Concepita alla fine degli anni Ottanta come una critica femminista al potere dello Stato liberale nella tarda modernità, la riflessione proposta da Wendy Brown nelle pagine di States of
Injury si interroga sui poteri all’interno dei quali prende forma l’opposizione politica democratica e radicale per comprendere come possa sottrarsi ai regimi contemporanei di
unfreedom[1]. Guarda ai movimenti sociali, dunque, ma senza confondere il «discorso politico accademico» con quello «popolare».
Non propone un «programma politico» ma una critica teorica dalla quale emerge «an amorphous but insistent vision of an alternative way of political life» che non è legata a principi politici fissi
ma è inseparabile dall’attività di critica del presente[2]. Irriducibile a un “discorso sul mondo” – del quale non può mai trasmettere
un’immagine completa e oggettiva –, intraducibile in prassi politica, la critica teorica rimane in una posizione “scomoda” rispetto alla realtà e ai movimenti sociali. Un «imbarazzo accademico» che
è produttivo quando resta aperto alle tensioni tra il mondo e le sue “contestazioni”, limitandosi perciò a esercitare una funzione diagnostica, ripensando continuamente i propri
assunti[3].
Anche se rivolge la propria critica allo Stato liberale, Brown non riduce quest’ultimo alle logiche e ai dispositivi della sovranità, ma guarda alle sue trasformazioni con un’attitudine
epistemologica «postmoderna», che impone alla critica femminista di rinunciare alla donna e al suo “punto di vista” per comprendere i regimi di potere all’interno dei quali le donne sono
posizionate e situate. A questa “rinuncia al soggetto” corrisponde una specifica comprensione delle dinamiche di riproduzione del potere sociale, della “reciproca implicazione” tra il potere e le
sue contestazioni, alla luce della quale definire le possibilità di sottrazione e libertà che i movimenti sociali, e quelli delle donne in particolare, sono in grado di esprimere. A partire da
questi presupposti, Brown sviluppa una critica alle rivendicazioni articolate in termini di diritti: mettendo in luce la potenza disciplinare della dimensione giuridica e burocratica dello
Stato, è possibile valutare il portato trasformativo del discorso dei diritti e pensare così alcune delle sfide e delle possibilità che oggi investono la riflessione politica e i movimenti delle
donne.
1. Il volto maschile del potere
L’analisi sviluppata da Brown approda a una critica allo Stato – forma tipicamente moderna del potere politico – inscrivendolo nell’orizzonte della postmodernità. Una
configurazione della vita sociale, politica ed economica di incerta definizione, segnata da una frammentazione sociale non più componibile in unità, dal trionfo del capitale su scala globale, da
una crescente concentrazione della proprietà privata resa possibile non da un accentramento della produzione ma dalla sua diffusione reticolare. Questo processo investe anche le trasformazioni
contemporanee del potere politico: «postmodern capitalist power, like post-modern State power, is monopolized without being concentrated or centered; it is tentacular, roving and penetrating,
paradoxically advanced by diffusing and decentralizing itself»[4].
Se si riconosce il carattere diffuso e capillare del potere nella postmodernità è necessario anche un approccio analitico volto a ricostruirne gli «effetti locali». Brown propone così una critica
allo Statoattraverso l’epistemologia foucaultiana, nonostante per Foucault sia necessario abbandonare l’analisi delle «forme regolate e legittime del potere a partire dal loro centro», per
«cogliere il potere alle sue estremità, […] nelle sue istituzioni più regionali, più locali», sempre meno giuridiche nel loro esercizio[5]. Ma questa avvertenza metodologica esprime – secondo Brown – la tensione tipicamente liberale a ridurre la questione dello Stato al problema della legittimità del potere sovrano,
impedendo di guardare a esso come luogo di quel potere disciplinare, non-sovrano, non-repressivo ma produttivo, microfisico e capillare, che Foucault ritiene di poter analizzare solo
distogliendo lo sguardo dallo Stato sovrano. Il punto è dunque questo: Brown guarda allo Stato proprio perché coglie l’invito foucaultiano a trattare il potere non nei termini di sovranità
ma di tecniche e tattiche di potere, e sottolinea al contempo i limiti della teoria politica contemporanea che da esso ha preso le distanze mentre si consolidava la sua forma “tardo-moderna” di
dominio[6].
L’approccio di Brown può essere dunque collocato nel quadro del dibattito accademico intorno alle crisi e alle trasformazioni dello Stato nell’era della globalizzazione, riconoscendo – come lei
stessa fa nei suoi scritti più recenti – tanto il progressivo declino della sovranità degli Stati nazione di fronte all’emergere di nuovi attori economici e politici sovranazionali[7], quanto la possibilità di analizzare le modalità di esercizio dello «State domestic power» a partire da una determinazione dei tipi di dominio che
esso veicola. Ciò significa individuare nel processo di decentramento e diffusione del potere statale una delle modalità specifiche di espressione del potere sociale maschile e della
produzione di soggetti femminili. Ma la presa d’atto del carattere sessuato dello Stato non comporta un riferimento a “qualità essenziali” dell’uomo: si tratta piuttosto di
interrogarsi sul modo in cui il potere statale sostiene e veicola quello maschile come potere di descrivere e gestire il mondo e come potere di accedere alle donne, mettendo in
atto pratiche di controllo su «territori sociali» – semiotici oltre che geografici – e tecniche di marginalizzazione, subordinazione, produzione dell’«altro». Lo Stato si sarebbe progressivamente
appropriato di tutti quei poteri – prima esercitati direttamente dagli uomini – che danno forma alla vita delle donne; le sue istituzioni, le sue pratiche e i suoi discorsi sarebbero perciò
inestricabilmente legati alle prerogative e al dominio maschili. Una linea di lettura che interagisce direttamente con – e interroga – quei dibattiti femministi che proprio allo Stato si rivolgono
rivendicando forme di regolazione delle tecnologie riproduttive e della pornografia, riforme del mercato del lavoro e del welfare orientate alla perequazione salariale e al sostegno economico del
lavoro di cura[8], o un più ampio accesso delle donne alle funzioni politiche e istituzionali[9]. Posizioni che non possono essere confinate al contesto statunitense dal quale la riflessione di Brown prende le mosse ma che, come si cercherà di indicare più avanti, trovano
espressione anche nel contesto europeo e, più specificamente, italiano.
Coerente con una prospettiva epistemologica postmoderna, Brown propone l’itinerario di una critica femminista dello Stato attraverso l’analisi delle sue complesse strategie, tecnologie e pratiche
discorsive[10]. La sua critica della dimensione giuridico legislativa o liberale dello Stato rimanda precisamente
all’«ordine del discorso», a una concezione del liberalismo come «narrazione» che, a un tempo, costituisce e maschera determinati rapporti sociali di potere come pure i soggetti di quei
rapporti[11]. A quest’altezza, è interessante notare che Brown sviluppa la propria critica nel saggio intitolato Finding the Man
in the State, che sembra rovesciare la definizione del liberalismo contenuta in The Man versus the State di Herbert Spencer, secondo il quale «liberalism habitually stood for
individual freedom versus State-coercion»; ricercare l’uomo nello Stato significa affermare che fra i due termini non vi è affatto l’alterità e il contrasto segnati da quel
versus, e permette inoltre di mostrare che lo Stato non sta genericamente di fronte agli individui ma è al contrario funzionale alla riproduzione dei rapporti sociali attraverso la
garanzia dei dispositivi contrattuali. Si può ricordare, ad esempio, in che modo Spencer giustifica la concessione del diritto di proprietà alle donne sposate come l’effetto della consapevolezza
«that the natural connexion between labour expended and benefit enjoyed, is one which should be mantained in all cases»[12]. Lungi
dall’essere statico, l’ordine liberale è capace di innescare dinamiche di inclusione per via contrattuale che riproducono, proprio perché li trasformano, determinati rapporti di dominio. Sono
questi, come si vedrà, gli assi portanti della critica femminista dell’ordine liberale condotta da Brown.
Astraendo volutamente dalle differenze interne alla “tradizione liberale” ne isola la struttura portante, una tripartizione tipicamente hegeliana tra Stato, società civile e famiglia come luoghi
peculiari, rispettivamente, dell’universalismo politico, del particolarismo economico, e della collettività dei legami affettivi e dei bisogni. A fondamento di questa struttura vi è una divisione
sessuale del lavoro riproduttivo nella quale si esprime un rapporto di potere mascherato da un processo di “naturalizzazione”: facendo della famiglia lo spazio naturale della “donna”, il
liberalismo nasconde il carattere storicamente e socialmente determinato della sua subordinazione, depoliticizzando il lavoro-non-pagato delle donne nella sfera domestica. Quest’ultima è così
costruita come luogo di accesso pressoché illimitato alle donne e al loro corpo da parte dei mariti e dei figli, uno spazio tendenzialmente impermeabile all’intervento dello Stato, anche al
semplice riconoscimento della violenza maritale come violenza[13]. Brown riprende in questo modo l’ormai classica critica di
Carole Pateman al contratto sociale come discorso che, obliterando il contratto sessuale e la soggezione originaria delle donne, nega il carattere politico della loro subordinazione
dislocando nel privato il dominio patriarcale. Il suo intento è però quello di mostrare le implicazioni più radicali del disorder of women rispetto all’ordine liberale[14]. Pateman, infatti, guarda alla possibilità di realizzare un’equità contrattuale nell’economia domestica, nel lavoro salariato, o nell’ambito delle
tecnologie riproduttive, a partire dalla considerazione che «lo sfruttamento è possibile proprio perché […] i contratti in cui è in gioco la proprietà della persona mettono il diritto di comando
nelle mani di una delle parti contraenti»[15]. Al contrario, Brown vuole sottolineare il carattere costitutivamente sessuato
dell’ontologia politica liberale: quest’ultima esprime una concezione dell’uguaglianza come sameness, il cui opposto concettuale non è la disuguaglianza – un’ingiustizia che può darsi solo
tra simili – ma la differenza – relegata a un problema delle donne. Nominando la donna come differente, questa formulazione sessuata dell’uguaglianza garantisce il
dominio di un uomo che si eleva a misura universale costituendo se stesso come il medesimo, che proclama la propria libertà a partire dalla riduzione della donna all’immanenza del corpo,
alla necessità, al destino biologico della riproduzione[16].
La “potenza ordinativa” esibita così dal discorso liberale può essere compresa pienamente nel suo intreccio con la dimensione capitalistica del potere statale. Brown è attenta a non
confondere le due dimensioni, la cui interazione può essere valutata solo storicamente, ma individua alla base del rapporto sociale capitalistico una divisione sessuale del lavoro che, per quanto
erosa dal progressivo collasso dello “scambio familiare” tra il salario maschile e il lavoro non-pagato delle donne, è tutt’altro che scomparsa. Al contrario, proprio perché il lavoro
riproduttivo non-pagato continua a essere una mansione “naturalmente femminile”, le donne sono costrette a entrare nel mercato del lavoro salariato in una posizione di svantaggio e a essere
dipendenti, in misura maggiore o minore, dal salario di un uomo. Oppure, da un welfare che, garantendo un livello minimo di sopravvivenza a un numero crescente di single mothers, o
welfare mothers, di quell’uomo fa le veci. Questa forma sessuata di Stato sociale insieme alla protezione dei diritti proprietari, alla regolazione politica del matrimonio, della
sessualità, della contraccezione e dell’aborto, fa dello Stato un attore chiave nella perpetuazione della divisione sessuale del lavoro capitalistica, che si dà anche nel momento in cui il lavoro
domestico delle donne sempre più è disponibile per l’acquisto sul mercato[17]. L’uscita delle donne dalla sfera domestica non
corrisponde dunque alla loro liberazione dal lavoro riproduttivo. Anche se le trasformazioni contemporanee dei rapporti sociali erodono il confine tra pubblico e privato, l’ordine discorsivo cui è
ancorato quel confine continua a determinare la posizione delle donne e a supportare quel “destino domestico”, quella “naturalizzazione del loro ruolo”, messi a valore nel processo di riproduzione
sociale. La dipendenza delle donne dal salario maschile nella sfera domestica è dislocata sul piano delle sovvenzioni e dei servizi erogati dallo Stato che, come elargitore di protezione, assume –
almeno parzialmente – il ruolo maschile del breadwinner.
Analizzando il carattere sessuato del welfare, Brown sottolinea una significativa ambiguità: mentre esso “protegge le donne” e fornisce loro un innegabile supporto, le “addomestica”[18], rendendole soggetti oltre che dipendenti, docili e disciplinati. Questa reciproca implicazione tra protezione e soggezione emerge anche
dall’analisi della dimensione della prerogativa del potere statale, che si esprime non solo nell’uso arbitrario della forza fisica, ma anche più in generale nell’arbitrio che si applica
alle politiche pubbliche. A tal riguardo, Brown sostiene che, pur avendo promesso una radicale riduzione di questa dimensione del potere, il liberalismo l’ha in realtà riorganizzata nel potere
militare e di polizia o in quelle zone, identificate come private, in cui si esprime come subordinazione e violenza ai danni delle donne. Ripercorrendo la narrazione weberiana dell’origine dello
Stato, la sua «prefigurazione» nelle leghe guerriere e nel potere patrimoniale, è possibile mostrare in che modo l’autorità del maschio nella sfera domestica coincide con la sua capacità fisica di
fornire ai soggetti altrimenti vulnerabili protezione dalla violenza maschile istituzionalizzata nelle leghe. Svincolati in modo pressoché completo da ogni interesse economico e da ogni relazione
familiare, infatti, «coloro che appartengono all’androceo comperano o rapiscono le fanciulle, oppure pretendono che le fanciulle della comunità da essi dominata siano a loro disposizione finché non
siano date in matrimonio»[19]. All’origine dello Stato si può dunque rinvenire una politica maschile di scambio, violazione,
protezione e dominio delle donne che sono in questo modo costruite come oggetti deboli, vulnerabili, creature aliene dalla ricerca di gloria e di potere. E tuttavia, poiché nella
sua configurazione contemporanea il potere statale della prerogativa è ciò che “protegge” le donne dallo stupro, dalla dipendenza da compagni brutali, dalla fame, da una prerogativa che i maschi
continuano a esercitare direttamente in modo niente affatto attenuato, essa rappresenta, secondo Brown, la dimensione più difficile da contestare in una prospettiva femminista[20].
Il problema così sollevato non è però riducibile a una questione di archeologia antropologica; seguendo fino al suo epilogo l’itinerario weberiano, esso conduce direttamente alla dimensione
burocratica dello Stato, laddove quest’ultimo esprime tutta la sua potenza disciplinare. La burocrazia può essere vista come espressione della “diffusione postmoderna” del potere statale che,
esercitandosi sempre meno apertamente e sempre più pervasivamente, intensifica il controllo sociale e politico. Essa è un veicolo attivo della progressiva erosione dei confini, pure formalmente
riconosciuti, tra potere politico, sfera domestica e impresa privata. In questa riorganizzazione del potere burocratico dello Stato, che richiama inevitabilmente le logiche della
governance contemporanee[21], Brown individua il trionfo della razionalità strumentale occidentale, che è maschile nella
misura in cui esprime una volontà di controllo che definisce come femminile ciò che è incontrollabile e ciò che deve essere controllato – dalla natura al corpo politico. In questa istanza
onnipervasiva di controllo va ricercato il carattere disciplinare della dimensione burocratica del potere statale: il prezzo della protezione istituzionalizzata è sempre, in qualche misura, una
dipendenza e un accordo con le regole del protettore, che al contempo produce tra donne divisioni e gerarchie definendo alcune come violabili e, in quanto tali, meritevoli di protezione, e
altre come logicamente inviolabili perché segnate da una piena disponibilità, prima di tutto sessuale[22].
Nonostante sia mossa da uno sguardo alle condizioni di vita e di lavoro delle donne nordamericane e alimentata dal dibattito politico e accademico nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo
scorso, la riflessione di Brown può trovare un terreno fertile di applicazione al di là di queste coordinate, che pure è attenta a esplicitare. Anche al di fuori dei confini statunitensi, nel
contesto italiano, lo Stato è uno dei nodi e dei veicoli che agisce, o pretende di agire, sui corpi delle donne – come dimostrano la legge sulla procreazione medicalmente assistita, insieme ai
rinvigoriti dibattiti in sede istituzionale sull’aborto e la contraccezione; è protagonista di modalità di appropriazione del discorso – particolarmente in merito alla violenza sessuale – volte a
costruire le donne come vittime e soggetti vulnerabili per legittimare pratiche di arbitrio poliziesco nei confronti di fasce marginali della popolazione; garantisce una regolazione del mercato del
lavoro che “penalizza” le donne e riproduce la divisione sessuale del lavoro riproduttivo “istituzionalizzando” il loro “destino domestico” – come avviene nel governo dei flussi migratori, dove le
cosiddette “badanti” sono nominate al femminile già nei testi di legge[23]. Nello stesso tempo, il dibattito accademico e politico
delle donne si concentra su opzioni di riforma sociale orientate alla perequazione salariale, alla “liberalizzazione” delle tecnologie riproduttive, alle politiche di empowerment o di pari
opportunità, che continuano ad assumere lo Stato come proprio referente[24]. Si tratta, in tutti i casi, di prospettive necessarie,
che si interrogano su come trasformare concretamente la vita delle donne moltiplicando le loro possibilità di azione e i loro spazi di libertà, e tuttavia è altrettanto necessario considerare in
che modo simili rivendicazioni rischiano di riprodurre, anziché disarticolare, quel potere maschile che nello Stato trova un proprio “alleato”. E domandarsi come una simile questione possa
estendersi alle istituzioni sovranazionali che sempre più interagiscono con i dispositivi di governo statali.
Il punto è produrre una critica femminista capace di comprendere le dinamiche di riproduzione del potere sociale maschile e di sottrarsi a esse. Ma rispetto alle possibilità di questa
critica, il discorso di Brown pone una questione fondamentale. Il suo itinerario attraverso le quattro dimensioni del potere dello Stato liberale, infatti, si muove nell’ottica di articolare «some
of the mechanism of pervasive and unsystematic male domination» senza la pretesa di dedurre da questa articolazione «the precise identity of particular women and men»[25]. L’analisi del welfare sviluppata da Brown mostra che i soggetti sono regolati attraverso schemi classificatori che nominano o normalizzano
comportamenti e posizioni sociali, che producono identità sociali, nella misura in cui producono categorie di regolazione che attraversano in modo trasversale le identità
giuridiche basate sui diritti astratti. Come è possibile allora “identificare” la “donna”, se questo termine è significato attraverso pratiche maschili di appropriazione del discorso, se le donne
sono posizionate da specifici rapporti sociali di produzione e complessi dispositivi disciplinari di potere? Che cosa accade se a questo potere che produce identità si contrappongono movimenti che
traducono la loro identità in identità politica,rivendicando su questa base un riconoscimento? Che cosa accade quando queste identità politiche fanno proprio il discorso liberale,
innescano una protesta contro l’esclusione basata su un’invocazione di giustizia, sulla rivendicazione di diritti? Nel contesto contemporaneo del discorso liberale e
burocratico-disciplinare, quale riconoscimento politico possono cercare le rivendicazioni su base identitaria che non provochi una nuova subordinazione del soggetto, esso stesso storicamente
soggiogato attraverso le identità, attraverso categorie come razza o genere che emergono e circolano come termini di potere per produrre subordinazione? Nella critica femminista di Brown è
contenuta, in altre parole, una radicale messa in crisi delle condizioni di possibilità della critica femminista. Da quale posizione può esercitarsi, chi è il suo soggetto, è possibile parlare “dal
punto di vista delle donne” per costruire discorsi e pratiche di opposizione al potere, se si riconosce che le donne sono il prodotto dei regimi di potere all’interno dei quali sono
inscritte?
2. Rivendicare un habitat politico amorale
Brown considera la «svolta postmoderna» della teoria politica femminista come un’attitudine epistemologica orientata a comprendere i dispositivi e le dinamiche contemporanee del potere e,
con esse, le modalità di costituzione dei soggetti. Questo sguardo alla realtà incontra la tensione storicamente espressa dal femminismo a politicizzare pratiche e discorsi ideologicamente
“naturalizzati”, e raccoglie un’“eredità femminista” di critica ai modelli e alle pratiche maschili del soggetto[26]. Brown ha in
mente, in particolare, la riflessione di Luce Irigaray, la sua convinzione che «ogni teoria del soggetto si trova sempre a essere appropriata al “maschile”»[27], e quella di Judith Butler, secondo la quale anche la “donna”, come soggetto del femminismo, «is produced and restrained by the very structures of power through which
emancipation is sought», e non può essere tradotta in «identità» collettiva se non rinunciando a considerare quelle modalità di produzione discorsiva delle identità, come la classe, la razza,
l’organizzazione della sessualità, che non sono riducibili al genere[28].
Accanto a queste continuità, però, Brown registra le diffidenze espresse da alcune femministe nordatlantiche di fronte a un’epistemologia che sembra minare alle fondamenta la possibilità di parlare
delle donne come soggetto collettivo[29], e con quelle diffidenze si confronta criticamente. La sua attenzione è rivolta a chi, come
Nancy Hartsock, considera il postmodernismo una minaccia per «coloro che sono marginalizzati». La teoria foucaultiana del potere, l’idea che esso circoli tra gli individui e non possa essere
ridotto al dominio di un gruppo su un altro, farebbe svanire dal discorso ogni rapporto di potere sistematico rendendo impossibile stabilire dove si danno i rapporti di potere tra i sessi,
mentre si riafferma – nonostante Foucault intenda criticarla – una concezione astratta dell’individuo, privato delle sue determinazioni di genere, razza, classe. Per arginare queste minacce,
secondo Hartsock «we need to be assured that some systematic knowledge about our world and ourselves is possible», di costruire «an account of the world as seen from the margins» che sia capace di
“smascherare” il mondo così come è visto dall’alto e, di conseguenza, di trasformarlo[30]. Una critica che Brown associa a quella di
Sheila Benhabib, secondo la quale l’alleanza tra femminismo e post-strutturalismo, mettendo in questione lo status del soggetto, mina alle fondamenta la possibilità di una «coscienza
dell’oppressione» e con essa di una politica emancipatoria, facendo venir meno la stessa ragion d’essere del femminismo come «critical theory of the present» il cui punto di partenza sarebbe,
invece, proprio un’epistemologia basata sulla sessualizzazione [engendering] del soggetto[31]. I rischi impliciti
nella tensione ad affermare un «punto di vista delle donne» per costruire una «coscienza dell’oppressione» e, con esso, un’analisi sistematica del potere si manifestano, secondo Brown, nel
discorso di Catherine MacKinnon, che propone un’ermeneutica dei rapporti sociali delle donne a partire dalla loro «sexual objectification». Portando alle estreme conseguenze alcune premesse
analoghe a quelle di Hartsock e Benhabib, MacKinnon riconosce che la “donna” è un costrutto sociale, e fa della sessualità il luogo specifico di costruzione del genere a partire dall’espressione
del potere sociale maschile, che nella pornografia trova la sua più compiuta espressione come «violazione dell’impotente» e «intrusione nel corpo della donna». Costituite come oggetto sessuale, le
stesse donne arriverebbero a identificare il sesso con la violenza, la propria sessualità con lo stupro e l’incesto. Con questo processo sarebbe necessario fare i conti, nella prospettiva di
costituire una teoria femminista critica della pornografia il cui punto di partenza sarebbe «the theory of the point of view of all women on social life» come critica a una vita sociale costruita
dal punto di vista dell’uomo[32].
Brown non è indifferente alle difficoltà e ai problemi che si esprimono nelle posizioni appena considerate. Per comprendere in che modo tali istanze sono “riconciliate” con un approccio
epistemologico postmoderno, tuttavia, è necessario considerare gli aspetti critici che esibiscono ai suoi occhi. Sviluppata in modo davvero originale attraverso il ricorso alla teoria nietzscheana
del ressentiment, la lettura di Brown è orientata a fare emergere un essenziale limite analitico delle “teorie del punto di vista”, cioè la presunzione di un’identità delle donne che, per
quanto socialmente costruita a partire dalla loro esclusione e subordinazione, non interroga fino in fondo i rapporti di potere che l’hanno determinata e rischia perciò di alimentarli. Un rischio
che, come si vedrà, si fa concreto nelle rivendicazioni di diritti, nel loro paradossale effetto di riproduzione dei rapporti di potere ai quali si oppongono.
La riflessione di Brown prende le mosse da Genealogia della morale, dove Nietzsche individua all’origine del termine buono un’espressione di potere. Buono non è niente più che
«nobile», «potente», «bello», «felice, «caro agli dei». Un significato di potere, un’equazione di valore, rovesciati dalla «spirituale vendetta» messa in atto dagli impotenti, il gesto originario
di una «rivolta degli schiavi nella morale»[33] che ha inizio quando il ressentiment di coloro a cui è negata l’azione
«diventa esso stesso creatore e genera valori» consolidandosi «attraverso una vendetta immaginaria»:
«Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro, un “non io”, e questo no è la sua azione creatrice. […] La morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, […] la sua azione è fondamentalmente una reazione»[34].
All’impotenza si dà «il pomposo travestimento della virtù rinunciataria», come se «la debolezza stessa del debole […] fosse un’azione, un merito»[35]. Mascherata dentro un’attività di second’ordine, quella dell’adattamento, viene meno l’attività in senso proprio, viene disconosciuta quella che Nietzsche considera
«l’essenza della vita», la sua volontà di potenza[36].
Il discorso nietzscheano permette di mostrare, secondo Brown, in che modo l’identità che si afferma attraverso il ressentiment non può fare a meno del suo oppressore, presume senza mettere
in questione il potere che l’ha prodotta. Una simile constatazione non intende negare il significato politico dei movimenti che si sono affermati politicizzando la propria subordinazione o la
propria esclusione dall’ordine costruito intorno a un soggetto maschio, bianco, proprietario ed eterosessuale, che hanno «de-naturalizzato» quell’esclusione affermandosi come «historically produced
and politically rich alterity»[37]. Piuttosto, è volta a fare luce sul rischio che l’affermazione dei “margini” come
“margini” presuma necessariamente un mondo opposto ed esteriore che continua a vivere come minaccia, producendo immagini speculari della sofferenza senza trasformare «the organization of the
activity through which the suffering is produced», senza contestare la produzione dei soggetti come effetti del dominio, le dinamiche di costituzione delle categorie sociali
dell’esclusione e della subordinazione[38]. Una simile deriva, implicita anche nelle premesse di Hartsock e Benhabib, si realizza nel
discorso di MacKinnon: secondo Brown, la sua teoria del genere come interamente costituito dalla sessualità e dalla pornografia come massima espressione del dominio maschile astrae la pornografia
dal suo contesto, quello di una crisi del dominio maschile di cui può essere considerata l’effetto, e in questo modo ne consolida le logiche, “ontologizzando” il maschio
comesoggetto-dominante-consumatore di pornografia, e la femmina comeoggetto di un potere sessuale che la determina integralmente[39].
Inoltre, con la sua pretesa di affermare una «verità a proposito delle donne» a partire dal loro «punto di vista», MacKinnon rischia di riprodurre l’attitudine, anch’essa leggibile attraverso la
nozione nietzscheana di ressentiment, a interpretare la soggezione delle donne in termini morali[40]. Nelle sue posizioni,
come pure in quelle di Hartsock, l’impotenza è implicitamente identificata con la Verità, contrapposta a un potere che la distorce; la Verità è sempre e immediatamente dalla parte dei dominati e
degli esclusi, è “pura”, non è “macchiata” dal potere che può sempre, di conseguenza, biasimare. Considerate come un altrove del potere, un fuori connotato moralmente, le donne
non rinunciano solo a comprendere i rapporti di potere in cui sono collocate, ma anche a interrogarsi sulla propria volontà di potenza[41]. Una rinuncia che corrisponde, secondo Brown, al timore della politica come esperienza di una lotta priva di referenti fissi o metafisici, come terreno della presenza
irriducibile e pervasiva del potere, come conflitto amorale in merito a ciò che è giusto e buono, in cui la verità è sempre contaminata dal potere, è sempre già potere[42]. Questa attitudine “moraleggiante”, infine, trova espressione nelle pratiche, ogni giorno più diffuse, di ottenere risarcimenti di tipo
legale per le offese perpetrate alla luce di determinati attributi o comportamenti, il cui obiettivo è quello di codificare l’«infamia morale» di razzismo, omofobia e sessismo,
individualizzando la responsabilità dell’offesa. Non si tratta, evidentemente, di criticare le leggi contro la discriminazione: leggerle nei termini nietzscheani di una «vendetta consacrata sotto
il nome di giustizia» permette piuttosto a Brown di farne emergere le contraddizioni, come quella di fissare attraverso la codificazione l’immagine di coloro che subiscono l’offesa come «bisognosi
di protezione» cui è per definizione precluso l’orizzonte della lotta per la risignificazione e il riposizionamento, e di legittimare lo Stato e il diritto come «protettori»[43].
Il ricorso alla nozione nietzscheana di ressentiment permette dunque di avvertire di alcuni possibili rischi della «stand point epistemology», rischi che riguardano la sua tendenziale
rinuncia a pensare la complessità dei rapporti di potere all’interno dei quali le donne sono inscritte. Il punto di vista delle donne non sarebbe in grado di per sé,di rovesciare
l’immagine distorta dalla «camera oscura» dell’ideologia restituendo la verità dei rapporti di potere, in quanto concepisce la posizione della donna esclusivamente come posizione sociale
all’interno di una struttura stratificata e gerarchica prodotta da una determinata forma di quei rapporti. Una trasposizione – in realtà semplificata[44] – del discorso marxiano, alla quale secondo Brown non è possibile rinunciare, ma che dovrebbe essere intrecciata alla concezione foucaultiana dei soggetti come effetti
di potere[45], formati e prodotti da un potere che veicolano ed esercitano, che plasma la loro soggettività investendo la
coscienza e l’incoscienza, il corpo e la psiche, la cultura e il desiderio. Su queste basi è allora necessario domandarsi che cosa accade nel momento in cui le “identità politiche” sono considerate
non tanto o non solo come espressione della “coscienza” della propria posizione sociale all’interno di un determinato ordine, ma il prodotto di un potere disciplinare che produce quelle identità e
con esse le loro rivendicazioni[46]. Viene così sottolineato con forza un movimento di reciproca implicazione tra il potere e le sue
contestazioni, che impone di pensare incessantemente i termini del potere e delle lotte che al potere si oppongono, e che spinge Brown a interrogare le rivendicazioni che si esprimono attraverso il
linguaggio dei diritti, o invocano una protezione contro la discriminazione, mostrando i loro possibili effetti “depoliticizzanti” e il carattere regolatore dei diritti stessi[47].
La critica di Brown prende le mosse da La questione ebraica di Marx, dalla constatazione che «lo Stato può essere un libero Stato senza che l’uomo sia un uomo libero». Il fatto
che la fede religiosa non costituisca più un discrimine per accedere alla cittadinanza politica non significa per Marx che l’uomo si sia liberato dal pregiudizio religioso, ma che riconosce se
stesso per via indiretta, attraverso lo Stato, che diventa mediatore necessario tra l’uomo e la sua libertà. Le differenze tra gli individui non sono affatto soppresse: lo Stato al
contrario le presuppone, «sente se stesso come Stato politico e fa valere la propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi». Così, i presupposti della vita
materiale ed egoistica dell’uomo «sopravvivono come caratteristiche della società civile», dove ciascuno considera «gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di
forze estranee», mentre nello Stato «è membro immaginario di una comunità immaginaria, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una sovranità irreale»[48]. Secondo Brown, questa genealogia politica dell’individuo sovrano come prodotto di un processo di depoliticizzazione, che garantisce l’uguaglianza
formale astraendo dalle condizioni che producono la disuguaglianza e lasciandole libere di dispiegare i loro effetti inegualitari, permette di guardare ai diritti come la forma politica
che assicura e legittima quegli stessi effetti. Mantenendo salda la differenza tra il “discorso politico accademico” e quello “popolare”, Brown chiarisce che ciò non significa esprimersi
contro l’adozione del linguaggio dei diritti da parte dei movimenti politici che traducono l’esclusione, la discriminazione o la subordinazione in identità politica. Si tratta piuttosto di
valutare quali siano le possibilità emancipatorie che il discorso dei diritti dispiega in uno specifico contesto storico e culturale, in che modo essi mettono in discussione o invece
sostengono i rapporti di potere contro i quali sono rivendicati. La questione ebraica permette di interrogare il presente, mettendo in luce il paradosso per cui i diritti rivendicati da un
gruppo a partire dalla politicizzazione della propria esclusione sono conferiti agli individui, così che le determinazioni di classe, razza e genere rischiano di essere «ascribed to
persons as attribute or internal content rather than social effects»[49], riproducendo la depoliticizzazione implicita nel
costituzionalismo liberale. D’altra parte, ciò che risulta dalle rivendicazioni di diritti e protezione che i movimenti delle donne, dei neri o degli omosessuali rivolgono allo Stato è una
legittimazione di quest’ultimo come «mediatore necessario tra l’uomo e la sua libertà» e, conseguentemente, implica la presunzione della sua neutralità che contribuisce a mascherare e dunque
reiterare il suo carattere costitutivamente maschilista, eterosessuale e bianco[50].
Questo insieme di valutazioni è complicato, secondo Brown, dalla convergenza contemporanea tra il discorso dei diritti e una modalità disciplinare di esercizio del potere che produce
identità facendo dei diritti uno strumento per la loro amministrazione. L’esempio invocato è quello delle legislazioni orientate a colpire le discriminazioni che ostacolano l’accesso al lavoro,
alla casa o ai servizi sociali sulla base di orientamento sessuale, razza, religione, genere. Una simile legislazione ha un duplice effetto: quello di ricondurre le differenze a un “intero” (il
«noi» universale della comunità politica), rendendole indifferenti, e quello di ridurre il loro potenziale sovversivo delle norme socialmente e culturalmente codificate a qualcosa di
normale. Le differenze sono normativizzate attraverso il diritto in quanto sono normalizzate, ricondotte all’interno di categorie. Pratiche e attributi sociali come
l’omosessualità o la razza sono definiti empiricamente, come se fossero dotati di un’esistenza fattuale e non fossero invece effetti di poteri discorsivi e istituzionali che producono i soggetti,
la loro discriminazione, le loro rivendicazioni. Siamo davanti, secondo Brown, a un chiaro esempio di come il linguaggio del riconoscimento diventa il linguaggio della unfreedom, un
veicolo di subordinazione attraverso l’individualizzazione, la normalizzazione e la regolazione, anche se è finalizzato a produrre visibilità e accettazione[51]:
«as liberal discourse converts political identity into essentialized private interest, disciplinary power converts into normativized social identity manageable by regulatory regimes. Thus, disciplinary power politically neutralizes entitlement claims generated by liberal individuation, while liberalism politically neutralizes right claims generated by disciplinary identities»[52].
In queste condizioni, l’invocazione di una giustizia codificata nel diritto come modalità di protezione, che è anche sempre regolazione, rischia di trasformarsi in una «gabbia d’acciaio» che
riproduce i soggetti a partire dalla violazione e su questa base li regola, mentre consolida la forma politica del loro dominio[53].
Il prezzo da pagare è la perdita di un linguaggio per descrivere il dominio, la violazione e lo sfruttamento che producono il bisogno di diritti[54].
Brown non intende negare il valore politico che si è espresso storicamente attraverso le rivendicazioni di diritti, né prendere una posizione generale in merito a quelle rivendicazioni. Alle spalle
della sua analisi c’è la consapevolezza che è necessario ripensare incessantemente il potere sociale che determina e nello stesso tempo “colonizza” quelle rivendicazioni[55]. Il suo invito a “rinunciare alla donna” come soggetto del discorso, in questo quadro, non preclude la possibilità di pensare alle esperienze che
accomunano le donne, ma serve a sottolineare che ciò non è passibile di alcuna generalizzazione, nella misura in cui l’esperienza è linguisticamente definita, socialmente costruita, discorsivamente
mediata e mai soltanto posseduta individualmente[56]. “Rinunciare alla donna” significa, per Brown, rivendicare un habitat
politico amorale, uno spazio delle donne che non è “pulito”, rigidamente definito, disincarnato o permanente, ma eterogeneo, itinerante, relativamente non istituzionalizzato «and democratic to
the point of exhaustion», allo scopo di fronteggiare le modalità postmoderne del potere e al contempo “onorare” una conoscenza specificamente femminista:
«For the political making of a feminist future that does not reproach the history on which it is borne, we may need to loosen our attachments to subjectivity, identity and morality and to redress our underdeveloped taste for political argument»[57].
3. Un discorso volutamente incompiuto
Alcune parole devono essere ancora spese per evidenziare ulteriormente l’originalità dell’apporto teorico di Wendy Brown alla riflessione politica femminista. Si è detto che la sua analisi non è
affatto indifferente ai timori di chi, come Nancy Hartsock, vede nell’epistemologia postmoderna una riproposizione dell’individuo “neutro” dell’umanesimo liberale o che, come Benhabib, ritiene che
un’analisi della «microfisica del potere» tenda a sacrificare la critica delle macroistituzioni – lo Stato, l’economia, il sistema giuridico, le relazioni internazionali[58]. L’attenzione riservata da Brown a questo genere di “esitazioni” può essere mostrata guardando alla sua particolare problematizzazione del discorso di
Foucault, il principale “imputato” delle critiche di Hartsock e Benhabib. Anche se attinge alla riflessione foucaultiana, all’idea che il potere vada analizzato «come qualcosa che circola», come
«un’organizzazione reticolare» nelle cui maglie «gli individui […] sono sempre posti nella condizione di subirlo come di esercitarlo»; anche se non considera il potere come «un fenomeno di
dominazione compatto e omogeneo», al contrario di Foucault Brown non rinuncia a guardare al potere anche come «fenomeno di dominazione di un individuo sugli altri, di un gruppo sugli
altri, di una classe sulle altre»[59]. Se è necessario riconoscere che il concetto di «biopotere», con il suo riferimento alla vita,
rischia una costante deriva nell’universalismo, in ultima istanza simmetrica a quella implicita nel discorso dei diritti, è di conseguenza altrettanto importante sottolineare che Brown si riferisce
continuamente ai rapporti di potere come rapporti di dominio, richiamandosi in questo modo alla weberiana Herrschaft, ovvero alla persistenza di un elemento personalistico
all’interno del potere anche laddove esso appare spersonalizzato, come nello Stato burocratico-disciplinare[60]. Il potere circola tra
gli individui senza tuttavia “autonomizzarsi” da essi e ciò impedisce, evidentemente, ogni possibile neutralizzazione dei soggetti che ne sono investiti.
La critica rivolta allo Stato permette così di cogliere una significativa rettifica del discorso foucaultiano che, nell’intento di abbattere gli effetti inibitori delle «teorie globali»,
perde l’occasione di compiere un percorso ascendente di riconduzione dei poteri locali e microfisici alle forme di dominazione globale[61]. Per Brown, al contrario, un approccio epistemologico postmoderno, pur invocando per sé un carattere parziale, situato e locale, non può esimersi dal proporre un’analisi del
movimento globale delle condizioni politiche contemporanee e delle loro trasformazioni, pena la perdita della propria efficacia[62].
Operando nel solco del pensiero dialettico, Brown riconosce punti strategici del reale in cui le contraddizioni si condensano. Per queste ragioni riporta al centro della critica teorica non solo lo
Stato ma anche il rapporto sociale capitalistico, imputando proprio a Foucault – sebbene non solo a Foucault – e alla sua “liquidazione” del marxismo come teoria economicistica del potere, una
«mancanza di attenzione» ampiamente diffusa in sede accademica al capitale come specifico rapporto di dominio che non può essere “corretto” attraverso l’attuazione di politiche
redistributive[63].
Vale forse la pena di considerare, ancora, che la rinuncia al soggetto “donna” che caratterizza l’analisi di Brown non corrisponde alla complessiva «disfatta del genere» messa in atto da chi, come
Judith Butler, prende le mosse proprio dal decostruttivismo foucaultiano dando luogo a quella che Olivia Guaraldo ha definito una «”microfisica” delle istanze “trasgressive”»[64]. Il punto forte del discorso di Brown è che, pur riconoscendo nel genere un costrutto sociale e rifiutando ogni essenzializzazione di “maschio” e
“femmina”, prende sul serio il portato performativo del genere – dove performativo ha a che fare col potere che esso è in grado di esercitare sugli individui sessuati, con la produzione di
soggettività, mentre il genere rinvia alla significazione simbolica e alla traduzione culturale della differenza sessuale – la sua capacità di determinare il desiderio, compreso il
desiderio di libertà[65]. L’esito di un simile discorso non può dunque essere in alcun caso un’esaltazione delle molteplici pratiche o
performance di genere “altre” rispetto all’ordine dicotomico eterosessuale, non solo perché, come si è visto, questa alterità «non può fare a meno del discorso egemone e dominante»[66], ma anche perché ciò presume, in ultima istanza, una sorta di apologia del desiderio, il suo essere già fuori dai regimi di
potere e di verità che lo pongono in essere. D’altra parte, è proprio questa la critica che Brown rivolge a Foucault, alla sua conversione del discorso sulla resistenza da strategia
analitica – che consente di vedere il potere proprio laddove si dà resistenza – in pratica politica – per cui, se è vero che il potere produce sempre resistenza, anche il soggetto disciplinare è
capace di resistenza e, nel praticarla, pratica la libertà. In questa concezione, Brown vede un curioso ottimismo, se non addirittura volontarismo, uno strano «physicalist and insistently
nonphsychic account of power, practices and subject formation», motivato dal fatto che Foucault rimuove la «will of power» dalla complessa psicologia nietzscheana del bisogno e della frustrazione,
dell’impotenza e della compensazione[67].
Ancora la volontà di potenza, dunque. L’insistenza con cui Brown pone il problema di pensare non tanto chi siamo, quanto che cosa vogliamo, nella consapevolezza che la
risposta non è data, che implica un costante ripensamento delle condizioni in cui le donne si trovano a volere, interrogando, a partire da una comprensione di quelle condizioni, la propria stessa
volontà, e accettando la politica come esperienza di potere e di lotta. Una prospettiva che rimane deliberatamente incompiuta, aperta alla possibilità di essere attivamente contestata, «with
rejuvenated self consciousness, irony, and passion, in the difficult labour of the collective self-fashioning that is democratic politics»[68].
Note
[1] Wendy Brown insegna scienza politica presso l’Università di Berkeley, California. Per informazioni biografiche e bibliografiche www.polisci.berkeley.edu/faculty/bio/permanent/Brown,W/. Wendy Brown, States of Injuries. Power and Freedom in Late Modernity, Princeton, Princeton University Press, 1995, pp. x-xi (d’ora in poi Brown, States of Injury). Un’analisi del rapporto tra teoria e politica si trova in Eadem, At the Edge, «Political Theory», 30/4 (2002), 556-576. Produttivo è confrontare questo testo con S. Wolin, Political Theory as a Vocation, «The American Political Science Review», 63/4 (1969), 1062-1082.
[2] Brown, States of Injury, 3-4. Le parole di Brown evocano il significato attribuito da Wolin al concetto di visione, come «descrizione di un oggetto o di un evento» e al contempo «immaginazione» (S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale (1960), Bologna, Il Mulino, 1996, 33).
[3] Brown, States of Injury,xiii.
[4] Ivi, 31-32.
[5] M. Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998, 29-37. L’invito foucaultiano a liberarsi dell’ossessione dello Stato contribuisce al suo attuale successo in sede accademica (tra le pubblicazioni più recenti cfr. i saggi raccolti in S. Chignola (ed.), Governare la Vita. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de France, (1977-1979), Verona, Ombre Corte, 2006).
[6] Brown, States of Injury,18.
[7] Brown, At the Edge, cit., 557; per una lettura della globalizzazione come processo di «sconfinamento, sfondamento di confini, deformazione di geometrie politiche», che investe lo spazio politico-statuale mostrandone l’obsolescenza cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001, 133 e 139; cfr. anche Negri e Hart, che sostengono la tesi di una forma nuova della sovranità, «composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un’unica logica di potere» (T. Negri, M. Hart, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002, 14).
[8] Brown, States of Injury, 167-173, 194.
[9] Ivi, 172-173.
[10] Ivi, 176.
[11] Ivi, 142.
[12] Finding the Man in the State è l’ultimo capitolo di States of Injury, e costituisce una versione rivista del saggio già pubblicato in «Feminist Studies», 18/1 (1992), 7-34. Le due citazioni di Spencer sono tratte da The Man Versus the State (1884), Harmondsworth, Penguin books, 1969, 65 e 170.
[13] Ivi, 180-182.
[14] Cfr. C. Pateman, The Disorder of Women. Democracy, Feminism and Political Theory, Oxford, Polity Press, 1989.
[15] C. Pateman, Il contratto sessuale, Roma, Editori Riuniti, 1997, 12; Brown, States of Injury, 136.
[16] Ivi, 150-156. Per una ricostruzione del nesso tra «mistica della femminilità» e discorso liberale negli USA cfr. R. Baritono, La mistica femminilità e il modello democratico americano negli anni della guerra fredda, «Scienza & Politica», 26 (2002), 84-100.
[17] Brown, States of Injury, 184-186.
[18] La categoria di “addomesticamento” è di Maria Mies, che la utilizza per indicare il lavoro domestico come “paradigma” un processo più generale di flessibilizzazione del lavoro volto a rendere quest’ultimo pienamente disponibile (M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale.Women in the International Division of Labour (1986),London & New York, Zed Books Ltd, 1998). Il termine è usato qui per indicare il carattere disciplinare dei regimi discorsivi e istituzionali.
[19] Cfr. M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, vol. II, 467; sull’origine dell’autorità domestica nella sua superiorità fisica e nella sua capacità di difendere i sottoposti dalle incursioni esterne, Ivi, 304-305.
[20] Brown, States of Injury, 186-191.
[21] Pur non nominandole esplicitamente, Brown descrive le dinamiche tipiche dell’organizzazione contemporanea dei poteri pubblici secondo gli schemi della governance (Ivi, 18). In W. Brown, Neo-Liberalism and the End of Liberal Democracy, «Theory and Event», 7/1 (2003) la governance è vista come espressione della razionalità neo-liberale. Per il dibattito intorno alla governance cfr. G. Borrelli (ed.), Governance, Napoli, Dante & Descartes, 2004; M.R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2002.
[22] Brown, States of Injury, 191-193, 170. Al carattere maschile dei processi di razionalizzazione, analizzati attraverso la sociologia politica weberiana, Brown dedica il terzo capitolo di Manhood and Politics.A Feminist Reading in Political Theory, Totowa-New Jersey, Rowman & Littlefield, 1988.
[23] Cfr. T. Pitch, Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, Milano, Il Saggiatore, 1998; sulle migrazioni femminili, mi permetto di rimandare al mio Differenti cittadinanze. Donne migranti, lavoro, welfare,in M.I. Macisti, V. Gioia, P. Persano, Migrazioni al femminile. Identità culturale e prospettiva di genere,Macerata, EUM, 2006, 99-117; R. Andrijasevic, I confini fanno la differenza: (il)legalità, migrazione e tratta in Italia dall’Est europeo, «Studi culturali», 1/2004, 59-82.
[24] Cfr. F. Giovani, Come si perpetuano le disuguaglianze nei luoghi di lavoro in AA.VV., Che genere di potere? Forme di potere e identità femminile, Roma, ARLEM, 2000, 119-147; M.R. Marella, M. Virgilio, Una cattiva legge cattiva, in AA.VV., Un’appropriazione indebita. L’uso del corpo della donna nella nuova legge sulla procreazione assistita, Milano, Baldini Castaldi Dalai, 2004, 171-187.
[25] Brown, States of Injury, 166.
[26] Ivi, 59, 55, 39.
[27] L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, Milano, Feltrinelli, 1977, 129; Eadem, Questo sesso che non è un sesso. Sulla condizione sessuale, sociale e culturale delle donne, Milano, Feltrinelli, 1978, 102.
[28] J. Butler, Gender troubles. Feminism and the Subversion of Identity, London-New York, Routledge, 1990, 1-3.
[29] Brown, States of Injury, 38-39.
[30] N. Hartsock, Foucault on Power: A Theory for Women? in: Linda J. Nicholson (ed.), Feminism/Postmodernism, New York-London, Routledge, 1990, 157-175, 169-171.
[31] S. Benhabib, On Contemporary Feminist Theory, in: «Dissent» (Summer 1989), 366-370.
[32] C.A. MacKinnon, Sexuality, Pornography and Method: “Pleasure” under Patriarchy, «Ethics», 99/2 (1989) 314-346, 315; Eadem, Feminism Unmodified. Discourses on Life and Law, Cambridge-London, Harvard University Press, 1987, 50.
[33] F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, 2007, 23.
[34] Ivi, 26.
[35] Ivi, 35.
[36] Ivi, 68.
[37] Brown, States of Injury, 53.
[38] Ivi, 7. Le osservazioni di Brown sono commentate da Slavoj Žižek in Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Milano, Cortina, 2003, 87.
[39] Già in Manhood and Politics Brown sottolinea che non si può presumere uno schiacciamento dell’esperienza soggettiva delle donne con il ruolo e i significati assegnati loro in un ordine maschile. Ciò non significa negare la subordinazione ma evitare la “vittimizzazione” come deriva “essenzializzante” (Brown, Manhood and Politics, cit., xii).
[40] Brown, States of Injury, 26-27.
[41] A questa rinuncia corrisponde anche il rischio di una moralizzazione del potere delle donne, fondata sull’ipostatizzazione del femminile come “materno e orientato alla cura” (Brown, Manhood and Politics, cit., 208-209). Questa critica è riproposta attraverso un’originale lettura di Platone in Eadem, “Supposing the Truth Were a Woman…”: Plato’s Subversion of the Mascoline Discourse, «Political Theory», 16/4 (1988), 594-616. Più in generale,il problema può essere riportato al dibattito femminista italiano, considerando la differenza tra potere e autorità sottesa alle pratiche femminili dell’affidamento (Cfr. Diotima, Il pensiero della differenza sessuale (1983), Milano, Baldini & Castoldi, 2003, in particolare il saggio di Giannina Longobardi, Donne e potere, 105-114).
[42] Brown, States of Injury, 37 e 45. Una critica al moralismo implicito nel discorso dei diritti umani è sviluppata da Brown in “The Most We Can Hope For…”: Human Rights and the Politics of Fatalism, «The South Atlantic Quarterly», 103/2:3, (Summer-Spring 2004), 451-463.
[43] Brown, States of Injury, 27.
[44] Brown sviluppa in modo più dettagliato l’analisi del discorso marxiano su potere e ideologia in Politics out of History, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2001, 79.
[45] Foucault, Bisogna difendere la società, cit., 33.
[46] Brown, States of Injury, 118-120. Questa riflessione torna in Politics out of History, cit., 18-44.
[47] Brown complica la riflessione foucaultiana, poiché ritiene che il discorso disciplinare non si sostituisca, storicamente, a quello dei diritti ma che i diritti siano, sin dal principio, «a potentially disciplinary practice» (Brown, States of Injury, 99).
[48] K. Marx, Sulla questione ebraica,in: Id., La questione ebraica,Roma, Editori Riuniti, 1978, 55-57. Cfr. S. Mezzadra, M. Ricciardi, Introduzione a Marx, Antologia degli scritti politici, Carocci, Roma, 2002, part. 16-31.
[49] Brown, States of Injury, 109-115.
[50] Ivi, 102-103.
[51] Ivi, 66.
[52] Ivi, 59. Uno sviluppo di questo discorso attraverso alle logiche depoliticizzanti della tolleranza si trova in W. Brown, Regulating Aversion.Tolerance in the Age of Identity and Empire, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2006, part. cap. 3.
[53] Brown, States of Injury, 28.Brown si riferisce a Weber per mostrare in che modo la libertà è nello stesso tempo raggiunta e disfatta dai poteri che produce e dispiega per realizzarsi (Ivi,. 24). Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965, 304-305.
[54] Brown, States of Injury, 126.
[55] Ivi, 100.
[56] Ivi, 40-41.
[57] Ivi, 50-51.
[58] Hartsock, Foucault on Power, cit., 169; Benhabib, On Contemporary Feminist Theory, cit., 370.
[59] Foucault, Bisogna difendere la società, cit., 33.
[60] Wolin, Politica e visione, cit., 18. Cfr. W. Brown, Left Conservatism I, «Theory & Event», 2/2 (1998), dove riprende i termini del discorso foucaultiano chiarendo che non è il caso di abbandonare, quando ci si interroga su potere, la domanda articolata da Lenin nei termini di «who does what to whom».
[61] Foucault, Bisogna difendere la società, cit., 15.
[62] Brown, States of Injury, 31.
[63] Foucault, Bisogna difendere la società, cit., 21-23.Brown guarda anche alle posizioni espresse dai teorici post-marxisti, o neo-marxisti contemporanei, e dai democratici radicali come Bowles e Gintis, Laclau e Mouffe (Brown, States of Injury, 13-14).
[64] J. Butler, La disfatta del genere, Roma, Meltemi, 2006 e O. Guaraldo, Introduzione, Ivi 7-24, 19.
[65] Cfr. anche Brown, Left Conservatism, cit. Sulla performance cfr. M. Ricciardi, Performance, potere, azione politica. Appunti per una discussione, «Scienza & Politica», 36 (2007), 43-57.
[66] Guaraldo, Introduzione, cit., 19.
[67] Brown, States of Injury, 63.
[68] Ivi, xiii.