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Rappresentare la territorialità
a cura di Paola Bonora
Logiche cartografiche
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Scritture dell’Impero: dalla critica della carta al critical GIS
Federico Ferretti
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Abstract
In this paper, we discuss the international debate about the critical approach to cartography
and new technologies in digital geography. We start considering the intellectual legacy of
B. Harley and D. Woodward in constituting an autonomous disciplinary statute for the history
of cartography, whose scholars are now working on the Imperial
map. How do these studies relate with the Critical
Gis and the new geographical web-technologies? We try to answer analysing a
corpus of recent articles about all this matters. Finally, we suggest that geographers and
historians of cartography are now sharing a critical method that considers both old and very
recent cartographic outputs as historically and culturally constructed objects, allowing new
linkages between their disciplines and fields like postcolonial and gender studies.
Introduzione: nuovi sviluppi
Alcuni anni fa proponevamo una lettura generale di Brian Harley, uno dei primi autori che
abbiano lavorato a uno statuto disciplinare della storia della cartografia al di fuori di una
visione «positivista». [Ferretti 2007a] Dopo aver applicato alla critica della cartografia
moderna gli strumenti filosofici del post-strutturalismo mutuati da autori come Michel Foucault
e Jacques Derrida, il suo lavoro è entrato in contatto col più generale dibattito sulle
«geografie postmoderne» [Minca 2001]. La successiva critica del GIS, inaugurata proprio con
un’iniziativa partita da Harley e da John Pickles, ha dato origine a un ambito di ricerca poi
definito Critical GIS, già presentato in questa rivista
[Ferretti 2007b].
Nel frattempo i contributi su queste problematiche hanno continuato a uscire con una
sorprendente vivacità, soprattutto sulle riviste anglofone. Questa letteratura forma ormai un
corpus di una certa importanza: negli ultimi vent'anni sono usciti più di un centinaio di
articoli e volumi collettanei inerenti al dibattito sul GIS e le nuove tecnologie, un materiale
che auspichiamo possa essere trattato più approfonditamente da tesi o monografie specifiche.
Negli ultimi anni l'avvento del GIS qualitativo, del GIS partecipativo, del GIS di
genere, sembra avere ristretto il fossato che aveva diviso i «geografi critici» dai «tecnici»: quanto i due ambiti si sono realmente uniti? E riguardo al metodo della decostruzione nello
studio della cartografia moderna come si è evoluto il dibattito dopo la morte non solo di Harley, ma di David Woodward (1942-2004), coautore del monumentale progetto della History of Cartography? Quali legami infine fra questo ambito e la
riflessione sulle più recenti tecnologie?
Imperi
senza
eurocentrismo
Il lavoro di Harley ha suscitato critiche da molte parti, non esclusi gli stessi geografi
che considerano la critica del documento cartografico un fatto strategico, per i quali
decostruire la carta non è sempre sufficiente a «mettere in discussione la natura e la logica
dell'immagine cartografica stessa» [Farinelli, 2007, 37] come altri hanno fatto nella storia
della geografia.
Nondimeno, Harley è considerato un caposcuola, «a leading figure in twentieth-century
cartographic scholarship ( … ) the standard bearer of the critical reconfiguration of map
studies» [Edney, 2005, 1]. James Akerman e Matthew Edney hanno recentemente curato alcune
raccolte che riprendono, allargandole, le problematiche harleiane. Queste partivano dalla
critica della prospettiva eurocentrica e imperiale della cartografia moderna: le numerose
immagini, associate ad Atlanti e planisferi, dell’Europa come regina del mondo (vedi Figura 1.1) ne sono uno
degli esempi visivi più emblematici. Ora la Carta Imperiale sembra essere diventata una sorta di paradigma; nel volume The Imperial Map (vedi Figura 1.2), Edney
individua una corrispondenza biunivoca fra Carta e Impero nella storia moderna: l’una non si
spiega senza il secondo, il secondo non si rappresenta senza la prima. «We thus return to the
realization that there is nothing about a map per se that makes it an "imperial map". All maps
serve thoroughly ideological functions ( … ) "Empire” is a cartographic construction; modern
cartography is the construction of the modern imperialism» [Edney, 2009, 44-45].
Questa affermazione trova ulteriori argomenti nei saggi raccolti, che intendono dimostrare che il legame fra impero e carta non si limita agli imperi coloniali più studiati finora, ossia quelli delle potenze dell’Europa occidentale come Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Francia. Il primo esempio fornito è quello dell’Impero Russo. Nel saggio di Valerie Kivelson sono citate varie differenze rispetto a questo modello, ma anche similitudini, come l’uso della carta per rappresentare l’espansione russa verso est, simboleggiata dagli emblemi dell’Impero come la corona dello zar, e della Religione da imporre, in questo caso quella ortodossa. Un corpus di carte prodotte dal 1696 al 1720 da Semen Remezov, originale geografo ed erudito al servizio di Pietro il Grande, dimostra l’utilizzo di simboli come figure di santi per celebrare l’impresa imperiale: «Remezov creates an anthropomorphic (or angelomorphic) image of the empire» [Kivelson, 2009, 73]. Le entità fisiche che rappresentano la conquista sono qui le città, (Figura 1.3) punti russificati e cristianizzati all’interno di immensi spazi in buona parte ancora ostili, nei quali si raffigurano a volte scene di battaglie o di esecuzioni capitali. «Inscribing the violence of colonial conquest into the human and natural landscape of the map itself, Remezov draws a visual divide between land seized and brought to submission and land redeemed, Russianized, and converted to the true faith» [Ivi, 80]. Con un occhio alla presenza dall’altro lato dell’Eurasia di un potente impero rivale, quello cinese, rappresentato dall’incombere di una minacciosa Grande Muraglia (Figura 1.4).
Proprio alla Cina dell’Impero Qing (1636-1911) è dedicato il saggio di Laura Hostetler, che
dimostra come qui la cartografia non sia stata portata in toto dalle missioni gesuitiche:
queste hanno interagito con pratiche e saperi fortemente radicati nella cultura indigena.
Missioni e rilevazioni europee svolte sotto il controllo di funzionari imperiali
contribuiscono al «fundamental success of Qing mapping, its early modern character, and its
role in paving the way for the advent of the modern nation-state» [Hostetler, 2009, 100].
Dunque la Cina, come gli Stati territoriali europei della stessa epoca, arriva a riconoscersi
proprio dopo essere stata cartografata; anche in questo caso si tratta di un Impero, privo di
colonie oltremare ma funzionante secondo le stesse logiche di controllo territoriale di cui la
carta è rappresentazione e veicolo. Rappresentazione che pur non essendo eurocentrica è
comunque imperiale.
Un altro esempio interessante di questo allargamento degli studi è un saggio di Graham
Burnett sulle spedizioni statunitensi nel Pacifico nel XIX secolo. In una prospettiva
decisamente imperiale, (vedi Figura 1.5) perché basata sul controllo, diretto o
indiretto, dell’oceano, si analizzano gli atti di una corte marziale di fonte alla quale
compare un ufficiale reo di aver ottenuto, dalla nave che comandava, una misura notevolmente
difforme della lunghezza di un’isola rispetto a quanto rilevato dall’imbarcazione ammiraglia.
Dai documenti non risulta assolutamente contare la reale validità tecnica delle misurazioni
fatte, ma solo la loro conformità o meno alla procedura standard che era stato ordinato di
seguire. In sintesi è vero solo ciò che segue le regole: la cartografia deve far diventare
«the globe a real world and the real world a map for the strategies of empire» [Graham
Burnett, 2009, 187]. Una «disciplina idrografica» che si inquadra all’interno di una
«cartografia armata», affidata a navi da guerra che fra un rilievo e l’altro effettuavano
operazioni di «polizia» e spedizioni punitive contro indigeni non sufficientemente
sottomessi. Da questo punto di vista, dall’atto cartografico all’azione di guerra non
passa nessuna differenza dal punto di vista disciplinare.
If, as has been suggested, colonial maps were drawn in blood in the age of empire,
hydrographic surveys were inscribed in the smoke and thunder of naval guns, as elaborate
cannonades sounded and choreographed squadrons of disciplinated men ran encircling maneuvers
around distant islands (…) By doing so, these men made the world into a map, pausing only now
and again to load their cannons with actual shot, and to reinforce the strategies of empire
even more directly. [Ivi, 245]
Dal punto di vista della rappresentazione del mondo nel suo complesso, un altro geografo recentemente scomparso, Denis Cosgrove, afferma che anche i prodotti cartografici presentati come critica dell’eurocentrismo, ad esempio il planisfero di Arno Peters, risentono della loro ideologia di partenza, in quel caso un certo tipo di terzomondismo, accostandosi per alcuni aspetti alle deformazioni dei prodotti di cui vogliono essere l’alternativa.
We may have noticed the Mercator projection’s enlargement of Greenland at the expense of Australia, or have been struck by the by the unfamiliarity of Arno Peter’s equal-area world-map that claims to give the poorer part of the world due prominence by hanging the continents like a line of overstretched laundry. But for the most part we take for granted the authority of a modern world map as a scientific document [Cosgrove, 2007, 63].
Il problema insomma non è, come diceva Peters, la proiezione di Mercatore, ma la natura di
oggetto socialmente e politicamente costruito del documento cartografico, sempre centrato
sulle intenzioni e sulla cultura di chi lo produce, salvo presentarsi come documento
«scientifico», dunque «veritiero». Come sintetizza Edney, si ritorna al problema di partenza,
ossia
the delusional nature of the promise of cartographic perfection engendered by detailed
mapping of extensive territories and, more recently, digital computers and satellite imagery.
We can now see that this perfection entails a significant redirection of the cartographic
impulse to control the world. Specifically, it configures maps to be records of the space of
the physical world (…) In other words, maps are not records of what each part of the world
actually is. Regardless of historical and cultural context, maps are careful images of what
people have wanted the world to be. [Edney, 2007, 156].
Verso un Gis qualitativo?
Partendo dalla citazione di Edney ci possiamo collegare all’altro aspetto del dibattito,
quello della valutazione dell'apporto delle nuove tecnologie in ambito cartografico. E ’
proprio sulla promessa della «perfezione cartografica» che si era centrata la più antica
critica del GIS, che gli attribuiva la mancanza di una riflessione critica sia dal punto di
vista dell'epistemologia sia di quello dell'etica. Come si diceva questa critica ha
stimolato negli anni successivi la sperimentazione di un GIS «eterodosso» .
The move from an orthodox to a heterodox GIS should broadly parallel the recent history of
geography. That is, geography is now a heterogeneous discipline unbound by its once
imperialist designs (...) to a variety of epistemological and ontological entry points for
research and knowledge production. Might GIS not follow a similar path? Let us aim to produce
a GIS in the image of geography itself: diverse, multiple, dynamic, interdisciplinary, and
heterodox. [St Martin e Wing, 2007, 246]
Il primo ambito nel quale si é cercato di «democratizzare» la tecnologia è stato quello del
GIS partecipativo, o Public Participatory GIS (PPGIS), «an attempt to utilize GIS technology
in the context of the needs and capabilities of communities that will be involved with, and
affected by, development projects and programs. Participatory GIS draws on the diversity of
experiences associated with 'participatory development' and involves communities in the
production of GIS data and spatial decision-making» [Abbot et al., 1998, 27-28]. Studi come
quello citato si chiedono in effetti se il GIS partecipativo non sia una contraddizione in
termini. Le più studiate esperienze di PPGIS hanno avuto luogo in Paesi del Sud del mondo dove
esiste evidentemente un digital divide per cui, per quanto i software GIS possano diventare
open source e dotati di interfacce semplici, una grande parte della popolazione resta comunque
esclusa dalla disponibilità di computer efficienti, di connessioni veloci, di
un’alfabetizzazione informatica. Basti pensare che anche nei Paesi sviluppati la disponibilità
domestica di una connessione veloce riguarda ancora oggi meno della metà degli abitanti e si
capirà come molte di queste esperienze raggiungano in realtà solo delle élite.
In caso contrario si tratta evidentemente di iniziative proposte dall'alto, come mostra l
'aneddoto dell'ingegnere sudafricano Duncan, che ha dovuto giustificare al popolo degli
Isthumba un raid di polizia avvenuto dopo un progetto GIS, a cui questi indigeni avevano
partecipato fornendo dati territoriali che difficilmente un ricognitore esterno avrebbe potuto
procurarsi. «A GIS turns local knowledge into public knowledge and out of local control. It
can be used to locate resources and development needs, or merely to extract more taxes and to
increase control from the outside. The people of Isthumba village used the GIS to get latrines
and a postal service, but they are now on the map and will have to deal, in the future, with
other consequences of this» [Ivi, 29]. Si torna in questo senso al problema di un GIS «dalla
parte dei ricchi» .
Gli ultimi interventi, come quello di Christine Dunn, osservano comunque che il successo di
diverse esperienze, nonostante i problemi sottolineati, tiene aperte interessanti prospettive:
«In devising prospects for an alternative framework for the next wave of Participatory GIS
there is also an ongoing need to consider the optimal degree of coupling, both in terms of
people and practice» [Dunn, 2007, 631].
Un altro ambito di sperimentazione eterodossa è stato quello del «GIS femminista». In
origine molte geografe avevano contestato il GIS come erede dello sguardo dominante e
colonialista della cartografia e come disciplina non a caso dominata in un primo momento da
uomini. «In step with feminist critiques of science and geography, post structural and
postcolonial authors also contend that knowledge is situated and implicated in the production
of social power» [Pavlovskaya, 2007, 590]. Poi, varie applicazioni del GIS per la mappatura di
ricerche sociali (Figura 1.6) delle geografe femministe, anche su aspetti della salute femminile
[Mc Lafferty, 2005], hanno allentato questo divide di genere. Ora, «geospatial technologies
play an increasingly important role in the rewriting of social realities via critical
epistemologies including feminism» [Pavlovskaya, 2007, 601].
Ci sono state anche esperienze più radicali nel senso della «collisione di epistemologie».
Il GIS si è confrontato con la queer theory (ambito degli studi di genere che mette
in discussione la rappresentazione binaria dei generi stessi) nella ricerca di due geografi
che lo hanno utilizzato per una mappatura (Figura 1.7) dei luoghi storici delle comunità lesbo-gay
di Seattle. L’idea di queering the map parte dunque come una provocazione, la sfida del
rappresentare il non rappresentabile: «Given that the map project was guided by a queer
epistemology and ontology, the project’s constitutive politics necessarily reflected a process
of negotiation and compromise with almost life-like forms of positivism, realism, pragmatism,
and Cartesian rationality that insinuated themselves into the algorithms, hardware, and
ongoing interpretation of our map production» [Brown e Knopp, 2009, 48]. I risultati positivi
di esperienze di questo genere incoraggiano l’idea di insistere nella direzione di impieghi
eterodossi della tecnologia.
La questione del «GIS qualitativo» resta comunque problematica e discussa. Un recentissimo
contributo di Agnieszka Leszczynski affronta il problema del cosiddetto Philosophical Divide fra l’ambito della geografa «umanistica» e
quello del GIS. La prima, aderendo in larga parte allo stesso presupposto post-strutturalista
di Harley, tende ad anteporre all’ontologia l’epistemologia: in breve, prima di decidere cosa
conoscere, bisogna definire i presupposti della conoscenza. L’ambito delle tecnologie, invece,
è più centrato sull’ontologia, nel senso che tende a stabilire lo statuto dei suoi oggetti
prima del proprio. «It is in this way that I argue that critical-theoretic geography and
GIScience are separated by a trenchant philosophical divide that involves competing
metaphysical conditions under which commitments to particular conceptions of the world are
expressed» [Leszczynski, 2009, 360].
Questo si traduce nell’individuazione di un universo definito «infologico», ossia
l’informazione verbale e scritta, e di un universo «datalogico», condizionato dal supporto
digitale. Fra questi due mondi esiste un confine, quello della formalizzazione che ogni
informazione deve subire per poter essere processata in un sistema informatico come il GIS.
«Moving from the infological to the datalogical in this way entails crossing the
conceptual-formal boundary; doing so, however, requires a mechanism—formalization—for
translating between the conceptual and the formal» [Ivi, 358]. In altri termini, se devo
rapportare a un territorio dei dati statistici espressi sotto forma di numeri o classi
discrete, posso sfruttare in maniera ottimale le potenzialità di un GIS; se invece questi dati
si presentano ad esempio sotto forma di interviste discorsive, per poterle elaborare devo
attraversare questo formalization boundary traducendole in
una forma più o meno «quantitativa», il che implica un intervento arbitrario.
L’autrice conclude che resta questo «limite quantitativo» con cui si sono dovute confrontare
le esperienze «ibride», ferma restando le legittimità di entrambi gli ambiti di ricerca. «The
inconsistencies experienced by critical GIS scholars when attempting to straddle the
philosophical divide demonstrate that hybridity does not replace—or make seamless—qualitative
and quantitative practices» [Ivi, 362]. Con la necessaria consapevolezza, da parte di chi si
occupa di studi culturali e sociali, che «GIS data structures and cartographic representations
tend to portray as “fixed” that which is fluid, that GIS require an inevitable dependence on
numbers, because they are digital environments, and that problems of unequal access to
information and technologies persist» [Elwood, 2009, 5].
Sfumare i confini: Web 2.0, Neogeography e VGI
Si parla negli ultimi anni di “neogeografia” come di un ambito che sfuma il confine fra
produttori e utenti e fuoriesce dall’ambito ormai “tradizionale” delle classiche applicazioni
GIS. «Neogeography is one term that has emerged to describe a set of Web 2.0 techniques and
tolls that fall outside the realm of traditional, proprietary GIS such ArcGIS. Neogeography is
bringing traditional cartographic GIS skills to the masses» [Schuurman, 2009, 571].
Proprio da un esempio che riguarda la storia delle scoperte geografiche in età moderna
nascono le definizioni di «geografia volontaria» e di VGI (Volunteered
Geographic Information). Michael Goodchild parte dalla definizione di «America»
data nel 1507 in una carta di Martin Waldseemüller (Figura 1.8) al continente da poco scoperto: se
nei secoli successivi il monopolio della nominazione, in geografia, è stato rigidamente
assunto da istituzioni statali e militari, ora le ultime risorse tecnologiche starebbero per
alcuni aspetti riportando la disciplina ai tempi “eroici” delle scoperte.
The events of 1507 provide an early echo of a remarkable phenomenon that has become evident
in recent months: the widespread engagement of large numbers of private citizens, often with
little in the way of formal qualifications, in the creation of geographic information, a
function that for centuries has been reserved to official agencies. They are largely untrained
and their actions are almost always voluntary, and the results may or may not be accurate. But
collectively, they represent a dramatic innovation that will certainly have profound impacts
on geographic information systems (GIS) and more generally on the discipline of geography and
its relationship to the general public. I term this Volunteered Geographic Information (VGI),
a special case of the more general Web phenomenon of user-generated content [Goodchild, 2007,
211].
Questo “movimento”, secondo Goodchild, ha l’effetto di “democratizzare” il processo di
produzione di informazioni geografiche già iniziato da pratiche come il mashing-up, ossia la rielaborazione da parte degli utenti di
immagini geospaziali fornite da Google Earth o Google Maps. La sua diffusione è inserita
nell’ambito del Web 2.0, definito come un superamento dell’originaria impostazione della rete
nella quale l’utente, detto client, poteva solamente
decidere cosa scaricare fra quello che gli veniva messo a disposizione dalla pagina, collocata
su un server. Ora sono sempre più gli utenti a partecipare. «By the early 2000s this ability
of users to supply content to Web sites had grown in sophistication to the point where it
became possible to construct sites that were almost entirely populated by user-generated
content, with very little moderation or control by the site’s owners and very little
restriction on the nature of content» [Ivi, 215].
In ambito cartografico questa possibilità è offerta ormai da diverse reti aperte alla
partecipazione degli utenti, come Openstreet, Wikimapia e Flickr. Questo secondo Goodchild si traduce in una forma di citizen
science che impiega “sensori umani” per la raccolta di dati che esprimono saperi
locali e pratici spesso ignorati dalle rilevazioni fatte per le carte istituzionali.
«OpenStreetMap is attempting to build a complete, open and free digital map of the world as a
collaborative effort largely by volunteers, and provides a very clear demonstration of what
can be achieved by NeoGeographers in an arena previously dominated by large, expensive central
mapping agencies such as the Ordnance Survey of Great Britain» [Goodchild, 2009, 86]. Un
esempio è quello delle carte dell’uso del suolo che non sono aggiornate come lo potrebbero
essere tenendo conto dei saperi degli agricoltori coinvolti nello sfruttamento dei suoli
medesimi.
Il problema ovviamente è quello dell’affidabilità delle informazioni raccolte e della messa
a disposizione del pubblico dei metadati, ossia tutte le informazioni sul come, quando e
perché è stata fatta una carta, indispensabili per permettere all’utente un approccio critico
al documento cartografico. Nel mondo di Internet, come si ammette nell’articolo, questo
aspetto è raramente curato. «Even such a popular service as Google Earth has no way of
informing its users of the quality of its various data layers, and it is virtually impossible
to determine the date when any part of its image base was obtained» [Goodchild, 2007, 219].
Goodchild si dimostra ottimista sulla possibilità degli editors di controllare l’accuratezza e l'affidabilità delle informazioni inserite, come sulla capacità di questi
sistemi di inserirsi negli standard geodetici in uso. Resta il problema della differenza fra
autorità e asserzione esemplificato dalla non corrispondenza, rispetto alle coordinate
internazionali, di alcune collocazioni riportate in Google Earth, spesso fonte delle
rappresentazioni VGI, la cui autorità presso il pubblico è ormai superiore a quella delle
agenzie cartografiche ufficiali.
At time of writing Google Earth’s imagery over the campus of the University of California,
Santa Barbara was mis-registered by approximately 20 m east–west. Further to the east in the
City of Santa Barbara the mis-registration was approximately 40 m east–west in the opposite
direction, and a swath approximately 60 m wide running north–south was missing from the
coverage. Any locations georeferenced from this imagery and incorporated into VGI will inherit
these positional errors, and if Google re-registers the imagery at a future date that VGI will
be clearly misplaced. In essence, Google has created a new datum or horizontal reference
system that is substantially different from the current North American datum, but which is
widely accepted because of the authority of Google [Ivi, 219-220].
Ma a questo punto dove risiede l'autorevolezza scientifica? E la necessaria imparzialità
che richiede la misurazione della terra di fronte a interessi contrapposti dimostrata dalla
storia della cartografia catastale? Forse alla fine il principale cambiamento portato dalla
«società in rete» è che lo Stato ha perso il monopolio della bugia cartografica? Visto lo
stato molto embrionale di tali sviluppi, il problema resta per forza di cose aperto.
Il problema della potenziale capacità intrusiva delle geotecnologie nella vita privata
degli individui è stato affrontato fin dall'inizio del dibattito. Nel 2005 Armstrong e
Ruggles ne forniscono una serie di esempi. Fra questi la dimostrazione che i risultati di
interviste rese anonime e presentate in una carta in formato dot raffigurante i punti
topografici corrispondenti alle diverse risposte possa essere agevolmente utilizzata per
ottenere informazioni personali sui partecipanti al test. Questa operazione è alla portata di
qualsiasi utilizzatore del GIS che si prenda la briga di operare un matching fra questi punti
e gli indirizzi corrispondenti. E'possibile in molti casi, con l’ uso degli elenchi dei
residenti o delle utenze domestiche, risalire anche alla loro identità.
Remote sensing technologies are increasing in resolution to permit the identification of
everyday objects and individuals (…) other geospatial operations can be applied to widely
available digital maps to uncover the identities of the mapped and to monitor their
proclivities. As the capabilities of geospatial technologies are not generally known and
understood by the public, many individuals will find it difficult to guard against unwanted
intrusions into their personal lives. Many will remain permanently unaware of the surveillant
power of geospatial technologies [Armstrong e Ruggles, 2005, 71-72].
Si potrebbe obiettare semplicemente che queste forme di controllo erano possibili anche
prima dei GIS. La differenza sta nella facilità con cui ora lo si può fare. Se devo collegare
alcune migliaia di punti sulla carta di una grande città ai rispettivi numeri civici ora lo
posso fare dalla mia consolle in pochi minuti, mentre prima avrei impiegato intere giornate di
lavoro per le necessarie ricerche.
Da alcuni anni hanno poi cominciato ad alzarsi voci preoccupate per il proliferare di
strumenti come Google Street View che permettono di
diffondere immagini di individui non consapevoli di essere ripresi. Jerome Dobson, lo stesso
che aveva in qualche modo aperto il dibattito con il suo articolo Automated Geography [Dobson 1983], ha coniato recentemente, assieme a Peter
Fisher, il termine Geoslavery per indicare la possibilità
teorica di operare a distanza un controllo coercitivo sui movimenti di un individuo.
«Geoslavery is defined here as a practice in which one entity, the master, coercively or
surreptitiously monitors and exerts control over the physical location of another individual,
the slave» [Dobson e Fisher, 2003, 47].
Le tecnologie che permettono pratiche di Human Tracking sono ormai, secondo gli autori dell’articolo, alla portata di tutti. I cosiddetti LBS
(Location Based Services), (vedi Figura 1.9) combinati ad
applicazioni GPS e GIS, sono offerti sul mercato a prezzi accessibili e pubblicizzati come
strumenti per controllare gli spostamenti di individui da tutelare, come anziani o bambini,
che tramite un bracciale, un chip o il semplice telefono posso essere in qualsiasi momento
localizzati, senza necessariamente sapere di esserlo. Il primo problema è come impedire un
abuso di tali strumenti da parte di padri oppressivi, mariti paranoici o dagli affetti da
tutte le patologie che può scatenare l’esercizio del potere su altri individui.
Human tracking systems, currently sold commercially without restriction, already empower
those who would be masters, and safeguards have not yet evolved to protect those destined to
become slaves. Current products freely exploit the GPS and other digital information offered
as a public good, but no government has yet established any specific statutes or regulations
restricting their use. [Ivi, 48]
La tecnologia permette in teoria forme di controllo e «geoschiavitù» che neppure Orwell
avrebbe immaginato. Un’altra domanda è: cosa produrranno questi sistemi in società
tradizionali oppressive? Gli autori affermano che il problema della geoschiavitù è già un
assunto che riguarda i diritti umani.
Geoslavery is a global human rights issue. In the United States, United Kingdom, and other countries with long traditions of personal freedom, the most severe abuses may be avoided through cultural constraints and future legislation. In most of the world, however, abuses will be inevitable. In some countries geoslavery may be the principle LBS use and will spell the end of any semblance of freedom. Traditional societies, especially, will face threats from inside and out (…) Once deployed the devices can be used in any number of ways to enslave laborers and extract a financial return. Forced laborers on plantations, for example, may never be able to hide or escape their bondage; giving a new means for unscrupulous masters to abuse workers. Child slaves may be forced to beg or steal on specified streets for specified hours with no chance of hiding away for a little rest, much less escaping for good. Sex slaves may be confined to brothels, street corners, and specified trysts with little possibility of seeking other employment or escaping to their home villages [Ivi, 49].
Il problema riguarda da vicino i diritti delle donne. Gli autori citano un caso che in quel
periodo aveva colpito l'opinione pubblica, cioè l’“esecuzione” in un villaggio turco di una
ragazza diciassettenne colpevole di aver “ disonorato» la famiglia per essersi recata al
cinema. Se i sistemi di human tracking diventassero disponibili in queste società, casi del
genere potrebbero moltiplicarsi.
Geoslavery is, perhaps first and foremost, a women’s rights issue. To illustrate, consider
the ultimate sanction used to control women in certain cultures. “Honor murders” occur when a
father, brother, or husband kills a female family member accused of “disgracing” the family.
Often the issue is location as well as behavior (…) Soon, an enterprising businessman in Sevda
Gok’s village may be able to purchase a central monitoring system (personal computer with GIS,
radio receiver, and optional transmitter) for less than $2000 and individual tracking devices
(GPS, radio transmitter, and optional transponder) for less than $100 per unit which can be
locked onto the wrists of every member of the village (women, children, and men) [Ivi, 50].
Simili braccialetti potrebbero essere usati in teoria non solo per il monitoraggio, ma anche per impedire ai controllati di oltrepassare un perimetro di confini stabiliti a piacere da chi controlla il sistema. E’ stato sperimentato su animali un sistema che tramite l’impulso di scariche elettriche all’uscita del “recinto invisibile” impedisce ai soggetti di oltrepassarlo. Questo è di per sé preoccupante: chi ha letto autori come Olivier Razac [Razac, 2000] sa che quello che viene sperimentato sugli animali non di rado arriva a essere applicato agli uomini. In quel caso l’oggetto era il filo spinato, inventato nel XIX secolo per recintare le mandrie di buoi e divenuto nel secolo seguente il triste simbolo dei lager, dei gulag e dei totalitarismi.
L’ultima domanda di Dobson e Fisher è proprio questa: nelle nostre società “occidentali” l’individuo è già controllabile tramite telecamere e innumerevoli tracce elettroniche (carte bancarie, navigazione in rete, telefonate e comunicazioni in genere). In Paesi terrorizzati dopo l’11 settembre dai fantasmi del terrorismo e ultimamente ossessionati dal problema della sicurezza, ci sono davvero gli anticorpi per evitare derive inquietanti? Ossia, «who knows how far hysteria may take us?» [Dobson e Fisher, 2003, 50]
Il problema della completa tracciabilità di persone e merci in un mondo che sembra applicare sempre nuove forme di compartimentazione dello spazio spesso non imposte “dittatorialmente” ma accettate in nome della sicurezza, come i filtraggi all’ingresso degli aeroporti e dei luoghi pubblici, viene oggi studiato dai geografi che lavorano sulle nuove forme, fisiche e simboliche, di segregazione spaziale e sulle relative forme di resistenza. [Lussault, 2009]
Crediamo di aver dimostrato che esiste un «filo rosso» che unisce l’analisi delle
rappresentazioni imperiali dell’età moderna a quella delle più recenti rappresentazioni
digitali del mondo. Questa continuità si esprime in particolare dal punto di vista
metodologico: strumenti quali la decostruzione e la lettura dell’oggetto cartografico come
socialmente, politicamente e culturalmente costruito sono ormai patrimonio disciplinare comune
della storia della cartografia e di ambiti come i postcolonial and
gender studies, i cultural studies, ecc.
Per quanto riguarda i geografi in generale, che si tratti di carte manoscritte di vari secoli fa o di complessi sistemi in grado di associare informazioni spaziali a enormi quantità di dati statistici, ci si continua attivamente a interrogare sul problema della differenza fra la terra e sue più accurate rappresentazioni. Questo pensiero critico, se non ha cambiato il mondo come volevano fare, da Humboldt a Reclus, i geografi dell’Ottocento, ha comunque fatto sì che le nuove tecnologie non siano più impiegate solo per la gestione dell’esistente, ma anche per la sua messa in discussione.
Abbot J. et al.1998, Participatory GIS: opportunity or
oxymoron?, «PLA Notes», 33.
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DOI 10.1473/quadterr01
Storicamente 2011
Published: December 8th 2011
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