Storicamente. Laboratorio di storia

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Bruce M. S. Campbell, “The Great Transition. Climate, Disease and Society in the Late-Medieval World”

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Bruce M. S. Campbell, “The Great Transition. Climate, Disease and Society in the Late-Medieval World”, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, 463 pp.

La storia economica del Medioevo europeo costituisce da sempre il fulcro degli interessi scientifici di Bruce Campbell, professore emerito presso la Queen’s University di Belfast. In The Great Transition, Campbell esamina con grande finezza il profondo cambiamento della società e dell’economia che cominciò a manifestarsi nell’ultimo trentennio del Duecento, si intensificò nel corso del secolo successivo e giunse a compimento a metà del Quattrocento. Il libro non si esaurisce però – come queste brevi note potrebbero forse suggerire – in una rivisitazione della ben nota ‘crisi del Trecento’, uno dei temi più dibattuti dalla storiografia sul tardo Medioevo. ‘Crisi’ è un termine che, nell’opinione dell’a., non riflette adeguatamente la portata delle trasformazioni avvenute in quei secoli; trasformazioni non solo radicali, ma anche irreversibili. Le condizioni socioeconomiche precedenti la ‘grande transizione’, infatti, non furono più ristabilite – ed è questo l’aspetto che ci permette di considerarla come un cambiamento a tutti gli effetti epocale.

Bisogna dare il giusto risalto al modo in cui Campbell, per sostenere la propria tesi, ha fatto ricorso a scienze che esulano dal tradizionale bagaglio di competenze del medievista, anche di quello che si occupa di economia. L’esteso utilizzo della climatologia e dell’epidemiologia storica – di cui il lettore è avvertito già dal sottotitolo – consentono all’a. di condurre un’analisi ad ampio raggio, che individua nella storia dei cambiamenti climatici globali, e nel modo in cui essi favorirono o meno il diffondersi di malattie su larga scala, la premessa necessaria di tutte le mutazioni socioeconomiche. L’antropocentrismo che caratterizza gran parte degli studi su tali mutazioni è bersaglio privilegiato delle critiche di Campbell, che è tuttavia attento a prendere le distanze da qualunque lettura determinista della storia – letture per cui il destino degli uomini dipenderebbe, principalmente se non esclusivamente, dall’azione di agenti esterni impossibili o difficili da controllare, quali clima ed epidemie. La ‘grande transizione’ fu il risultato del concorso di diversi elementi, estranei all’azione dell’uomo (l’abbassamento delle temperature medie in Europa, l’arrivo della Grande Peste) e non (conflitti lunghi e distruttivi come la Guerra dei Cent’Anni); fu la loro compresenza in una determinata fase – sia pure estesa – del Medioevo europeo a far sì che si compisse il passaggio da una crisi potenzialmente ciclica a un cambiamento non più reversibile.

Quali furono quindi, in estrema sintesi, la cronologia e i tratti salienti della ‘grande transizione’? Campbell ne colloca l’inizio intorno al 1270, quando in Europa (sebbene con rilevanti differenze tra Nord e Sud) un lungo periodo caratterizzato da alti livelli di irradiazione solare e da inverni complessivamente miti e piovosi giunse al termine, sostituito da climi più rigidi che furono accompagnati, per di più, da malattie del bestiame (si pensi alla disastrosa epidemia di scabbia che colpì le pecore in Gran Bretagna nel 1279) e da eventi politici dannosi per la sicurezza e i costi dei commerci a lunga distanza (quali la caduta di Acri nel 1291). La fase più drammatica della transizione ebbe luogo, tuttavia, nei decenni centrali del XIV secolo, quando l’effetto combinato dell’accelerazione del cambiamento climatico iniziato a fine Duecento, delle guerre e della Grande Peste alterò i caratteri della società e dell’economia in modo definitivo; un’alterazione su cui, è opportuno sottolinearlo, non deve gravare un giudizio di valore necessariamente negativo (ammesso che allo storico sia concesso formulare giudizi di questo tipo): basti richiamare, come fa l’a., la redistribuzione della ricchezza a favore dei ceti meno abbienti resa possibile dal crollo demografico. Ogni possibilità di ripresa dell’economia europea nel suo complesso – in termini, si potrebbe dire, di prodotto interno lordo – fu però vanificata dalla prima, estesa fase della ‘piccola era glaciale’ (nel testo abbreviata in LIA, Little Ice Age), che ebbe luogo nel corso del XV secolo. Tra gli anni cinquanta e settanta dello stesso secolo le basse temperature, le epidemie, la flessione dei flussi commerciali e la scarsità di metalli preziosi da cui ricavare monete portarono a compimento la ‘grande transizione’ dell’Europa tardo-medievale, che, quanto a ricchezza assoluta, toccò allora il punto più basso della traiettoria discendente avviatasi a fine Duecento; una lenta risalita avrebbe avuto inizio soltanto all’alba del XVI secolo.

L’opera di Campbell costituisce un’importante sintesi di una vastissima letteratura scientifica di cui l’a. restituisce complessità e sfaccettature. Non sono assenti, tuttavia, casi di mancato aggiornamento bibliografico su argomenti specifici – come nella troppo stringata presentazione della nascita dei comuni italiani (p. 81), che avrebbero meritato maggior spazio in quanto attori principali della rivoluzione commerciale del pieno Medioevo; non ci sono, del pari, discussioni adeguate su problemi di stretta attinenza al tema indagato – quali i prodromi alto-medievali del successivo sviluppo commerciale, per i quali il riferimento principale è rappresentato dalle tesi (peraltro contestabili) di Michael McCormick (p. 35). Vero è che, in un libro di tale ampiezza, lacune di questo tipo sono fisiologiche. Su un piano più generale, invece, sarebbe forse stata opportuna una più approfondita analisi della fase delle grandi scoperte geografiche tra Quattro e Cinquecento, che (è cosa arcinota) spostò il baricentro dell’economia europea verso gli Stati che furono in grado di sfruttare le opportunità di sviluppo da essa offerte. Campbell è ben lungi dal negare questo fatto, ma viene spontaneo domandarsi se non sia stata (banalmente) l’apertura delle rotte atlantiche a rendere davvero irreversibile la ‘grande transizione’; e se essa, quindi, non ci appaia come tale solo retrospettivamente, in virtù degli effetti che la scoperta del Nuovo Mondo ebbe sul Vecchio.