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Michele Colucci, “Storia dell’immigrazione straniera in Italia”

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Michele Colucci, “Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni”, Roma, Carocci, 2018, 244 pp.

Il libro di Michele Colucci rappresenta la prima sintesi storiografica sulle immigrazioni verso l’Italia in epoca contemporanea. Il volume, anche grazie al sapiente utilizzo dei lavori che sociologi, giuristi e solo in minima parte storici avevano dedicato al tema, ricostruisce le vicende della presenza straniera nel paese, nella convinzione che attraverso il loro studio possano emergere alcune tendenze più generali della storia italiana.

Colucci, in maniera originale, inaugura il suo lavoro affrontando gli anni del secondo dopoguerra, quando il paese in ricostruzione dovette confrontarsi con la presenza dei profughi e dei migranti dalle ex colonie. Nel corso degli anni sessanta si assistette a una crescente interazione tra i flussi migratori e il mondo del lavoro, come le vicende dei tunisini a Mazara del Vallo o degli jugoslavi in Friuli sembravano indicare. I “caratteri originari” della presenza straniera in Italia – la frammentazione dei luoghi di provenienza degli immigrati e il loro disperdersi in una molteplicità di luoghi d’arrivo – si definirono, tuttavia, tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, quando emerse anche la sostanziale debolezza dello Stato nella pianificazione, benché ciò non abbia condotto, come talora si è scritto, a una politica migratoria “di porte aperte”.

L’autore individua nel quadriennio 1989-92 il punto di svolta fondamentale per la storia dell’immigrazione in Italia. L’uccisione del giovane Jerry Masslo e l’affermarsi di un movimento antirazzista tra i più forti dell’intero continente diedero inizio a un periodo di mutamenti. Lo Stato decise di intervenire con un primo provvedimento organico, la legge Martelli, necessaria anche per garantire all’Italia l’adesione al trattato di Schengen, regolarizzando migliaia di persone e inaugurando la politica della programmazione dei flussi in entrata. L’arrivo improvviso degli albanesi nei porti pugliesi incise profondamente sull’opinione pubblica. La svolta repressiva, inaugurata nell’estate 1991, determinò lo spostamento della questione migratoria sul piano dell’ordine pubblico e una progressiva chiusura nei confronti dei migranti, simboleggiata anche dalla nuova legge sulla cittadinanza, che si distinse per il suo carattere restrittivo nei confronti dei nuovi cittadini e premiante verso gli eredi dei migranti italiani, a sugellare nelle menti dei legislatori la separazione della vicenda delle migrazioni storiche degli italiani, considerate erroneamente concluse, da quella delle migrazioni verso l’Italia.

Negli anni novanta si assistette al consolidamento della presenza straniera, con una crescita progressiva e a tratti impetuosa. Uno dei dati più significativi indicati da Colucci riguarda il rilievo che la presenza di immigrati assunse in settori con un marcato tasso di precarietà, quando non di irregolarità. Più che complementare o sostitutivo rispetto alla manodopera italiana, il lavoro migrante apparve anticipatore di alcune tendenze che riguarderanno l’intero paese a partire da quel decennio. L’approvazione della legge Turco-Napolitano, accelerata anche dalla preoccupazione per l’arrivo dei rifugiati delle guerre balcaniche, mostrò come il tema della sicurezza, ormai adottato anche dalle principali forze della sinistra, fosse diventato l’elemento cardine della politica migratoria.

Negli anni duemila l’Italia divenne una delle principali destinazioni dei flussi, con un progressivo aumento di immigrati dall’est europeo. Le polemiche di questi anni si concentrarono sul presunto fallimento delle società multiculturali, in particolare assegnando alle migrazioni dai paesi islamici una forte connotazione negativa. La legge Bossi-Fini si impegnò dunque a ridurre le possibilità di ingresso legale degli stranieri e ad aumentare i provvedimenti di espulsione. I risultati di tale normativa, cui fu affiancata la più importante sanatoria della storia del paese, rafforzarono precarietà e irregolarità della popolazione straniera, che pure diveniva sempre più rilevante dal punto di vista produttivo e contributivo. Alla fine del decennio, inoltre, il governo italiano inaugurò la stagione degli accordi con la Libia, delegando al paese africano il controllo dei flussi meridionali, senza troppa attenzione per la tutela dei diritti umani. Negli anni duemila trovarono spazio anche nuove forme di partecipazione. La nascita dei movimenti G2, composti da giovani italiani de facto ma non de iure, con la loro richiesta di riforma della legge sulla cittadinanza, e le rivendicazioni dei lavoratori stranieri, in particolare in settori come l’agricoltura e la logistica, indicarono l’emersione di nuovi protagonisti dei conflitti sociali e politici.

La crisi economica degli ultimi anni, con la diminuzione degli arrivi, l’aumento della disoccupazione degli stranieri e delle loro partenze verso altri paesi, rappresenta l’ingresso in una fase nuova. Gli sbarchi sulle coste italiane di migliaia di richiedenti asilo hanno riaffermato la difficoltà di distinguere tra migrazioni economiche e politiche, oltre a rappresentare un’indubitabile messa alla prova del sistema d’accoglienza italiano e dei rapporti con l’Unione Europea, alla luce del dibattito sulla Convenzione di Dublino.

La trasformazione epocale del paese attraverso i fenomeni migratori è raccontata in questo volume con grande cura, nei suoi aspetti legislativi, economici, sociali e culturali. Grande merito dell’autore è quello di aver descritto le vicende degli immigrati, insistendo sulle loro soggettività e uscendo dal paradigma della vittima e del carnefice. La presenza degli stranieri ha mutato profondamente la società italiana e questo libro rappresenta un importante riconoscimento del fatto che gli immigrati e i loro figli non sono un incidente della storia d’Italia, ma una sua parte integrante.