Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora

 
Territori di progetto nella programmazione regionale
Sergio Conti
Carlo Salone

Abstract

Over the two last decades, the regional policies have increasingly met the need to foster the economic competitiveness of regional and local economies, in order to face globalisation challenges. However, these actions have privileged the direct competition, oriented to catch investment and consumption flows by improving the regional/local attractiveness, than the indirect one, which is based on the social and institutional interplay involving the regional/local actors.
The increasing relevance of the indirect competition brings back on stage the public sector, namely the various levels of territorial government. Yet, the most successful experiences in Europe demonstrate that this renaissance of the public guide in spatial policies is intimately linked to the involvement of local systems of actors and implies a ‘constructed’ idea of territory. This paper seeks to enlighten some features of this process, introducing the concept of multilevel governance and place-based policies as the basic building blocks of the regional policies.

Territorio, sviluppo e competitività. Rimandi concettuali

Sul fronte delle strategie di politica regionale, sia dal punto di vista della dottrina che da quello degli strumenti recentemente messi in atto, nei paesi e nelle regioni a sviluppo industriale maturo si è assistito al passaggio dalla competizione diretta alla competizione indiretta.

Tradizionalmente, la competizione diretta si fonda su strategie di supporto volte a catturare investimenti in entrata, politica dell’immagine, codificazione delle best practices, dove il successo nella competizione, che si ha nell’attrarre più di altri (imprese, organizzazioni, gruppi sociali, turisti etc.), diventa il principio di legittimazione della politica locale/regionale: ciò trascende ampiamente l’idea della condivisione e della rappresentanza, ovvero quella di un’organizzazione in cui l’enfasi è data dalla pluralità dei legami intersoggettivi. E’ stata questa, nei fatti, la strategia spesso interpretata dalle agenzie regionali e locali di sviluppo.

A questo proposito, abbondano nella letteratura specializzata “storie di successo”, che potrebbero costituire utili termini di riferimento. Tuttavia, il bilancio controverso o addirittura negativo di molte esperienze insegna che occorre evitare di trarre dall’eterogeneità dei casi concreti modelli operativi validi in qualunque contesto regionale e in qualunque fase storica. Ciascuna storia fa, in un certo senso, caso a sé, dimostrando che i meccanismi dello sviluppo territoriale non possono meccanicamente essere dedotti da un quadro teorico generale, come per esempio quello rappresentato dal Nuovo Regionalismo. In effetti, le diverse teorie che concorrono a formarlo – nuovo istituzionalismo, industrializzazione flessibile e knowledge-intensive, radicamento territoriale dell’attività economica, interdipendenze non mercantili etc. – non appaiono ancora inquadrate entro una visione coerente e dotata di una validità generale sulla base di evidenze empiriche ricorrenti, in altri termini in un paradigma à la Kuhn. Piuttosto, si tratta di un insieme eterogeneo di categorie che spiegano come alcune parti di un’economia regionale potrebbero funzionare e sulle quali si potrebbero fondare politiche di sviluppo territoriale efficaci solo a certe condizioni [Lovering 1999].

Nella competizione indiretta diventa invece centrale il governo del territorio, nei termini di mobilitazione dei diversi gruppi intorno a una strategia condivisa per il sostegno delle imprese coinvolte nel gioco della competizione, offrendo un insieme di condizioni localizzate che conferiscono loro un vantaggio competitivo. In questo senso parliamo di una sorta di proprietà transitiva, di vantaggio competitivo sostenibile, che è proprio dei territori che attivamente promuovono la competitività dei soggetti che vi sono localizzati. Se nell’economia “globalizzata” contemporanea, i sistemi territoriali locali sono sempre più tributari della capacità di intercettare e valorizzare i flussi finanziari, di conoscenze e di capitale umano, nondimeno le risorse locali diventano i fattori chiave della competitività e dell’attrattività. Dunque la competitività delle imprese non consiste soltanto nel saper sfruttare le economie di agglomerazione e i rendimenti crescenti, bensì nel partecipare a una mobilitazione dei sistemi locali nel loro insieme come attori dello sviluppo.

Non casualmente, le storie di successo che hanno segnato lo sviluppo locale e regionale in Europa negli ultimi anni hanno posto all’attenzione alcune lezioni generali:

- questi sistemi di successo non hanno perseguito improbabili nuove vocazioni, ma hanno qualificato e riqualificato tecnologie e saper fare storicamente radicati non solo all’interno delle imprese ma anche nei territori (learning regions, secondo la definizione codificata da Morgan, 1997);

- hanno perseguito l’integrazione (clusterizzazione) dei sistemi produttivi, fondando legami organizzativi relativamente stabili. La co-localizzazione si è rivelata nei fatti una componente decisiva del vantaggio competitivo (in quanto alla base dell’apprendimento collettivo);

- essi hanno realizzato politiche reticolari di assistenza tecnologica, gestionale e finanziaria, oltre che di dialogo fra gli attori (ciò che prevede la massimizzazione della collaborazione e dell’interazione a livello locale);

- infine, hanno operato alla luce di un’agenda politica condivisa e della presenza di istituzioni fortemente interventiste, capaci cioè di stimolare la formazione di gruppi di interesse che condividono un comune orizzonte normativo.

Ciò sottende, nel complesso, il riconoscimento unanime della centralità del territorio – dei suoi connotati materiali e, soprattutto, relazionali - unitamente a una critica serrata dei tradizionali quadri di riferimento territoriale (anche e soprattutto istituzionali), oltre che dei connessi strumenti di carattere regolativo.

Una nuova domanda politica

Con l’emergere della nuova divisione internazionale del lavoro è andato affermandosi un plusvalore costituito dall’ambiente, dalla società, dai saperi locali e dalle istituzioni – le economie esterne territoriali. Al di là dei processi maggiormente vistosi e conclamati (come l’esplosione dell’informazione, la concentrazione della crescita, la conseguente polarizzazione sociale e la rottura dei legami tradizionali di solidarietà) i processi di globalizzazione economica in atto producono conseguentemente nuove domande nei confronti delle politiche pubbliche. Fra queste rientrano:

- la necessità di infrastrutture di comunicazione adeguate, potenziamento dell’accessibilità interna ed esterna delle diverse aree;

- il sostegno allo sviluppo locale, conservandovi flessibilità e diversificazione;

- politiche di marketing urbano e territoriale;

- il sostegno dei processi di riconversione della base produttiva (aree industriali dimesse; aree ferroviarie; scuole, ospedali e altre strutture obsolete);

- la formazione continua della forza lavoro;

- il miglioramento della qualità ambientale;

- il trattamento dei problemi indotti dai fenomeni di esclusione sociale;

- l’intercettazione dei finanziamenti comunitari.

Si è dunque affermata unanuova domanda politica – peraltro in un quadro di risorse sempre più scarse – con conseguente modificazione delle modalità di gestione dei problemi pubblici e delle forme di governo: in generale, le grandi istituzioni pubbliche non sono di per sé in grado di adattarsi e di rispondere all’articolazione e alla moltiplicazione della domanda, in ragione soprattutto dei macchinosi processi di funzionamento stratificatisi nel corso del tempo (fra cui rientrano le forme “consolidate” di programmazione dello sviluppo e la stessa pianificazione urbanistica).

Se quanto sopra ricordato corrisponde al vero, va da sé che è necessario trascendere l’idea “troppo astratta” di un’economia organizzata per reti transterritoriali, o globali. Il rischio è quello di dimenticare che nelle reti (di qualsiasi genere queste siano) sono i nodi a connettere i fili, e che i nodi sono addensamenti stabilizzati di relazioni nello spazio.

Non solo. Le politiche di sviluppo “locale” riconoscono le dinamiche spontanee che tendono a generarlo e si pongono il compito di sostenerle. Il problema politico è quello di rintracciarle, tenendo conto che i meccanismi di interazione sociale sono diversi in ragione dei settori e delle dimensioni dei territori coinvolti. In comune essi sottendono tuttavia la presenza di attori che, rimanendo indipendenti, sperimentano possibilità cooperative.

L’orientamento politico si fonda su due idee chiave: anzitutto le politiche territoriali vanno indirizzate alla “liberazione” delle risorse economiche e culturali delle società locali, spesso latenti e non riconosciute. In secondo luogo, lo sviluppo si innesca con strategie di più attori, pubblici e privati, capaci di condividere e coordinare la progettualità.

Il nodo è l’inclusione, ovvero le condizioni che rendono il sistema – e quindi i soggetti – capace di autonomia. Il problema che si pone è quindi la costruzione di contesti istituzionali e di relazione in grado di riconoscere e valorizzare risorse spesso latenti. Le “nuove” forme di intervento politico, in Europa, ma anche in altri contesti continentali tendono al superamento delle logiche settoriali e gerarchiche, fondate sulla distribuzione di aiuti finanziari, in favore di politiche integrate, fondate su progetti per la produzione di beni pubblici locali, dove il territorio, attraverso i suoi attori, si riconosce come un “insieme”.

Il perseguimento di una capacità competitiva è nei fatti consequenziale, in larga misura, a forme di cooperazione e capacità di apprendimento altamente specifiche. Il contesto in cui ci si muove è dato dal fatto che la maggior parte dei sistemi produttivi locali non riesce a “rispondere” all’incalzare dell’innovazione tecnologica, organizzativa e finanziaria e a far fronte alla concorrenza internazionale. Nondimeno questi sistemi si presentano tuttora come un patrimonio di imprese e un modello socio-culturale che non possono essere ignorati, continuando a rappresentare la componente principale della nostra economia. Una superiore apertura (interazione con reti lunghe) non esclude che questi sistemi locali possano continuare ad usufruire delle esternalità di agglomerazione storicamente costruite.

Ne consegue, come vedremo, l’esigenza di riconoscere le territorialità attive, dotate di una specifica organizzazione e capaci di autorappresentarsi, e la cui identità è l’esito di un progetto che può generare valore aggiunto territoriale.

Il quadro europeo

Sin verso la metà degli anni novanta le politiche di sviluppo locale erano fondate in larga misura sulla dimensione regolativa del sistema locale, privilegiando le somiglianze con gli altri sistemi piuttosto che le differenze, finendo col perdere di vista le specificità culturali. Era, quello, un progetto “garantista”, in cui il locale assumeva legittimità descrittiva e al tempo stesso regolativa.

Il quadro è ora profondamente diverso: parlare di locale significa parlare di radicamento, identità territoriale, patrimonio storico-culturale. Non solo, il locale è ora assunto come un processo di costruzione (intenzionale) e non già come un dato: non esiste un locale predefinito cui si possa fare riferimento sulla base di delimitazioni naturali e storico-culturali (e men che meno amministrative).

Il quadro di riferimento comprende un grappolo di parole chiave ormai entrate nel bagaglio concettuale della dottrina ma, solo marginalmente, nella prassi politica. Per semplicità queste possono essere ricondotte ai due concetti fondamentali della coesione territoriale e dello sviluppo policentrico [su tutti si veda Camagni, 2001]: si consuma, sotto questa luce, il passaggio dalla città, quale “centro” di produzione e di controllo, il territorio quale sistema “multipolare” caratterizzato da una pluralità di “fuochi” portatori di specificità e identità [Dematteis e Janin Rivolin 2004]. La tesi, non priva di controverifiche [cfr. Veneri e Burgalassi 2010], è che il policentrismo rafforzi la competitività, fondandosi su agglomerazioni e cluster produttivi, garantendo la valorizzazione dei diversi sistemi locali (e dunque i loro “vantaggi assoluti”) e la riproduzione delle relazioni interne (ed esterne) alla regione – la coesione, in altre parole [1].

Quali politiche, dunque? L’approccio territoriale delle politiche europee ha avuto recentemente un successo rilevante, impensabile forse soltanto un decennio addietro. Non è un caso se, dopo l’esperienza fondativa ma essenzialmente simbolica dello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo, l’Unione si sia progressivamente orientata a considerare congiuntamente i problemi dello sviluppo economico e delle dinamiche territoriali, propugnando una “territorializzazione delle politiche”, come l’Agenda territoriale per l’Unione del 2007 testimonia assai bene.

Questo documento è verosimilmente anticipatorio di una profonda riforma della politica di coesione europea. Ma andiamo per ordine. Attualmente, la politica di coesione comunitaria è ritenuta un po’ a tutti i livelli (politico, economico, istituzionale) largamente insoddisfacente. Più in particolare avrebbe fallito nel contrapporre l’efficienza (politiche di intervento volte ad accrescere il reddito e la crescita) all’equità (politiche volte a ridurre le disuguaglianze e perseguire l’inclusione sociale), collocandosi peraltro in un contesto carente di pianificazione strategica. In questo quadro, dall’agenda coordinata da Fabrizio Barca [2009] possiamo trarre alcuni dei nodi critici maggiormente dibattuti. In particolare:

- la politica di coesione non è una politica di redistribuzione finanziaria. E’ infatti visto come inefficiente un sistema nel quale i paesi più ricchi contribuiscono maggiormente al budget dell’Unione e ne ricevono in ritorno una quota in ragione di regole amministrative;

- obiettivo della politica di coesione non è dunque la redistribuzione, ma il favorire il cambiamento istituzionale, combattere le inefficienze e l’esclusione sociale;

- la convergenza, in particolare la convergenza nel reddito pro capite, non è al centro della politica di coesione. La convergenza non è una condizione necessaria né sufficiente per il perseguimento dell’efficienza e dell’inclusione sociale e non deve essere usata come obiettivo politico della politica di coesione;

- l’unità di intervento della politica di coesione è il luogo, o la regione funzionale (ma su questo torneremo).

A tutto questo sono fondamento, tra l’altro, il World Bank Report on Reshaping Economic Geography e le relazioni OCDE sul “nuovo paradigma di politica regionale” (o “politica di sviluppo territoriale”), già sperimentata in varie parti del mondo e volta a ridurre l’inefficienza e la persistente esclusione sociale. La strategia proposta è «place-based, multilivello e volta a differenti tipi di regioni» [OCDE 2009]: ovvero politiche focalizzate sulle specificità (territoriali) delle risorse naturali e istituzionali, oltre che sul ruolo giocato dalle relazioni (materiali e immateriali) tra luoghi.

Non solo, le regioni non sono definite in ragione dei limiti amministrativi: le entità amministrative non sono unità di intervento, ma lo sono i sistemi territoriali in cui determinate caratteristiche di omogeneità funzionale si intrecciano con coalizioni di attori e istituzioni cementate da valori comuni e orientate da obiettivi collettivamente definiti. In questi sistemi il territorio è definito nei termini di concetto sociale, un’area continua/contigua al cui interno un insieme di condizioni sono favorevoli allo sviluppo. I suoi confini sono quindi altro rispetto ai confini amministrativi (anche se possono cambiare nel tempo) e diventano centrali, nel contempo, le agglomerazioni e le reti, entrambe forze motrici dello sviluppo.

Si parla inoltre di governance complessa, da accompagnarsi – è bene ricordarlo – alla semplificazione amministrativa (ciò che non preclude, se guidata, il rafforzamento della trasparenza nei confronti dei cittadini). Favorendo nel contempo un processo decisionale circolare, che dia protagonismo alle iniziative progettuali dal basso (i nodi del sistema policentrico) che devono necessariamente trovare sintesi in un livello di governo che sappia riassumere queste iniziative in un processo dinamico e costruttivo. Questo si legittima in base alla capacità di:

- consensuale adesione di un insieme di comunità locali a un comune programma di gestione dei problemi collettivi;

- rafforzare l’integrazione, la coesione sociale e la cooperazione interna ai sistemi territoriali locali in essere;

- coordinare i sistemi locali territoriali attraverso politiche di rete, tutelando e rendendo fruibili i beni pubblici presenti;

- costruire l’interfaccia comunicativa tra questa rete territorializzata e il più ampio sistema nazionale e internazionale.

Com’è noto, il dibattito politico è tuttora in corso ed è stato istituito un temporaneo Place-based Policy Group. In quella sede si sostiene, tra l’altro, come l’attuale politica di coesione, nonostante i suoi limiti, sia la base appropriata per l’implementazione dell’approccio place-based, a condizione che sia oggetto di una sua ampia riforma in grado di rinnovare alla radice le idee originarie dei padri fondatori. Destinatari dell’allocazione finanziaria saranno i luoghi (o le regioni funzionali). Siamo di fronte a una strategia di lungo termine il cui obiettivo è quello di ridurre la persistente inefficienza (sotto-utilizzo del potenziale territoriale, o del capitale territoriale, secondo una terminologia a noi nota) e l’ineguaglianza (quota di popolazione al di sotto di un dato standard di benessere), con particolare attenzione all’innovazione e al cambiamento climatico.

E’ un fatto che l’approccio place-based trascende il tradizionale dilemma del federalismo fiscale e costituisce nondimeno una politica complessa e rischiosa, perché esiste il pericolo di distribuire in modo errato le risorse e favorire la rendita a scapito dell’innovazione, sebbene essa appaia comunque preferibile a qualsiasi altra strategia alternativa che non faccia esplicito riferimento alla dimensione territoriale. Infatti, le politiche non territorializzate falliscono nelle strategie di integrazione degli interventi e assumono che il livello istituzionale superiore o pochi attori privati siano in grado di guidare i processi di sviluppo. La lezione della crisi in corso rafforza questa tesi.

Questi presupposti si sono concretizzati, nella seconda metà del 2010, nel Quinto Rapporto sulla Coesione, mentre nel primavera del 2012 si avrà l’European Strategic Development Framework. Nel 2013, infine, il percorso dovrà compiersi con la definizione del National Strategic Development Contract tra Regioni e Commissione.

La situazione italiana: un ritardo da colmare

Sul fronte italiano[2] si è assistito, in concomitanza con l’avvio dell’attuale ciclo di programmazione e di attuazione della politica di coesione, a un progressivo “rilassamento” dell’impegno politico e organizzativo del governo centrale, con sintomi di confusione e, soprattutto, caratterizzato dalla preoccupante assenza di un progetto complessivo, capace di guardare oltre alla mera capacità di spesa.

Ribadendo un dualismo istituzionale che accompagna almeno dagli anni novanta la partecipazione italiana al dossier delle politiche territoriali europee, a scala centrale i protagonisti della scena sono stati, da un lato, il Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione (DPS) e, dall’altro, la Direzione per il coordinamento territoriale (DICOTER), del Ministero dei lavori pubblici, poi delle Infrastrutture.

In verità, il periodo di programmazione 2007-2013 si era aperto, sia pure tra luci e ombre, senza un’apparente soluzione di continuità rispetto al precedente. La “Nuova politica di coesione” (così etichettata, forse con eccesso di licenza retorica, dai vertici di Bruxelles) poneva del resto, per la prima volta, agli Stati l’obbligo di dotarsi di propri “Quadri strategici nazionali” (QSN) di riferimento per l’elaborazione dei rispettivi programmi operativi (nazionali, regionali, di cooperazione territoriale trans-europea), in ottemperanza agli “Orientamenti strategici comunitari in materia di coesione” adottati dal Consiglio europeo (decisione 2006/702/CE).

Il DPS, migrato fra vari dicasteri nel corso delle tre ultime legislature per approdare al Ministero per gli affari regionali, ha inizialmente interpretato tale incombenza come rinnovata opportunità (impostata, a dire il vero, senza superare i limiti di metodo già denunciati in passato; cfr. Palermo, 1999) di confronto e di condivisione delle rispettive istanze fra i settori dell’amministrazione centrale e le Regioni, per l’occasione invitate a redigere propri “Documenti strategici regionali” (DSR). Dal canto suo, il Ministero delle infrastrutture ha partecipato all’operazione commissionando una serie di studi, forse carenti di una chiara direzione di metodo unitaria e condivisa, ma infine confluiti nella proposta delle “piattaforme territoriali strategiche” e nel loro approfondimento critico per temi generali e rispetto agli specifici contesti interessati [Ministero delle Infrastrutture 2007].

Sarebbe comunque ingeneroso sostenere che si è fatto molto rumore per nulla. E’ nondimeno fondata l’impressione che al moltiplicarsi delle iniziative da parte dei molti centri di potere – centrali e regionali – non abbia corrisposto un’effettiva e tangibile riduzione del divario di efficacia tra il nostro paese e quelli dell’Europa nord-occidentale. Ciò è ancor più vero se si considera la diffidenza, prima ancora culturale che tecnica, dell’attuale governo nei confronti della programmazione e il disinteresse storico per l’assetto del territorio, nei suoi multiformi aspetti.

Lo stesso livello regionale non può sottrarsi, nel nostro paese, a un giudizio severo di inadeguatezza rispetto alle acquisizioni ormai consolidate in ambito internazionale: le esperienze di progettazione territoriale integrata sono numerose, tuttavia, se si eccettuano gli strumenti di programmazione varati autonomamente dalle Regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia, esse si basano prevalentemente sui Programmi Integrati Territoriali promossi dal DPS per il Mezzogiorno.

Si impone, in ogni caso, il problema di una valutazione dell’efficacia di questi strumenti, attraverso indicatori “interni” ma anche riferiti alla programmazione regionale in cui essi s’inquadrano, e, soprattutto, la valutazione della capacità istituzionale degli organismi coinvolti nel processo. Questo dovrebbe costituire un capitolo rilevante di un esteso programma di analisi comparativa estesa ai diversi contesto regionali coinvolti.

La posta in gioco: nuove forme di governo dell’economia, dell’ambiente e del territorio

Nessun processo riformatore può ormai prescindere da un coinvolgimento che, partendo dal basso, si rivolga, in uno spirito partecipato, ai livelli più elevati di governo – un centro decisionale che sia contemporaneamente rappresentativo dei diversi centri decisionali originari, capace di rappresentare e dare sintesi alle scelte strategiche, di pianificazione e di controllo. Nel contempo, se l’introduzione di meccanismi di governance si ripercuote nella superiore complessità istituzionale, si rende per questo sempre più necessaria l’individuazione di forme di semplificazione del sistema legislativo (che garantisca peraltro la necessaria trasparenza dell’azione amministrativa verso i cittadini).

Il quadro che si sta delineando, in un mondo che appare sempre più “regionale” in termini di spazi economici in competizione e di livelli pertinenti della coesione sociale ed economica, sembra attribuire sempre maggiore rilevanza alla capacità di interpretare e governare i territori superando gli schemi della logica funzionalistica (i livelli, le competenze etc.). In esso si riconosce una dimensione dinamica e costruttiva della regione, che si esprime attraverso la consensuale adesione di un insieme di comunità locali a un comune programma di gestione dei problemi collettivi: comunità locali che, per il tramite di un sistema condiviso (di rappresentanza e identità istituzionale e politica) cercano di formulare forme di progettualità relative al proprio territorio di riferimento (o sistema locale territoriale) [Conti e Giaccaria 2009].

Implicitamente ciò porta a ridefinire le stesse regioni come luogo di una diversa e più complessa interazione e mediazione tra sistemi locali e tra sistemi locali e sistema globale. Il nuovo ruolo che le Regioni vanno assumendo a seguito delle riforme elettorali va giustificato e “riempito” con una profonda revisione concettuale delle sue funzioni e competenze (al di là di ciò che un’accezione semplicistica della “sussidiarietà” potrebbe suggerire). Detto in altri termini, la tesi è che la regione si legittima sulla base della capacità di:

- rafforzare l’integrazione, la coesione sociale e la cooperazione interna dei sistemi territoriali locali in essere, promuovere quelli potenziali e far rinascere quelli collassati;

- coordinare i sistemi locali territoriali attraverso la rete regionale di sistemi locali, tutelare e rendere fruibili i beni pubblici presenti;

- costruire l’interfaccia comunicativa tra questa rete regionale e il più ampio sistema nazionale ed europeo. Se riesce, in altre parole, a mediare il complesso rapporto tra dimensione globale e radicamento territoriale delle identità.

La riflessione sulle scale di riferimento delle dinamiche territoriali contemporanee hanno ormai fatto giustizia di una visione deterministica che “naturalizzava” la scala spaziale, interpretandola come un contenitore che “ospita” le condizioni, materiali e immateriali, dei fenomeni territoriali. Oggi prevale una concezione della scala spaziale come framework relazionale, in cui i processi sono l’esito dell’azione di componenti che si collocano a diverse scale spaziali [Marston 2000].

Per agevolare una lettura dei fenomeni che investono il sistema e porre le basi per l’allestimento di politiche territoriali efficaci, è però opportuno mantenere distinte due principali scale di riferimento delle dinamiche in atto:

- a scala interregionale le sollecitazioni più significative riguardano soprattutto l’impatto delle grandi vie di comunicazione, per cui il tema chiave è quello di una concertazione. Si tratta, in realtà, di un tema delicato, dal momento che si gioca a una scala territoriale cui non corrisponde alcun livello istituzionale;

- a scala regionale la dimensione degli attori territoriali – le città, i sistemi locali – appare di regola troppo modesta (salvo, forse, per alcuni sistemi metropolitani) rispetto alla dimensione delle sollecitazioni esterne, che in questo caso si riferiscono principalmente ai cambiamenti nei regimi competitivi dei sistemi d’impresa. Il paradigma “localistico” che dominava le strategie competitive nel ventennio che ci sta alle spalle non regge più di fronte alla “doppia concorrenza” (dall’alto da parte delle economie dominanti del pianeta e, dal basso, le economie a ridotto costo dei fattori) che si è resa evidente nei primi anni del nuovo secolo. Lo stesso vale per i servizi di elevato livello, come la cultura, la finanza, la sanità.

Per la scala regionale si suggerisce allora una prassi di coordinamento regionale, “filtrata” attraverso processi di integrazione spontanea o guidata a livello di Ambito (o di Quadrante territoriale). A questa scala si possono infatti riconoscere i caratteri storici e insediativi condivisi, comuni opportunità di collegamento infrastrutturale, reti interoperative in embrione o in potenza, reti di comunicazione parzialmente desuete che potrebbero diventare lo scheletro di sistemi potenziali. Si tratta di progettualità territoriali già in gestazione, proprio per le nuove sollecitazione cui i singoli territori sono sottoposti, ma ai quali non corrisponde ancora una visione strategica delineata, e tanto meno uno sufficiente consapevolezza diffusa.

Per l’insieme di queste ragioni, è possibile delineare due tipologie di progettualità:

- a regia regionale, per indicare quelle iniziative che manifestano portate e raggi d’azione che travalicano ormai ampiamente i confini regionali o che all’opposto implicano l’attivazione di coalizioni che esulano quasi del tutto dalla scala e che mobilitano attorno a esse più competenze regionali;

- a regia compartecipata, riconoscendo nei Programmi territoriali integrati la naturale evoluzione della programmazione negoziata e dei programmi complessi. Si tratta in questo caso di un insieme di azioni intersettoriali, strettamente integrate tra loro, che convergono verso un comune obiettivo di sviluppo del territorio e giustificano un approccio attuativo unitario. Tali azioni devono di norma essere connotate da una “massa critica” adeguata.

Si tratta, in sostanza, di pervenire a una politica regionale che preveda un governo multilivello, con forte enfasi assegnata ai territori, attivando un effettivo partenariato economico e sociale, sia nella diagnosi che nello stesso sistema di monitoraggio: una partecipazione attiva, in altre parole.

Sono, queste, delle assunzioni decisive nel momento in cui si va aprendosi una nuova fase di programmazione. Essa è peraltro gravida di rischi, noti già nel momento in cui si era avviata l’istruttoria per la politica regionale 2007-2013: il riferimento è dato anzitutto alla “resistenza” da parte delle amministrazioni pubbliche (istituzione regionale compresa) di adattare la propria prassi tradizionale – fondamentalmente settoriale – alla regola della destinazione territoriale; in secondo luogo è necessario ricordare la mancata coerenza fra programmazione ordinaria e programmazione aggiuntiva.

Programmazione economica e politiche territoriali

Almeno sulla carta, il Governo italiano ha da tempo provveduto, con l’adozione delle Linee guida per l’elaborazione del Quadro strategico nazionale per la politica di coesione 2007-2013, a porre le basi per la realizzazione della necessaria integrazione programmatica e finanziaria, individuando gli strumenti di attuazione: Intese istituzionali di programma, Accordi di programma quadro, oltre che il partenariato pubblico-privato e un nuovo modello di governance territoriale. Si aggiunga inoltre che esperienze di integrazione e territorializzazione dei fondi, alla luce dell’obiettivo di valorizzare il capitale di competenze e il capitale sociale hanno già coinvolto l’esperienza programmatoria di molte regioni italiane. Ciò presuppone, in particolare, forme diverse – e fra loro inscindibili – di integrazione.

  • Integrazione settoriale: l’interdipendenza dei fattori che costituiscono il vantaggio competitivo territoriale (componenti economiche e componenti strategico-decisionali) richiede una riduzione dei programmi regionali di settore, a favore di una più stretta correlazione tra le differenti azioni settoriali (opere pubbliche, infrastrutture, interventi settoriali).

  • Integrazione multi-attore: la prassi della governance multi-livello, sperimentata attraverso un learning by doing inevitabilmente caratterizzato da alterno successo negli ultimi anni, deve essere incardinata in una architettura dell’azione che, semplificando i ruoli regolativi dei diversi livelli di governo territoriale (la Regione anzitutto), sappia garantire le necessarie capacità di pilotaggio ai livelli superiori ma, al contempo, maggiori gradi di libertà ai livelli più prossimi ai territori. L’importanza delle sinergie a livello locale (pubblico-privato, centri di ricerca-imprese-enti locali) e tra i vari livelli di governo (Stato-Regione-enti locali) per la promozione di sistemi economici territoriali che basano la loro competitività sui servizi alle imprese, sui vantaggi infrastrutturali e ambientali.

  • Integrazione delle risorse: si tratta della componente più delicata del processo, e non soltanto perché evoca esplicitamente il nodo del cofinanziamento da parte dei privati; certo, quest’ultimo rappresenta una voce determinante, ma le esperienze passate di programmazione negoziata non sembrano avere dimostrato una particolare difficoltà nel reperire risorse finanziarie dagli attori non istituzionali. Problematico risulta semmai il coinvolgimento progettuale delle risorse private: le idee-progetto presentate per il cofinanziamento da parte del settore privato spesso seguono logiche esclusivamente solipsistiche e mostrano, in buona sostanza, di guardare alle iniziative di programmazione negoziata in una logica opportunistica.

Il sistema della governance e della valutazione è conseguentemente decisivo, prevedendosi partenariato pubblico-privato, cooperazione interistituzionale, trasparenza e scambio delle pratiche migliori. L’ipotesi che ne è seguita si fonda pertanto su:

- concentrazione delle risorse quale costante della progettazione, in attività materiali e immateriali;

- cooperazione fra università e imprese, investimenti nella conoscenza e nella ricerca: creazione di poli di eccellenza di adeguata massa critica, quindi concentrazione geografica tra organismi di ricerca pubblici e imprese, rafforzandone le possibilità di cooperazione (tramite soprattutto i servizi di trasferimento tecnologico, gli incubatori e i servizi connessi, l’assistenza tecnica e gestionale;

- diversificazione dell’economia con particolare attenzione alle aree rurali (es. turismo);

- rafforzamento delle capacità istituzionali, della qualità delle reti di partenariato;

- sviluppo della sinergia fra tutela dell’ambiente e crescita;

- sostegno e miglioramento dell’efficienza energetica e lo sviluppo delle tecnologie rinnovabili e alternative (eolica, solare, biomasse).

Territori di progetto

Se in Italia la “lezione” europea è stata sinora largamente disattesa, nondimeno si dispone, soprattutto sul fronte del metodo, di strumenti e categorie sufficientemente condivise che possono sostenere con forza una logica di programmazione e di pianificazione territoriale fondata esplicitamente sul riconoscimento e la valorizzazione dei sistemi locali territoriali. La messa in rete di questi territori è la base d’appoggio del policentrismo regionale e, nei fatti, di quello europeo.

Si è visto come l’Unione europea agisca come fonte di innovazione e i documenti comunitari rappresentino una sorta di quadro concettuale di riferimento. Nondimeno, gli effetti degli schemi territoriali europei sul dibattito e sulle pratiche di piano in Italia sono stati sinora pressoché nulli. Secondo una tradizione purtroppo consolidata, il livello nazionale è stato sostanzialmente inerte sul piano delle politiche territoriali, in contrasto con il compito istituzionalmente riconosciuto di definire le linee fondamentali di assetto del territorio nazionale. Gli unici temi che hanno sollevato l’attenzione dei governi nazionali nell’ultimo decennio sono stati quelli della modernizzazione infrastrutturale, interpretata come leva per la competitività economica e come volano per un’economia stagnante, secondo una visione stantia e de-territorializzata delle politiche pubbliche. D’altro canto, nella “nuova programmazione economica” l’identificazione congiunta di territori e progetti di trasformazione si è rivelata in realtà un obiettivo alquanto vago, di assai difficile implementazione [Cremaschi 2002].

Come abbiamo visto, l’idea di una coesione europea basata sul policentrismo sottende la formazione di reti infraregionali costituite da più sistemi urbani locali. Ne discende che il sistema policentrico europeo e la sua governance vanno pensati come una rete di reti. I nodi delle reti di livello gerarchico più basso sono i sistemi locali territoriali [Dematteis 2010]. E’ dunque a questo livello che si fonda la costruzione del policentrismo europeo: una efficace attivazione dei sistemi locali e delle loro diverse specificità è condizione necessaria per la coesione territoriale e per lo sviluppo dell’Europa e delle sue regioni.

Il problema non è pervenire a una “razionale” suddivisione del territorio regionale in unità geografiche di livello locale, ma esplorare e descrivere la geografia dell’azione collettiva (cioè di quella particolare risorsa che è la capacità auto-orgenizzativa locale). Questa non serve a disegnare la forma futura – e ideale – del territorio, ma a fornire una visione dinamica e processuale del grado di autonomia e innovazione dei diversi sistemi territoriali, nell’ambito di una regione consapevole del proprio ruolo politico [Salone 2010].

Da questo punto di vista, il capitale sociale ne costituisce una componente fondamentale. Come ricorda ancora Bagnasco [2003], non si tratta di una risorsa naturale data, ma di un insieme di regole, istituzioni, prassi, attraverso le quali una dotazione relazionale, fiduciario e comunitaria si attiva, si rende disponibile. Ciò che restituisce un ruolo alla politica, ovvero alla capacità dei soggetti di esprimere un meta-progetto che sia in grado di rendere visibili i vantaggi della cooperazione.

Ne consegue che un sistema territoriale è l’esito eventuale di un processo comunicativo tra comunità di attori e sistemi di strutture ambientali – un rapporto che può produrre identità e “luoghi”. Si tratta di un esito svincolato da ogni determinismo (fisico, storicistico, economicistico), ma connesso a componenti, segni, strutture ambientali che rimandano al territorio come a qualcosa di vissuto.

L’individuazione dei sistemi locali territoriali costituisce quindi il punto di partenza per la costruzione di effetti sinergici che, attraverso la messa in rete di sistemi locali autonomi, accrescano la competitività dell’insieme più vasto in cui sono inseriti (dell’insieme regionale, nel nostro caso).

Scenari possibili

Lo strumento dei Programmi territoriali integrati s’innesta pertanto in questo processo.

Si tratta di

«un complesso di azioni intersettoriali, strettamente coerenti e integrate tra loro, che convergono verso un comune obiettivo di sviluppo del territorio e giustificano un approccio attuativo unitario. Tali azioni devono di norma essere connotate da una "massa critica" adeguata. Questa definizione evidenzia due elementi: il concetto di integrazione progettuale [...], il riferimento territoriale del complesso delle azioni programmate» [DPS 2000].

Ricordiamo inoltre che essi prevedono coordinamento inter-istituzionale e azione transcalare. Eccezionalmente riguardano un comune, bensì un territorio indefinito istituzionalmente, ovvero da una proiezione del problema dell’occasione. In attuazione della strategia di Lisbona, la politica di coesione 2007-2013 assume alcune priorità, qui brevemente sintetizzate:

  1. investimenti nei settori ad alto potenziale di sviluppo e nei “motori di crescita e di occupazione”. Se il successo di questi investimenti dipende in misura crescente dallo scenario internazionale, esso discende altresì dalle condizioni di contesto, dalle identità, dalle cosiddette pre-condizioni allo sviluppo;

  2. una progettualità coerente e integrata, in coerenza con la dimensione di medio-lungo termine propria della strategia comunitaria. Ciò prevede la ricerca di sinergie e complementarietà fra i diversi fondi (FESR, FSE, FEASR, FAS ecc.), le altre politiche comunitarie, le risorse supplementari mobilitabili;

  3. il miglioramento del sistema della governance e della valutazione, prevedendosi partenariato pubblico-privato, cooperazione interistituzionale, trasparenza e scambio delle pratiche migliori (tutti fattori difficilmente evidenziabili attraverso le tradizionali mediazioni politico-burocratiche).

Ne consegue che per il successo degli obiettivi ricordati sono decisive:

- la concentrazione delle risorse, la quale dovrà rappresentare una costante del processo di progettazione, sia per quanto riguarda le attività materiali che quelle immateriali;

- la cooperazione fra università e imprese, gli investimenti nella conoscenza e nella ricerca;

- la diversificazione dell’economia, con particolare attenzione alle aree rurali (es. turismo);

- il rafforzamento delle capacità istituzionali, il miglioramento della qualità delle reti di partenariato;

- lo sviluppo di rapporti sinergici fra tutela dell’ambiente e crescita dell’economia;

- il sostegno e il miglioramento dell’efficienza energetica e lo sviluppo delle tecnologie rinnovabili e alternative (eolica, solare, biomassa ecc.);

- la creazione di poli di eccellenza di adeguata “massa critica”, prevedendosi quindi concentrazione geografica tra organismi di ricerca pubblici e imprese e il rafforzamento delle possibilità di cooperazione (tramite soprattutto i servizi di trasferimento tecnologico, gli incubatori e i servizi connessi, l’assistenza tecnica e gestionale, l’adeguamento dei sistemi di istruzione e formazione oltre che il miglioramento degli investimenti in capitale umano).

Come si vede, il problema della governance si affaccia di nuovo come uno snodo decisivo. In questo quadro, i Progetti territoriali integrati:

- sono intesi quale strumento di raccordo fra programmazione settoriale, europea e nazionale, da un lato, e dall’altro con le scelte e le priorità espresse dal territorio;

- esprimono l’individuazione selettiva dei punti di intervento e delle priorità;

- sono oggetto di monitoraggio.

L’idea non è certo nuova, poiché si inscrive nella tradizione della programmazione negoziata. Un certo livello di innovazione delle pratiche di programmazione può quindi dirsi acquisito e persegue due obiettivi differenti ma interconnessi, la competitività e la coesione.

Con riferimento al primo obiettivo, si tratta di prove di innovazione e di governance insieme, in ragione di una logica riferita a tre elementi tra loro connessi: a) una politica di sviluppo orientata ai fattori di contesto; b) l’attenzione crescente verso il partenariato; c) l’attuazione di azioni integrate.

Con riferimento alla coesione territoriale, la progettazione territoriale integrata sembra assumere una funzione propedeutica che altre forme di programmazione territoriale non hanno voluto o saputo interpretare. Detta funzione si dipana lungo tre assi:

  1. il “disvelamento” di vocazioni cooperative radicate nei territori, ma oscurate a causa di politiche di sviluppo dirigiste e settorializzate;

  2. la pratica di forme di coinvolgimento che combinano relazioni istituzionali formali tra livelli di governo differenti e/o parigrado e reti orizzontali di collaborazione stabilitesi alla scala locale nel lungo periodo;

  3. la selezione, attraverso lo strumento dei programmi a regia compartecipata, di sistemi territoriali e sistemi di obiettivi meritevoli di trattamento specifico, al fine di evitare logiche di aiuto indifferenziate che riflettono un horror vacui che è nemico dello sviluppo, per sua natura poggiante sulla differenziazione.

Non dimentichiamo che l’idea di territorio è politicamente orientata e riassume le idee di reti, conoscenze, esternalità agglomerative. Più in particolare, il riferimento al territorio è un modo per enfatizzare i limiti evidenti della precedente programmazione, in particolare la spesa settoriale e il carattere sostitutivo all’azione degli investitori.

Una nuova programmazione si caratterizzerebbe dunque per l’istanza di “costruire” il territorio regionale con geografie variabili e multilivello. Se i meccanismi dello sviluppo si attivano piuttosto per poli, agglomerazioni, reti che sono per definizione variabili e flessibili, la programmazione deve essere altrettanto flessibile e pronta a cogliere le opportunità che si presentano ai territori sotto la pressione della competizione internazionale e dei rapidi processi di transizione. Questa velocità deve peraltro sapersi coniugare con progetti spesso di lunga messa in opera (infrastrutture della conoscenza, nuove infrastrutture di connessione, progetti di integrazione ecc.).

La progettazione integrata territoriale e la programmazione regionale strategica dovranno incentivare queste nuove dimensioni. Premialità finanziaria (conditional grants) e sostegno tecnico (fornitura di consulenza esperta) potranno essere erogati dagli organi della programmazione regionale a quegli enti locali che, unitamente a partner pubblici e privati (imprese e loro aggregazioni, università etc. ) procedano a costruire i nuovi territori di progetto.

Per territori di progetto si intendono, sulla scorta del Quadro Strategico Nazionale, le dimensioni territoriali pertinenti alla nuova programmazione strategica. Fra questi rientrano le aggregazioni territoriali che permettano di disegnare profili di transizione economica, le reti di imprese, le catene del valore localizzate, le aree infrastrutturali e logistiche, le conurbazioni, le cinture ambientali e i corridoi ecologici, i bacini fluviali. È in base a questi che potrà essere possibile ridisegnare il mosaico delle vocazioni territoriali della regione a partire “dal basso”, che dovranno incontrare lo schema di riferimento che la Regione fornisce, in qualche modo “dall’alto”, con i propri documenti di programmazione economica regionale. La natura ricorsiva e iterativa di questi documenti regionali, il loro continuo aggiornamento e la partecipazione degli enti locali alla loro definizione potranno garantire che l’incontro tra processi dal basso e linee programmatiche regionali si possa effettivamente realizzare.

Tenuto conto che i fattori strategici di competitività – ormai esterni alle imprese e spesso anche ai territori presi singolarmente – sono la ricerca, l’innovazione, il capitale umano, le reti terziarie, le grandi infrastrutture, le risorse finanziarie, va da sé che la loro soglia critica è necessariamente la dimensione regionale (se non trasnsregionale), da cui la necessità di “gestire” il sistema in termini sia locali che globali. La sfida è dunque quella di mettere a sistema il policentrismo emergente, includendovi i settori, gli attori, i territori, il sistema del credito: si tratta, in altri termini, di valorizzare il policentrismo regionale in formazione.

E’ peraltro necessario ricordare che la maglia policentrica si fonda sulle evoluzioni in corso e non già su un ipotetico modello finalistico, presupponendo il coinvolgimento e la mobilizzazione dell’insieme degli attori territoriali. Essa si limita a proporre il quadro territoriale di riferimento per politiche integrate senza definirne a priori il contenuto.

Questi presupposti della nuova programmazione economica e territoriale implicano la riformulazione delle logiche consolidate e declinano alcuni principi della pianificazione strategica ormai sviluppati in gran parte dei paesi europei e tuttora in corso di rinnovamento. Essa è volta a privilegiare le strategie organizzative (massa in rete, cooperazione etc.), definire le vocazioni territoriali, incoraggiare la mobilizzazione degli attori.

La sfida consiste nel fatto che le politiche pubbliche, dovendosi adattare ai territori e non viceversa, sono definite in funzione delle sinergie e dei possibili effetti indotti. Ne consegue che la dimensione contrattuale (convenzioni, partenariati, accordi etc.) ne costituisce un essenziale strumento operativo, unitamente alla definizione della capacità di carico dei territori relativamente ai quadri ambientali e paesaggistici.

Bibliografia

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DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012

Published: January 13th 2012

 

 

Notes

[1] Tra i paesi europei che con maggior convinzione hanno intensificato la propria azione di policy in una logica di esplicita territorializzazione, i Paesi Bassi offrono una gamma piuttosto ampia di documenti e strategie operanti in ambiti settoriali e a scale differenti. Lo Spatial Memorandum del 2004 (Nota Ruimte) ha consentito di lanciare un certo numero di sperimentazioni in questo senso, alcune relative allo sviluppo spaziale propriamente detto (finanziate dallo Spatial Memorandum fino a 1 miliardo di euro nel quinquennio 2011-2014), altre di natura settoriale ma pur sempre allineate con gli indirizzi del Memorandum (accessibilità, sviluppo economico regionale, sviluppo rurale e valorizzazione del paesaggio).

[2] Questo paragrafo si basa in larga misura sul contributo di Umberto Janin Rivolin, che si ringrazia altresì per i commenti generali sull’impianto e sui contenuti del rapporto.

 

 


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