Abbiamo intervistato Ivan Scalfarotto a proposito del suo pamphlet Contro i Perpetui in cui l'autore fa una serie di considerazioni a proposito dei ceti dirigenti, politici e non, del nostro paese. Vorremmo approfondire con lei in chiave storica alcuni dei temi affrontati nell'intervista, anche alla luce del volume dedicato alle classi dirigenti italiane che lei ha curato di recente insieme a Nicola Tranfaglia, (Le classi dirigenti nella storia d'Italia, a cura di B. Bongiovanni, N. Tranfaglia, Laterza, Bari, 2006). Comincerei proprio da una definizione del concetto di "classe dirigente" da voi utilizzato e dunque preferito ad altre categorie elaborate da sociologi e politologi, quali classe dominante, ceto dirigente, élite etc.
Il concetto di classe dirigente, che è molto usato da giornalisti e nel linguaggio comune – o dagli stessi sociologi e dagli storici, ma in modo poco consapevole e generico – ha un'afferrabilità spesso scarsa, labile. Vediamo dunque di precisarne i contorni e di spiegare il perchè lo abbiamo scelto.
Partiamo dal sostantivo “classe”. Storicamente il concetto di classe è molto antico, lo si trova in Tito Livio quando parla delle cinque classi sociali presenti a Roma in età monarchica. I membri
della società romana appartenevano a una di queste classi; fuori da esse, Livio dice che vi erano i proletari, altro termine che avrà un lungo percorso storiografico. Questa è la prima volta in cui
emergono questi concetti: classe e proletari. La classe, dunque, è un segmento sociale che in questo caso è definito quanto al reddito, alla ricchezza dei soggetti; una ricchezza che con il tempo
poi comporta rango e status nella catena delle gerarchie sociali. Quando si usa l'espressione classe, senza aggettivi che la qualificano, si sta in questo ambito, si sta ad indicare una
classe sociale.
Ci sono poi diversi modi di intendere le classi sociali e il rapporto che esse intrattengono tra loro. La nozione marxiana di classe, ad esempio, si precisa e definisce all'interno dei rapporti di
produzione, a seconda del ruolo svolto nel processo produttivo (i proprietari dei mezzi di produzione e scambio da una parte e la forza lavoro dall'altra). Secondo un'impostazione aperta da Weber,
con l'elaborazione del concetto di “ceto”, ma che passa ad altri e va avanti fino allo stesso Bourdieu, la classe è invece status, distinzione sociale, derivanti dal rango che si ha non
tanto all'interno del processo produttivo, quanto all'interno della società nel suo complesso, prendendo anche in considerazione perciò quelli che Marx avrebbe definito aspetti
sovrastrutturali.
Ovviamente a ciò bisogna aggiungere qualcosa, aggettivi che specifichino il significato di classe. In ambito socialista si arriva quindi a parlare di classe dominante: per Marx questa è la classe
che detiene i mezzi di produzione e di scambio e che domina, appunto, sulle altre. In ragione di questo possesso e di questa sua natura, tale classe ha un notevole ruolo politico all'interno dello
Stato. Alla fine dell'Ottocento emerge un altro concetto, questa volta in ambito decisamente conservatore, che è quello di classe politica, che poi sfocerà nel concetto di élite, la cui
teorizzazione si deve agli italiani Mosca e Pareto e che passerà poi a Michels, tedesco formatosi però in Italia. La classe politica è l'insieme degli organizzati e pochi che sempre, all'interno di
qualsiasi sistema politico, anche quello democratico, ha la supremazia sui disorganizzati e molti. Ci sarà sempre, anche nella democrazia criticata da Mosca e nei regimi socialisti criticati da
Pareto, un'élite, i governanti, che governa i governati.
Questi sono tutti concetti forti: classe politica, élite, classe dominante hanno una ben precisa collocazione teorica nel dibattito e un'armonica costruzione concettuale che li ha resi tali. Classe dirigente invece è molto sfumato, è come un generico contenitore che riesce comprendere tutti questi concetti teorici. Chi fa parte della classe dirigente? Chi ha un ruolo di preminenza economica, o professionale, o politica; ma anche chi controlla i mezzi di comunicazione di massa oppure riveste un ruolo di alto livello nell'istruzione; penso anche poi a rappresentanti del sindacalismo. Se pensiamo alla situazione attuale, anche personaggi che appartengono al mondo dei media in generale, certi personaggi televisivi... Insomma 'classe dirigente', rispetto ai concetti forti sopra richiamati, ha un minimo di definitività teorica, ma è attraente perchè ha una massima elasticità. Agli storici fa comodo, perchè ha una grande capacità di distendersi nel tempo e di inglobare figure sociali diverse, che via via sono andate acquisendo un ruolo dirigente.
Questo aggettivo 'dirigente' mi pare anche smussare, in un certo senso, il discorso sul potere che molti dei teorici che lei ha richiamato – ma anche altri, come ad esempio C. Wright Mills – accompagnavano alla teorizzazione del concetto di classe dominante, élites etc. Lei pensa che questo uso di 'dirigente' sia collegato anche a una definizione e percezione del potere che attualmente, com'è chiaro, è qualcosa di ben diverso da ciò che poteva essere tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento?
Sì, sicuramente. Anche questo aspetto rende insoddisfacente attualmente i concetti forti sopra passati in rassegna e ci spinge ineluttabilmente a utilizzare il concetto di classe dirigente. Il potere si allarga, è sempre più inafferrabile, siamo sempre più in presenza di una microfisica del potere. Non ci sono più Palazzi d'Inverno, al punto che è sempre più difficile parlare di potere, ma è più sensato e realistico parlare di poteri. Ciò deriva da quel processo che prima ho delineato, seppur sommariamente, di ampliarsi e complicarsi delle classi dirigenti, che anche in questo caso vanno usate al plurale. E' sempre più vero, come diceva Montesquieu, che sono i poteri che limitano il Potere: più sono le classi dirigenti, più il potere perde assolutezza e si diffonde a sua volta. Le stesse dinamiche di conflitto tra esponenti delle diverse classi dirigenti diventano un elemento grazie al quale si bilanciano i poteri e si allarga la democrazia. Più sono le classi dirigenti, più si contrastano tra di loro, più sale il tasso di democrazia. La democrazia è infatti un processo dinamico, che non ha fine: se una società ha una molteplicità di classi dirigenti, diverse non solo perchè gestiscono poteri diversi, ma anche perchè sono selezionate attraverso meccanismi differenti, più alto sarà il tasso di democrazia.
I processi di selezione delle classi dirigenti delle società contemporanee sono molto diversificati: esistono sistemi di cooptazione, di elezione, di concorso pubblico, per merito, per competenza
etc. Le classi dirigenti hanno dunque forme di costruzione, affermazione e selezione tra loro diversissime. La loro molteplicità assicura anche che si operi un positivo controllo reciproco che, per
esempio, è una forma di contrasto nei confronti di un involgarimento o imbarbarimento che l'allargamento della base, nella società di massa, tendenzialmente comporta.
Nella letteratura teorica si è parlato di una possibilità di élitismo democratico, concetto che mi pare ossimorico, penso chiaramente a Schumpeter: la selezione delle classi dirigenti avverrebbe
come nell'economia di mercato, e dunque si scelgono gioco forza i migliori, mentre i peggiori vengono scartati. Ora se guardiamo alla realtà storica, ad esempio quella italiana, ciò non sembra
accadere sempre. Ma faccio riferimento a questo tipo di pensiero politico, proprio per confermare che anche chi sostiene la non eliminabilità della dimensione elitaria può, dopo Michels e gli
altri, vedere comunque uno spazio per lo sviluppo democratico.
Vorrei soffermarmi ancora sul tema della selezione delle classi dirigenti, in particolare di quelle italiane. Nell'introduzione al volume da voi curato, a proposito della scuola pubblica affermate che, nonostante i suoi grandi meriti, essa «non ha mai potuto diventare appieno il meccanismo liberaldemocratico e salutarmente competitivo della selezione delle classi dirigenti, tanto che per decenni il principio cooptativo ed ereditario non è stato sufficientemente compensato dall'emergere "dal basso" di talenti e professionalità». Mi sembra che qui si colga uno degli elementi che stanno alla radice di una quanto meno carente dinamicità sociale nell'Italia contemporanea. Questa staticità sociale, che si registra attualmente, secondo lei, è una caratteristica per così dire italiana da sempre, o viceversa ci sono stati periodi di maggiore permeabilità tra le classi, di maggior dinamismo?
Il nostro sistema scolastico, grazie anche allo sforzo di molti insegnanti che spesso hanno lavorato in condizioni difficili, ha senz'altro avuto il merito di aver contribuito alla costruzione della coesione sociale del paese, ma purtroppo, come abbiamo scritto, non solo non ha promosso l'emergere dal basso di talenti e professionalità, che andassero poi a costituire le classi dirigenti (del resto non è questo il compito esclusivo o primario della scuola pubblica), ma non è neppure stato in grado di promuovere uguaglianza: ossia non ha saputo dotare tutti gli studenti di una stessa base di partenza, al di là dei ceti sociali di provenienza. Non solo, dunque, la scuola non è stata capace di promuovere giustizia sociale, che pure è un valore, ma non ha neanche saputo fare un uso accorto, per così dire, delle risorse disponibili, perchè non ha valorizzato le intelligenze e le capacità degli individui, che così non sono state immesse all'interno della società. Certo, ci sono stati momenti storicamente importanti che hanno introdotto cambiamenti: penso, ad esempio, alla Legge Coppino dell'Italia liberale, oppure alla riforma – voluta dal centro-sinistra prima ancora che questo diventasse vera e propria formula politica – della scuola media unica. Tuttavia queste riforme hanno tutte una caratteristica tipica del riformismo italiano (che ha una storia comunque di tutto rispetto, nonostante i difetti che spesso gli si attribuiscono): si tratta sempre di interventi presi all'ultimo momento, interventi di rimessa, senza un quadro di ampio respiro progettuale. Ossia quando lo sviluppo produttivo e il contesto sociale sono cambiati al punto tale da non poter più rimandare di mettere mano alle riforme, allora si è intervenuti. Anche per la scuola secondaria e l'Università è andata un po' così, penso alla liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie dalle scuole secondarie del 1969. Tutto fatto frettolosamente, sotto la spinta di forti pressioni sociali e del clima di quegli anni, senza riflettere davvero sulle modalità e le conseguenze della riforma.
Questo è un po' un leit motiv della storia del nostro paese ed è una dimostrazione del fatto che le classi dirigenti italiane mancano di progettualità, sono, per così dire, sterili. Certo, come sosteniamo sempre nel volume, esse sono state all'altezza dei loro compiti nei momenti difficili, come nel periodo dell'unificazione, in quello della resistenza e della costituente, o anche in certa misura nel periodo dello sviluppo industriale, nella fase del cosiddetto miracolo economico. Ma nel momento in cui sembrerebbero esserci le condizioni per affrontare con calma un quadro generale di riforme, questo non viene fatto; è una constatazione, forse più una lamentatio di carattere politico che una tesi storiografica, tuttavia mi pare che i dati per sostenerlo non manchino. Si arriva quindi sempre a una situazione limite in cui i problemi si accumulano e i nodi vengono al pettine e il cambiamento si impone da sé: nel caso della riforma della scuola media anche le forze conservatrici dell'area di governo appoggiarono il progetto di fronte all'evidenza di una realtà sociale in cui i ritmi della crescita industriale ed economica erano tali da rendere la soluzione del problema dell'obbligo scolastico improrogabile. La società era ormai di massa e la scuola doveva rispondere alle necessità di questo tipo di assetto sociale, con una sistema meno classista.
Veniamo alla questione generazionale. Nel libro di Scalfarotto questo elemento emerge naturalmente in chiave polemica (sebbene l'analisi dell'autore evidenzi bene come le radici della questione non stiano in una vaga gerontocrazia, bensì nella mancanza di una reale meritocrazia). Io vorrei affrontare il tema generazionale con lei ancora una volta in chiave storica. Il dato dell'invecchiamento della società italiana è reale, gli indicatori sociali lo dimostrano, ed è un dato che le nostre classi dirigenti sono 'vecchie'. Si arriva a ruoli chiave nell'economia, nella politica, nell'istruzione etc. molto tardi, rispetto alle medie europee, per non parlare delle medie statunitensi e delle aree cosiddette emergenti, quali Cina ed India. Certamente ci può essere un dato biologico: essendosi allungata la vita, le fasi stesse dell'esistenza – infanzia, adolescenza, giovinezza etc. – si vanno rimodellando e ridefinendo, con uno spostamento in avanti di certi riti di passaggio. Rispetto a questo punto, alcuni dati come la difficoltà del distacco dalla casa dei genitori o il disagio generazionale pare fenomeno in crescita anche altrove, come in Francia, ad esempio, dove la ventiquattrenne Sabine Herold ha fondato un movimento che si va trasformando in partito politico e si presenterà alle elezioni del giugno 2007 con un programma che punta espressamente al ringiovanimento della classe politica. Cosa ne pensa del fenomeno di invecchiamento delle classi dirigenti italiane e del mancato ricambio generazionale, che si traduce, ovviamente, anche in staticità sociale? Quali sono le sue radici storiche, in un paese come il nostro che ha visto comunque in alcune fasi emergere classi dirigenti molto giovani, penso ad esempio alla resistenza e al secondo dopo guerra?
La storia delle generazioni purtroppo è poco praticata, ma sarebbe interessante, sebbene presenti notevoli difficoltà pratiche e teoriche: dunque effettivamente è difficile parlare di questi temi
storicamente, senza studi approfonditi e precisi di riferimento. E' inoltre molto difficile fare comparazioni storiche: la resistenza e la fase costituente sono stati momenti di grande cesura e
cambiamento e quindi anche di ricambio delle classi dirigenti, con l'emergere contestualmente di nuove generazioni. Ma penso anche, in chiave negativa e antidemocratica, a un altro momento, alla
fine della prima guerra mondiale e a quel processo che ha portato all'avvento del fascismo e all'eclisse delle classi dirigenti liberali: anche lì c'è stata una forte presenza giovanile. Ci sono
state cioè in Italia delle crisi di regime che hanno 'pensionato' e travolto pezzi importanti di classi dirigenti soprattutto politiche, e in subordine anche amministrative (questo anche se assieme
al ricambio ci sono state senz'altro molte continuità: soprattutto in ruoli amministrativi, dirigenziali etc. un pezzo importante delle classi dirigenti fasciste, ad esempio, senz'altro rimase al
suo posto). Vi sono dunque momenti eccezionali in cui le classi dirigenti sono sottoposte a grandi cambiamenti, anche dal punto di vista generazionale; ma in altre fasi di cambiamento questo non è
avvenuto. Pensiamo alla fase dell'Unità d'Italia: senz'altro non vi fu crisi di regime, ma piuttosto una costruzione lenta da parte di un'élite composita, costituita da personaggi non così giovani,
con ruoli sociali e politici di rilievo – certo al di là della variabile biologica, come si diceva, per cui le fasi della vita sono diversamente definibili attualmente.
Naturalmente questo dato biologico, che lei richiamava, ed elementi contingenti, come la congiuntura di difficoltà economica che stiamo vivendo, rendono l'ingresso nell'età adulta, con il distacco
dalla famiglia, più ritardato e difficile rispetto al passato e dunque più difficile diviene costruirsi un ruolo sociale e una carriera. L'insicurezza economica e l'instabilità lavorativa entrano
senz'altro in gioco in questo tipo di disagio sociale.
Storicamente mi vengono poi in mente dei momenti in cui la giovinezza viene esaltata: il periodo rivoluzionario e giacobino in Francia elabora proprio una retorica sulla giovinezza, simbolo stesso
della rivoluzione; i girondini e i giacobini avevano un'età straordinariamente bassa. Nel primo dopoguerra, quando venne fondato il Partito Comunista d'Italia distaccandosi dal Partito Socialista,
era nettamente visibile il fatto che i comunisti erano giovani e non portavano la barba: Gramsci, Bordiga, Terracini, Togliatti avevano circa trentanni, una generazione successiva a quella di
Turati e degli altri dirigenti socialisti. Vi sono poi casi in cui la vecchiaia delle classi dirigenti è addirittura un simbolo tangibile di declino: pensi agli ultimi anni dell'URSS, a Breznev, ad
Andropov. Lo stesso Gorbaciov, arrivato alla carica di segretario generale del comitato centrale del partito a cinquantaquattro anni, fu tra l'altro accusato di essere giovane dai suoi oppositori.
Aggiungerei che proprio in casi come questo la vecchiaia diventa simbolo evidente e tangibile della staticità sociale che prima richiamavo, una staticità che ovviamente in un regime totalitario come quello appunto dell'URSS era voluta e controllata...
Certo nel caso dell'URSS questo è senz'altro vero, la vecchiaia delle classi dirigenti è in quel contesto sintomo di crisi e decadenza. In altri casi però la situazione è diversa: pensiamo
all'avvento del vecchio generale De Gaulle in Francia. Pur essendo accompagnato da una retorica conservatrice, il suo governo ha segnato l'inizio di una fase di grande dinamismo e sviluppo
economico e sociale della Francia: De Gaulle era vecchio, ma il paese 'ringiovanì'. Fu De Gaulle a far cessare la guerra d'Algeria, eppure era un generale settantenne, un uomo di altri tempi...
Egli rappresentò, a dispetto dell'età anagrafica, un cambiamento rispetto alle classi dirigenti della Quarta Repubblica, incapaci di fare uscire il paese dalla decolonizzazione, pur essendo spesso
di cultura radicale, democratica, addirittura socialista. Ma penso anche ad Adenauer, vecchissimo, eppure l'uomo del miracolo economico tedesco.
Voglio dire con ciò che l'elemento generazionale, all'interno della storia delle classi dirigenti, è fenomeno composito e complesso da analizzare. Ma se guardiamo alla microdinamica dei ruoli
dirigenti in una società è certo evidente che oggigiorno siamo di fronte a una diffusa gerontocrazia e a una difficoltà obiettiva dei giovani ad accedere non solo alle classi dirigenti, ma alle
carriere. E questo è un fatto grave: lo si vede all'Università, nelle aziende, nelle professioni, ma anche nel mondo del giornalismo e dei media: si accede a una carriera in modo ritardato rispetto
al passato. D'altra parte oggi, rispetto al passato, un sessantenne ha una forma fisica e una capacità di lavoro enorme. Però certo non ha quella capacità di innovazione che può avere un ventenne o
un trentenne, e questo diventa un elemento che in qualche modo richiama il concetto spengleriano di "tramonto dell'Occidente", perchè invece nel resto del mondo le cose vanno certo diversamente...