzione sia cognitiva che normativa, sempre più spesso affrontata in ambito accademico attraverso il ricorso alla nozione di post-secolare. Se è vero che le problematiche poste in essere dal ruolo delle religioni nella sfera pubblica costituiscono fonte di tensioni geopolitiche e di conflittualità, gli studi ispirati alla nozione di post-secolare tracciano nuove modalità di dialogo tra attori sociali appartenenti a diversi gruppi religiosi o non-religiosi, al fine di armonizzare le dinamiche di adattamento reciproco del religioso e degli assetti istituzionali. All’interno di questa cornice la ricerca geografica si dimostra particolarmente utile perché capace di spostarsi dal globale al nazionale, dal regionale all’urbano, fino al corpo, per così comprendere specifici fenomeni come espressione di accadimenti sociali e politici attualizzati su scale geografiche differenti [Kong 2001; 2004; 2010; Wilford 2009; Haynes 2001].

Una parte degli studi riconducibili alla geografia politica focalizzano l’esplorazione delle pratiche di riterritorializzazione alla scala transnazionale e nazionale. Un esempio è costituito dal lavoro di Knippenberg [2006] che tratta delle sfide poste dalla globalizzazione e dal riemergere dei particolarismi religiosi nella sfera pubblica ai modelli di relazioni stato-chiesa. Diversi processi sono considerati: in primo luogo la secolarizzazione intesa come differenziazione istituzionale, nel momento in cui lo stato confessionale diventa neutrale e il principio di libertà di culto sostituisce il vincolo cuius regio-eius religio; in secondo luogo la deterritorializzazione, cioè lo sradicamento della religione dal territorio nazionale, che ha cambiato la composizione religiosa a livello nazionale e, per rifarsi alla celebre definizione di Anderson [2000], ha trasformato le religioni stesse in comunità immaginate su scala transnazionale. Un altro studio rilevante di è quello di Agnew [2006; 2010]: secondo il geografo americano la religione costituisce l’idioma politico emergente del nostro tempo, laddove il ricorso a metafore e a giustificazioni di matrice religiosa cessa di essere politicamente marginale e diventa invece preminente. In questa ricerca grande valore viene attribuito alle interpretazioni teologiche e alle costruzioni ideologiche finalizzate alla legittimazione del potere statale e dell’identità nazionale, ma rimangono del tutto inesplorati i conflitti quotidiani giocati su scala minore. Se è vero che la globalizzazione offre nuove appigli ad un utilizzo delle tradizioni religiose come fonte di legittimazione politica e identificazione a livello nazionale, comunitario e individuale, questi studi riservano scarse attenzioni a come pratiche sociali di resistenza e sacralizzazione trasformino in realtà operative flussi immateriali di informazioni e simboli religiosi.

Tra gli indirizzi recenti della geografia delle religioni concentriamoci sull’analisi delle relazioni tra religioni e sfera politica, considerando politiche urbane e pianificazione urbanistica come strumento di regolazione dei processi di territorializzazione delle religioni. Oltre a offrire la possibilità di abbracciare una prospettiva comparativa lo studio delle politiche locali rappresenta per i geografi un fertile terreno di scambio e confronto con altre discipline accademiche, e allo stesso tempo pone il sapere geografico sia come strumento di conoscenza per la società civile che come orientamento teoretico ed empirico per l’elaborazione di più efficaci politiche di governo del territorio.

La prospettiva maggiormente battuta analizza la pianificazione urbanistica degli edifici religiosi e dei luoghi di preghiera, oggi più che mai origine e fulcro di dinamiche di rivendicazione identitaria. Se una teorizzazione più ampia riguardo al sacro e alla spiritualità quali elementi positivi per le pratiche di governo del territorio si trova ancora in una fase embrionale [Sandercock 2006], così come un inquadramento delle lotte dei movimenti religiosi per l’affermazione del proprio spazio di rappresentazione come «diritto alla città», ampio spazio è stato finora riservato alla capacità dei percorsi di «decision making» e di governance di attenuare le conflittualità nel contesto urbano.

Il tema finora più studiato è stato la costruzione delle moschee in paesi storicamente non islamici. Le contestazioni più intense nella pratiche di pianificazione riguardano senza dubbio la visibilità di simboli e architetture di carattere esogeno, investiti da attenzioni e preoccupazioni che raramente toccano altri momenti di trasformazione del paesaggio urbano [Gale 2007; Landman e Wessels 2005; Naylor e Ryan 2002; Jones 2010]. In questa direzione un lavoro paradigmatico è quello del già citato Gale [2004; cfr. Gale e Naylor 2002]: l’analisi considera i casi di edificazione di tre moschee a Birmingham e ricorre al modello di produzione dello spazio di Lefebvre [1976] al fine di mostrare come la voce dei tecnici e le interpretazioni parziali dei gruppi sociali, religiosi o non, si intersechino con i significati ascritti a livello simbolico al luogo materiale. L’articolo dimostra da una parte come la partecipazione dei gruppi religiosi alle pratiche di pianificazione possa costituire un fattore positivo nella mitigazione degli atti di contestazione estetica e politica legati all’edificazione dei luoghi di culto, e dall’altra come tali contestazioni varino di intensità e contenuti al variare del contesto geografico in cui si colloca l’intervento urbanistico, in una tensione tra rifiuto e celebrazione dell’identità multiculturale. Nella stessa direzione si pone il contributo di Cesari [2005], che attraverso l’analisi dei casi di Marsiglia e Tolosa esamina come i conflitti per la costruzione delle moschee, cresciuti esponenzialmente nel periodo successivo al 2001, subiscano un deciso arretramento davanti a percorsi di dialogo tra organizzazioni islamiche e autorità locali.

Sebbene riconducibile a una prospettiva sociologica e non geografica, lo studio coordinato dall’italiano Stefano Allievi risalta per accuratezza e completezza [2009]: il tema è inquadrato in una dimensione comparativa che contempla l’analisi di tredici casi specifici relativi a differenti contesti nazionali e sono proposte alcune linee guida per la risoluzione o la mitigazione dei conflitti. Emmett [2009] si concentra invece sui rapporti di localizzazione e prossimità di chiese e moschee, sia in contesti cristiani che in contesti primariamente islamici, quale indicatore della qualità delle relazioni interreligiose: accanto a un’indagine empirica condotta in quattro casi di studio, viene qui proposta una categorizzazione delle configurazioni riscontrate in un’ampia casistica storica, dalla distruzione degli altrui luoghi di culto alla condivisione degli spazi di preghiera.

Altri studi perseguono l’analisi delle relazioni tra pianificazione urbanistica e religioni ma osservano realtà diverse da quella islamica. In primo luogo segnaliamo la ricerca condotta nell’area di Toronto da Agrawal [2008], che indaga il ruolo della fede nella costruzione dell’identità dei quartieri residenziali e dei luoghi di culto nelle relazioni di vicinato. Tale attenzione verso le relazioni tra fede, luoghi di culto e quartiere etnicamente connotato è condivisa in contesto inglese da Flint [2010] e da Munoz [2011]. Altri tentativi rimarchevoli sono quelli di Siemiatycki, che compara i conflitti originati dalle pratiche di costruzione di un quartiere ebraico negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Canada [2005], di McNeill, che analizza le sovrapposizioni di interessi missionari e di legittimazione politica negli interventi urbanistici avvenuti a Roma in vista del Giubileo [2003], di Elmore, che studia le pratiche di estetizzazione delle tradizioni religiose nell’Himalaya, concentrandosi sul mutare dei modelli urbani e sul ruolo dei media quali agenti della trasformazione degli spazi sacro [2008]. Uno studio innovativo è quello di Connell [2005], il quale sviluppa un’analisi intorno alle relazioni tra suburbanizzazione, proliferazione delle mega-church e trasformazione della liturgia verso modalità comunicative post-moderne.

Negli ultimi anni, grazie ai lavori condotti dai geografi Beaumont e Cloke, è emersa una prospettiva originale, che indaga il ruolo pubblico dei movimenti di matrice religiosa nei servizi sociali – definite Faith-Based Organization (FBO). Seppur coerente con lo sviluppo disciplinare qui tracciato, rivolto da un lato alle intersezioni tra sacro e secolare e dall’altro ai modi in cui il religioso trascende le pratiche cultuali e la teologia delle religioni istituzionali, questo orientamento suggerisce una relazione tra organizzazioni religiose, motivazioni religiose e politiche urbane molto diversa da quella proposta negli studi presentati. Se infatti si è finora trattato delle religioni nella costruzione della città materiale e della pianificazione urbanistica come strumento di mediazione tra soggetti religiosi e istituzionali, queste ricerche considerano invece le stesse attività intraprese dagli attori religiosi come strumento di governo del territorio. Stimolate dal declino delle politiche di welfare pubblico e dall’apertura all’associazionismo riscontrata nei contesti istituzionali orientati verso posizioni neoliberali, le FBO rappresentano per questi autori una delle possibili incarnazioni del post-secolare nell’ambito urbano e una delle più proficue occasioni di incontro interconfessionale [Beaumont 2008; 2010; Cloke 2011]. Per quanto distante per impostazione teoretica, lo studio di Garmany [2010] si mostra altrettanto attento alle relazioni tra organizzazioni religiose, fede e politiche urbane: nel tentativo di applicare le nozioni di governabilità e potere pastorale forgiate da Foucault allo studio dei tentativi compiuti dalle chiese nelle favelas di Fortaleza di mitigare violenza e criminalità diffusa, il geografo avanza una interpretazione, complementare a quella sociologica, riguardo all’avanzare delle religioni carismatiche come risposta al declino della Teologia della liberazione.

Ave Maria Town: la geografia delle religioni nello sprawl

L’ultima sezione di questo articolo è dedicata alla presentazione del caso di Ave Maria Town, new town progettata nel 2005 e tuttora in corso di edificazione nella Collier County, sudovest della Florida. Salita agli onori della cronaca in ragione della sua dichiarata ispirazione confessionale e sostenuta da teologi neocon quali Richard Neuhaus e Michael Novak, il piano urbanistico della cittadella consta di oltre 11.000 edifici residenziali e di un campus universitario destinato alla Ave Maria University, in una lottizzazione di oltre 5.000 acri. Il clamore mediatico suscitato da questo progetto era legato alle dichiarazioni di intenti del suo fondatore, Tom Monaghan, il quale ne aveva pubblicamente affermato il carattere integralista: la città – così si leggeva sui giornali – ambiva a diventare un’oasi rigidamente monoconfessionale e libera da omosessuali e da coppie di fatto, una enclave in cui le farmacie non avrebbero venduto anticoncezionali e i mezzi di comunicazione sarebbero stati filtrati al fine di bandire la pornografia dai propri confini. Il progetto di sviluppo era descritto come una sperimentazione urbanistica e sociale capace di rispondere alla domanda di identificazione, comunitarismo e separazione residenziale su base religiosa. Nel racconto giornalistico poco rilievo avevano le caratteristiche e la storia del territorio in cui la città veniva impiantata: le Everglades così come il contesto legislativo ed istituzionale erano ignorati e ridotti a mera scenografia; persino la localizzazione risultava incerta, e oscillava tra la «piccola comunità di Naples» e la metropoli di Miami.

Con riferimento ai suggerimenti di Flyvbjerg [2006], ho analizzato Ave Maria Town come un caso insieme estremo e paradigmatico: in altre parole, un caso capace di porsi come paradossale rispetto alle opinioni comuni intorno a cosa siano (e cosa dovrebbe essere) la religione e il sacro – e cosa una città e uno spazio sacro – ma allo stesso tempo emblematico, rappresentativo di una specifica incarnazione locale del religioso. Soprattutto è un caso complesso, e cioè una narrazione che richiama in sé una ampia parte della pluralità di teorie e prospettive fin qui richiamate ma che proprio per questo non può essere facilmente piegato ad una generalizzazione troppo ampia [Flyvbjerg 2006, 237-241]. Per ragioni di spazio e di chiarezza non potrò che proporre in via sintetica quanto altrove illustrato per esteso [Carta 2010], per richiamare alcune criticità alla luce dei principi finora discussi.

Il progetto fa capo a un gruppo, la Ave Maria Foundation, che propone come strumento di governo del territorio una concezione di giustizia sociale basata su un’interpretazione specifica del cattolicesimo e su un apprezzamento teologico dell’economia di mercato [Felice 2006]. Tale istanza riceve impulso dal contesto territoriale col quale dialoga. Gli obiettivi del gruppo religioso e dell’amministrazione pubblica si saldano indissolubilmente: il gruppo religioso mira a dare luogo a una comunità locale che rappresenti i propri principi e valori costitutivi, nonché a finanziare attraverso la speculazione immobiliare la propria azione morale; l’amministrazione pubblica intende riqualificare un’area rurale in declino, diversificare il mercato immobiliare con una città compatta e contribuire all’innalzamento dei valori immobiliari in una zona degradata del proprio territorio. Queste due spinte trovano reciproco sostegno nell’elaborazione del master plan di Ave Maria Town e collante in pratiche di pianificazione urbanistica di tipo neoliberista. In particolare, gli intenti di giustizia sociale avanzati da gruppo religioso e amministrazione pubblica riguardano la disastrata comunità rurale di Immokalee, residenza di decine di migliaia di clandestini impegnati nei lavori nei campi [Bowe 2007], che si vorrebbe coinvolgere in un’operazione di valorizzazione e recupero nonché di trasformazione del mercato del lavoro. Per la geografia delle religioni tale realtà può essere illustrata da un’ampia pluralità di paradigmi interpretativi, ma in questo caso ci limitiamo a suggerire le relazioni tra spazio urbano e definizione dell’identità comunitaria.

Lo spazio abitativo della new town risulta essere una rielaborazione dei due modelli urbanistici dominanti nell’area, e cioè da una parte quello delle «Common Interest Development» e dall’altra il New Urbanism. Si tratta insomma del tentativo di adattare creativamente i principi spaziali delle comunità residenziali dello sprawl dell’area di Naples, basate sulla prevalenza di abitazioni di tipo unifamiliare e su un ampio ventaglio di facility offerte ai propri residenti (campi sportivi, un parco acquatico, laghi artificiali e cul-de-sac), a istanze di estetizzazione di tipo neo-tradizionalista per accogliere nuove tematizzazioni di matrice religiosa [Baker 2005; Jacobsen 2003; Bess 2003]. La centralità nel disegno urbano e nelle gerarchie volumetriche è attribuita all’edificio di culto, fatto che sottolinea uno spostamento dalla consuetudini del paesaggio religioso statunitense verso una mimesi delle tradizioni urbanistiche dei paesi mono-confessionali europei [cfr. Zelinsky 2001; Berger, Davie e Fokas 2010]. Le polemiche a cui ha dato origine la notizia della sua edificazione hanno spinto i suoi promotori a negare il carattere confessionale dell’impresa e a limitare i riferimenti al cattolicesimo alla sola università e alle funzioni celebrate nella chiesa, una volta ottenuta dalla diocesi la consacrazione. Le pratiche di semantizzazione degli spazi collettivi, operate da costruttori e residenti, spingono ad ammettere nell’ambito della ricerca altri elementi. La dimensione religiosa avvolge infatti diversi piani: in primo luogo la toponomastica, segnata dai richiami alla tradizione cattolica; in secondo luogo le attività commerciali a ridosso della chiesa, che reiterano la visibilità della rappresentazione cattolica e la trasformano in strumento per comunicare e illustrare l’identità condivisa. La creazione dell’identità territoriale risponde alle istanze di competizione nel mercato religioso: da un lato le autorità religiose della comunità hanno tentato a più riprese di differenziarsi da altre comunità cattoliche, definite come troppo permissive, per avvicinarsi a una religiosità austera e intransigente – simbolizzata ad esempio dall’adozione del rito tridentino; dall’altro si ricorre a logiche di marketing già sperimentate nelle comunità protestanti, attraverso la tematizzazione del motivo religioso nel disegno urbano e nel merchandising.

Il gruppo religioso opera insomma come un gruppo imprenditoriale, in una città in cui «the neo-liberal erosion of publicy owned or publicy maintained spaces, together with the increasing surveillance and ejection of undesiderable social groups within them, has redefined the principle of free association as an intragroup activity rather than a gathering of strangers around shared pleasures» [Amin 2006, 1019]. Il caso rappresenta il tentativo di adeguare una tradizione millenaria al linguaggio della città post-moderna e di operare negli spazi attivati dall’apertura alle religioni come attori sociali insita nella condizione post-secolare. Sintomatico di una trasformazione ontologica del religioso e prodotto di una teologia politica capace di dialogare con la società contemporanea, esso indica anche una nuova serie di problematiche a cui tale condizione può condurre, e cioè nuove derive carismatiche, nuovi conflitti tra differenti e contrastanti tradizioni legali, nuove forme di frammentazione sociale [Bottici 2009; Rosati 2010; Ferrara 2009]. Se è evidente che le religioni e le associazioni religiose possano offrire un contributo positivo alla società nel suo complesso, specie per quanto riguarda il raggiungimento di obiettivi comuni di giustizia sociale [Cloke 2011], il caso di Ave Maria Town – peraltro minato nei suoi obiettivi e nella sua efficacia dalla gravissima crisi del mercato immobiliare, originata per l’appunto da un approccio neoliberalista al governo del territorio – dimostra che non sempre tali contributi sono di carattere progressista e che non sempre possono essere legittimamente imbracciati dall’amministrazione pubblica [Cladis 2008]. Il dibattito nelle scienze sociali intorno alla condizione post-secolare è insomma appena cominciato, e la geografia delle religioni può offrire nuovi spunti di dialogo tra dimensione analitica e normativa.

Conclusioni

La rassegna presentata non coglie che alcuni aspetti dell’attuale ricchezza della geografia delle religioni. Con questo articolo si è cercato di sottolineare alcuni indirizzi prevalenti, consci delle difficoltà nel cernere un corpus ricco in un campo, quello degli studi religiosi, che poco si presta a sistematizzazioni e a trattazioni sintetiche. Si è tuttavia creduto nella utilità di rendere conto della vitalità della geografia delle religioni e di sostenere la dignità di tale ambito rispetto ad altri più consolidate regioni disciplinari. La necessità di un dialogo tra geografia e studi religiosi costituisce il più stringente suggerimento avanzato, un reclamo che ci si auspica possa essere presto accolto dalla comunità accademica italiana, certamente dai geografi ma anche da fondazioni e istituzioni. La scarsità di contributi di rilievo della nostra geografia alla pubblicistica internazionale, così come la quasi totale assenza di ricerche empiriche condotte in Italia, appare sorprendente se si considera il ruolo svolto della religione e delle istituzioni religiose nel nostro paese. Certo innumerevoli sarebbero i casi e le realtà da indagare, non solo con taglio storicistico ma con la speranza di cogliere i mutamenti di oggi e di domani. È stato spesso detto che la modernità porta con sé un paradosso, e cioè il contemporaneo processo di uscita dalla religione e di affermazione delle identità religiose nel pubblico, come valore identitario e costrutto politico. Quale contesto può raccontare e spiegare questi fenomeni se non il paese dai mille campanili? E quale disciplina se non la geografia?

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DOI 10.1473/quadterr01 Storicamente 2011

Published: December 8th 2011

 

 

 

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