Introduzione: i GIS in archeologia
Ormai da diversi anni l’impiego dei sistemi informativi territoriali si è affermato anche in campo archeologico. Ciò è dovuto sicuramente al fatto che in molti ci si è resi conto che essi rappresentano uno strumento in grado di risolvere una vasta gamma di problemi che affliggono le metodologie di gestione ed analisi dei dati archeologici. Anche studiosi che nella maggior parte dei casi non si erano mai rivolti con particolare interesse agli aspetti spaziali dell’archeologia, non hanno potuto rimanere insensibili al fascino esercitato da questo nuovo strumento. Il GIS (acronimo di Geographical Information Sistem) è discretamente semplice da impiegare, i software costano ormai poco, l’hardware necessario è anch’esso divenuto economico, ed è facile trovare tra studenti e neolaureati in discipline archeologiche entusiasti volontari pronti ad investire tempo per imparare ad utilizzarlo. E soprattutto, non dimentichiamolo, l’output grafico di un sistema informativo territoriale è quanto di più accattivante l’archeologia sia riuscita a produrre di recente per il grande pubblico, le amministrazioni e gli sponsor. Il GIS in archeologia piace, fa gran figura e conferisce a chi lo usa una immagine da scienziato moderno con un investimento modesto.
Scopi, modi per ottenerli e caratteristiche dei GIS archeologici
L’archeologia è la disciplina che studia l’uomo del passato attraverso i manufatti e le tracce che di esso ci sono pervenuti. Il fuoco dell’analisi è sugli oggetti, ma ciò che si vuole conoscere e spiegare sono i comportamenti, il perché delle cose. Data questa premessa appare chiaro che la prima notevole differenza tra un GIS convenzionale ed uno archeologico sta negli obbiettivi: una pubblica amministrazione, o anche un’azienda, realizzano un sistema informativo solitamente per gestire delle situazioni attuali, o per prevedere degli scenari futuri, per prendere decisioni; in un progetto archeologico il SIT (sistema informativo territoriale, sinonimo italiano di GIS) serve invece soprattutto per aiutarci a spiegare situazioni passate.
Se questo è vero allora ciò che connota un GIS archeologico non è tanto il suo contenuto, cioè i dati che gestisce, bensì la sua capacità di favorire la loro interpretazione. Vi sono SIT che gestiscono dati archeologici ma che, sia dal punto di vista concettuale che da quello tecnico, archeologici non sono, perché gestiscono i dati relativi a monumenti antichi, reperti, aree esplorate proprio come un SIT convenzionale gestirebbe lampioni, linee ferroviarie o lotti edificabili. Senza cioè che vi sia una grossa differenza nel bilancio tra i dati inseriti e le informazioni ottenute. L’esempio più classico in questo senso sono le carte archeologiche urbane che sempre più spesso vengono realizzate per le nostre città. La funzione principale alla quale assolvono è quella di elencare e mostrare posizioni e caratteristiche dei depositi archeologici, per salvaguardarli, ma senza dirci su di essi nulla di più di quello che già sappiamo. Esse costituiscono naturalmente un provvidenziale supporto all’ardua opera di salvaguardia del nostro minacciatissimo patrimonio, e la loro utilità è assolutamente indubbia, ma qui mi preme sottolineare che dal punto di vista concettuale e tecnico non si discostano molto da GIS convenzionali.
Per trovare qualche cosa di diverso bisogna quindi rivolgersi ai sistemi informativi territoriali nati per generare nuove informazioni, quelli che potremmo definire archeologici “di ricerca”. Essi, data una certa mole di dati spesso reperiti appositamente mediante scavo o ricognizione di superficie, tentano di generarne altri, nuovi, integrando così le carenze che sempre affliggono la conoscenza sulla realtà antica, testimoniata solamente da labili tracce. Ecco dunque un’altra differenza: nei GIS convenzionali i dati ritraggono la realtà nota, una realtà nella quale il significato degli oggetti è evidente negli oggetti stessi (il significato di una strada è chiaro, essa è una direttrice di spostamento di persone e merci). L’opera di reperimento di questi dati consiste quindi in una sorta di osservazione/censimento, poiché ciò che si vede o si misura è l’essenza di ciò che si vuole gestire.
In archeologia invece la realtà, cioè le rovine di edifici, i frammenti di ceramica, le screziature di colore nel suolo, sono solo il pallido ricordo di quello che esisteva un tempo, e la loro osservazione/censimento porta solo alla ricostruzione di una realtà frammentaria e labile: cosa significa una concentrazione di cocci rotti ritrovati sulla superficie di un campo arato? E può addirittura accadere che ci capiti di impostare un GIS senza nemmeno sapere se i dati che ne sono la base abbiano un qualche significato, tanto scarse possono essere le nostre conoscenze sui gruppi umani che hanno abitato il contesto che stiamo analizzando. Per ottenere il significato degli oggetti, dal quale deriveranno i dati, occorre dunque una fase in più rispetto a ciò che fa chi recupera i dati per un GIS convenzionale: quella interpretativa. In essa, grazie al nostro bagaglio di conoscenza pregressa, noi cerchiamo di integrare le lacune del significato di ognuno degli oggetti che compariranno nel SIT.
Terza differenza sono gli standard qualitativi: solitamente il nostro budget è, ahimè, molto più ridotto di quello delle PA o delle aziende private, i mezzi più scarsi, le procedure più artigianali (molti dei nostri sistemi sono realizzati con il vasto supporto di studenti alle prima armi), le condizioni di lavoro sono disagevoli, le basi cartografiche delle nazioni ove operiamo sono approssimative o addirittura non esistono. A questi aspetti, che di primo acchito renderebbero lo standard dei nostri prodotti quasi inaccettabile agli occhi di uno specialista di GIS convenzionali, si contrappone la nostra adesione alla scuola filosofica dei teleologisti, quella che, opponendosi al deontologismo, privilegia il raggiungimento di un obiettivo al modo in cui lo si raggiunge. In altre parole noi consideriamo di avere avuto successo nella realizzazione dei nostri sistemi non solo se li abbiamo realizzati secondo standard qualitativi idonei – il che naturalmente si cerca di fare sempre – ma soprattutto se essi ci aiutano a raggiungere lo scopo per cui erano stati pensati: come ad esempio capire perché in un luogo sono accaduti determinati fenomeni o impedire che un’area archeologica venga devastata. La chiarezza degli intenti è dunque fondamentale.
Quarta differenza, rispetto alla maggioranza dei SIT convenzionali, è l’uso della tridimensionalità nella realizzazione di modelli del territorio: è chiaro infatti che quando si cerca di comprendere i comportamenti dell’uomo antico una delle variabili più importanti è quella che riguarda lo spazio nel quale esso ha agito. Questo spazio è naturalmente tridimensionale, ma mentre nei GIS convenzionali il comportamento dinamico di vie di comunicazione, linee elettriche, percorsi stradali, e di ciò che vi si muove è spesso noto anche dal punto di vista delle formule matematiche, per l’uomo antico al contrario queste formule non esistono, esistono solo i loro esiti sul territorio sotto forma di reperti. Ecco dunque che la realizzazione di modelli dello spazio quanto più realistici possibile è requisito fondamentale per verificare, mediante l’uso di algoritmi non pensati per l’archeologia ma combinati insieme in modo idoneo, se le deduzioni effettuate partendo dai resti archeologici abbiano una qualche attendibilità. I nostri GIS si basano quindi quasi sempre su modelli tridimensionali.
Anche la precisione di questi modelli 3D e di tutti i livelli informativi è diversa da quella dei sistemi convenzionali: la più adatta, per noi, non è necessariamente la più alta possibile (che spesso è al di là delle nostre capacità tecniche), ma quella che riteniamo sia confacente a cogliere gli aspetti dell’ambiente percepiti dall’uomo antico. È chiaro che un TIN (triangulated irregular network, ossia rete irregolare di punti dotati di coordinate x, y e z) ad equidistanza dei punti di un metro è magnifico per un’analisi a scala territoriale, ma se uno ad equidistanza di cinque metri è ugualmente in grado di rappresentare la pendenza che ha costretto un ingegnere romano a deviare il tracciato di una strada dal percorso più diretto, allora il modello a cinque metri è già adatto ai nostri scopi. Senza contare che costa meno, è più facile da realizzare e richiede un hardware più modesto.
I punti che abbiamo evidenziato sono il portato di una serie di riflessioni scaturite dall’esperienza di vari progetti GIS ai quali abbiamo avuto occasione di lavorare, riflessioni che consideriamo parte fondamentale della professionalità di un archeologo che utilizza i SIT come strumento di conoscenza. Di seguito illustriamo brevemente alcuni dei progetti che hanno suscitato le considerazioni esposte, nella speranza che possano essere utili alla condivisione di esperienze e allo stimolo di una proficua discussione tra archeologi, ingegneri, economisti, cioè tutti coloro che utilizzano i SIT per analizzare e gestire un qualche fenomeno che si esprima a livello territoriale.
La Carta del rischio archeologico di Durres
Il primo caso che presento riguarda la “Carta del rischio archeologico di Durres” (Buora e Santoro 2003) progetto italo-albanese diretto da Sara Santoro Bianchi, dell’Università di Parma, in collaborazione con UNOPS (United Nation Office for Project Services) e DAD (Dipartimento di Archeologia di Durres/Durazza).
Durazzo, l’antica Dyrrakium-Epidamnos, è nata come colonia greca nel VIII secolo a.C. e da allora è stata, fino alla fine del medioevo, una delle principali città del Mediterraneo. Essa può vantare una densità monumentale e stratigrafie sepolte del livello di Roma, anche se naturalmente su una estensione molto più ridotta. Il progressivo inserimento dell’Albania nel circuito europeo di circolazione di capitali ha dato il via ad una urbanizzazione selvaggia della città: “mostri” in cemento da venti piani sorgono nel centro storico al ritmo di parecchi all’anno, mentre dagli scavi delle loro fondazioni escono, e vengono distrutti, mosaici policromi, sepolture con corredi ed interi edifici marmorei. Era quindi urgentissimo dotare l’Amministrazione durazzina di uno strumento puntuale di tutela, da usare come base per le concessioni edilizie ed il monitoraggio del rispetto delle severe norme appena varate.
Ecco dunque la situazione: l’inizio delle attività per la realizzazione della carta si colloca a maggio 2003, la pubblicazione del fascicolo, con l’elaborato perfettamente idoneo alla distribuzione ed all’uso, al dicembre 2003. Il personale impiegato era composto da quattro persone: Sara Santoro, capo del team, il sottoscritto e due studenti dell’Università di Parma. Le attrezzature di cui eravamo dotati consistevano in un computer portatile, uno scanner A4 commerciale ed una stazione integrale utilizzata per alcuni rilievi. Le basi cartografiche matriciali erano una fotocopia A1, rovinata in alcuni punti, di una vecchia carta catastale scala 1:2500, la migliore base a grande scala che è stato possibile reperire consultando il Comune, le autorità centrali di Tirana ed anche vari uffici ONU, e un collage di quattro fogli di una carta topografica albanese in scala 1:50000 per il territorio.
Il tutto è stato georeferenziato utilizzando le coordinate del reticolo della carta topografica, identificando su di essa tre punti di controllo riconoscibili anche sulla catastale. A questi livelli raster sono stati sovrapposti quattro livelli vettoriali rappresentati rispettivamente gli ingombri delle aree archeologiche conosciute, le posizioni puntuali dei rinvenimenti sporadici, le ipotesi di presenze archeologiche, con una precisione di qualche metro. Sulla base di questo abbiamo infine elaborato una suddivisione della città in aree di rischio di distruzione del patrimonio in caso di edificazione (Santoro e Monti 2003).
[[figure caption="Fig. 1: Le canalizzazioni sotterranee antiche della città di Durres identificate tramite una interrogazione GIS"]]figures/2006/02monti/02monti_2006_01.jpg[[/caption]]L’elaborato a prima vista potrebbe anche fare inorridire, specie se paragonato agli standard dei GIS realizzati ad esempio dalla Regione Emilia-Romagna, che cito perché è l’ente i cui prodotti conosco meglio. Ma la “Carta del rischio archeologico di Durres” raggiunge il suo obiettivo: è stata realizzata nei tempi stabiliti, con i pochi mezzi a disposizione e se le prescrizioni che presenta saranno rispettate salverà il patrimonio archeologico di Durazzo. Questo, a mio parere, costituisce un grosso successo.
Il progetto Carta archeologica di Pantelleria
Un esempio differente riguarda un progetto molto più ampio in quanto a sviluppo territoriale e più consistente in termini di personale coinvolto e con destinazione scientifica: la Carta archeologica di Pantelleria, missione congiunta tra Università di Bologna (prof. M. Tosi) e Soprintendenza archeologica siciliana. A Pantelleria, nel corso di sette campagne annuali di sei settimane ciascuna, abbiamo tentato di ricostruire l’insediamento antico sull’intera isola (80 Kmq circa), attraverso estensive ricognizioni di superficie (Monti 2003a). In questo caso i mezzi sono stati più abbondanti, anche se non certo paragonabili a quelli dei migliori uffici GIS: il laboratorio era stato organizzato nell’ex discoteca di un albergo ed il team informatico era formato dal sottoscritto e da un paio di studenti. Tre i computer a disposizione: i nostri.
Il GIS che ne è risultato è piuttosto articolato: un modello tridimensionale dell’isola su equidistanza di dieci metri, comprendente anche le batimetriche fino a cinquanta metri di profondità, è stato interamente realizzato mediante digitalizzazione a video dei quattro fogli della cartografia CTR 1:10000. Su questo TIN si sovrappongono quasi cinquanta livelli informativi vettoriali, che ritraggono concentrazioni e dispersioni di ceramica rinvenute in ricognizione sulla superficie dei campi, strutture antiche di qualunque tipo, la geologia, la natura dei terreni, le fonti d’acqua, le risorse naturali, le caratteristiche degli approdi marittimi, i percorsi di spostamento e molto altro. Queste informazioni ed il modello 3D sono state analizzate congiuntamente per simulare e spiegare comportamenti degli antichi nei confronti dell’ambiente (Monti 2002a).
[[figure caption="Fig. 2: Il modello tridimensionale dell’isola di Pantelleria, realizzato nell’ambito della missione attraverso la digitalizzazione manuale delle curve di livello dell’isola desunte dalla cartografia CTR 1:10000."]]figures/2006/02monti/02monti_2006_02.jpg[[/caption]]Abbiamo studiato l’impatto del vento sulla vegetazione, le aree invisibili dal mare, le difficoltà di spostamento interne ecc. Ci siamo allora resi conto che l’insediamento di epoca punica e poi romana si è espanso muovendo, attraverso i secoli, dal versante NO dell’isola, meno acclive, più fertile, meno sferzato dal vento, più ricco di fonti d’acqua e meglio servito da approdi naturali, verso le zone periferiche ed aspre del centro e del versante SE, le quali sono state preferite nell’alto medioevo, con il manifestarsi del clima di insicurezza seguito alla caduta dell’Impero Romano (Monti 2002b).
In questo caso il GIS ci ha fortemente supportato nel comprendere il principale fenomeno di lunga durata nella storia antica dell’isola.
Una fortezza da analizzare: la rocca di Riolo Terme
Il terzo caso riguarda un GIS molto diverso, quello di un edificio: la rocca tardo medievale di Riolo Terme (Monti 2002c). Come tutte le fortificazioni essa deve le sue forme alla sua funzione, quella di opporre la massima capacità difensiva agli attacchi di un eventuale aggressore. Riolo poi è una fortificazione particolare, perché appartiene al gruppo delle “rocche della transizione”, cioè a quelle strutture nate come ultimo gradino evolutivo dei castelli medievali, sotto la spinta della diffusione dei primi cannoni. In questo caso la questione fondamentali era comprendere i ragionamenti difensivi degli artefici della fortezza sulla base delle forme di ciò che essi avevano realizzato. Infatti ogni singolo accorgimento, dalla forma delle torri alla lunghezza dei tratti di mura che le separano, alla posizione delle troniere (le finestre dalle quali sparavano i cannoni dei difensori) ricoprivano loro specifiche funzioni. Ho deciso di realizzare un semplicissimo GIS basato su due modelli tridimensionali: il primo è quello dell’area territoriale della rocca e del borgo di Riolo, ed il secondo quello delle strutture della rocca e delle mura. Sul secondo modello sono poi stati posizionati tutti gli apparati difensivi, in particolare le troniere, suddividendole per tipologie e ponendole alla quota e nella posizione reale. Infine, utilizzando l’algoritmo viewsheed (una procedura codificata su comando che identifica lo spazio visibile da uno o più punti a partire dai quali si effettua l’analisi), ho calcolato cosa si vedesse da ogni troniera, il che equivale a ciò che gli artiglieri potevano colpire, e sommato le singole aree visibili. Il risultato è una mappa del territorio di Riolo suddivisa in cinque livelli di “pericolosità di approccio” alla rocca, che equivalgono alle probabilità che un aggressore aveva di essere colpito da un maggiore o minore numero di cannoni dei difensori e da quelli di grosso o piccolo calibro.
[[figure caption="Fig. 3: Analisi della pericolosità di approccio alla rocca di Riolo Terme: la mappa mostra la suddivisione dello spazio intorno alla fortificazione, i cui toni di colore dal verde al rosso sono proporzionali al numero e calibro dei cannoni che erano in grado di colpirne ogni zona."]]figures/2006/02monti/02monti_2006_03.jpg[[/caption]]In questo caso il GIS ha prodotto informazioni su situazioni puntiformi del territorio ben difficilmente ottenibili in maniera diversa.
Progetto Rio La Venta: ricognizioni di superficie nella selva El Ocote
L’ultimo caso riguarda invece un problema scientificamente tutt’altro che risolto: ci troviamo nella selva El Ocote, stato del Chiapas, Messico, nell’ambito della missione Rio La Venta, dell’Associazione Rio La Venta (Badino et al. 1999). Qui ancora una volta mi sono occupato del GIS territoriale e delle ricognizioni di superficie. Durante questa prima missione di ricognizione per sei settimane abbiamo vissuto e lavorato in una tendopoli a quattro ore di fuoristrada all’interno della selva, forniti di corrente grazie ai gruppi elettrogeni e con l’acqua da recuperare a mano in due pozzi posti a circa venti minuti di marcia dal campo.
I problemi da risolvere erano notevoli: l’unica base cartografica esistente è una carta topografica in scala 1:50000, ma la nostra zona, essendo semplicemente selva inabitata, compare solo come una grossa macchia verde; vi sono segnalate comunque le curve di livello, ad equidistanza di cinquanta metri. La ricognizione consisteva nel decidere in quale direzione andare, fare un rilevamento con la bussola e buttarsi a capofitto nella selva avanzando con il machete, ad una velocità di un centinaio di metri all’ora. Ovviamente il problema più grosso è il posizionamento dei siti archeologici rinvenuti: la visuale intorno è di qualche metro, perché siamo nel folto della foresta, e dunque non sono visibili nemmeno i punti di riferimento dei quali pure si possa conoscere l’esistenza; inoltre i GPS non funzionano a causa della fittissima coltre arborea. In questo caso l’unica soluzione era quella di realizzare complesse poligonali trigonometriche basate su rilevamenti magnetici a bussola e valutazione empirica delle distanze percorse a piedi sul terreno impervio, sovrapponendo poi il tutto al modello 3D. Quest’anno siamo riusciti in questo modo ad individuare e posizionare una trentina di siti sconosciuti e ad avanzare le prime ipotesi di suddivisione territoriale (Monti 2003b).
Anche in questo caso credo che lo standard non sia esattamente quello prescritto dai manuali di GIS che si usano nelle facoltà universitarie, nemmeno nelle nostre. E tuttavia questo è un altro impiego reale, un’altra situazione nella quale o si procede in questo modo o non si procede affatto.
Conclusioni
Ciò che a noi interessa non è dire “adesso non si può fare” aspettando di avere tempi e risorse che, nel panorama di crisi della ricerca attuale, sono sempre più improbabili, ma migliorare le nostre conoscenze sull’uomo antico operando nelle condizioni reali, nelle quali è davvero possibile agire con i mezzi usualmente disponibili. Usando i GIS come strumenti che aiutano a pensare, e sapendo che questo è, secondo noi, il loro migliore uso possibile. I casi che abbiamo presentato rappresentano altrettanti tentativi per utilizzare la tecnologia GIS quale strumento in grado di implementare i risultati delle analisi condotte sui dati resisi disponibili grazie a fonti di vario tipo. Essa non si sostituisce alla riflessione condotta sui dati dal ricercatore, ma costituisce un ausilio atto a rendere più rapida, precisa, coerente ed oggettiva la visualizzazione e misurazione dei dati stessi, durante il processo conoscitivo destinato a trarne informazioni storiche. In questo campo la sperimentazione, condotta su contesti reali ed avvalendosi di strumentazione e software di disponibilità quotidiana, rappresenta la principale via per aumentare sempre più l’utilità dello strumento stesso.
Riferimenti bibliografici
Essendo il contributo basato principalmente su riflessioni ed esperienze dell’autore, qui si riporta solo la bibliografia utile per chi volesse approfondire la conoscenza sui casi menzionati.
Buora e Santoro 2003: M. Buora, S. Santoro, (a cura di), Progetto Durres; l’indagine sui beni culturali albanesi dell’antichità e del medioevo: tradizioni di studio a confronto, «Antichità Altoadriatiche» LIII, Trieste 2003.
Badino et al. 1999: G. Badino et alii (a cura di), Rio la venta; tesoro del Chiapas, Padova 1999.
Monti 2002a: A. Monti, Insediamento di epoca classica a Pantelleria: un’ipotesi basata su ricognizioni e GIS, contributo nell’ambito del XV Convegno internazionale di studi su “L’Africa Romana”, Tozeur (Tunisia), 13-17/12/2002, in corso di stampa.
Monti 2002b: A. Monti, Archeologia ambientale a Pantelleria: un modello insediamentale per i siti di epoca tardopunica, in «L’Africa Romana» XIV, atti del convegno di studi, Roma 2002.
Monti 2002c: A. Monti, La rocca di Riolo come strumento bellico: le sue forme, il suo funzionamento, la sua evoluzione in Aa.Vv., Riolo e la sua rocca: appunti di storia e d’archeologia, Faenza, 2002.
Monti 2003a: A. Monti, L’archeologia sul terreno: ricognizione di superficie e GIS, in S. Santoro Bianchi (a cura di), Pantellerian ware: antiche pentole di Pantelleria, Palermo, 2003.
Monti 2003b: A. Monti, Archeologia ambientale nella selva El Ocote: prime considerazioni su problemi, metodologie e risultati, atti del XXV Convegno Internazionale di Americanistica, Perugia, 22-26 Maggio 2003, in corso di stampa.
Santoro e Monti 2003: S. Santoro, A. Monti, Carta del rischio archeologico della città di Durres, Durazzo 2003.