“Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo beviamo”. [Paul Celan 1998]
1. Sono i versi scarni ma possenti di una delle poesie più note dedicata alla Shoah. Todesfuge di Paula Celan, fu scritta qualche anno dopo la fine della II guerra mondiale da colui che a ragione può essere definito il più grande cantore dei campi di sterminio. Ebreo rumeno, Celan espresse la sua esperienza nei campo di sterminio nella lingua della cultura di molti ebrei dell’Europa centrale, quella lingua ricordata con nostalgia e disperazione dagli esuli ebrei, ossia quel tedesco divenuto poi la lingua dei carnefici [cfr. Canetti 1980]. Celan non si erge solo simbolicamente contro la stentorea affermazione di Adorno, ma indica anche una delle prime forme della necessità di dare voce allo sterminio. Adorno aveva affermato che “…scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie…” [vedi: Riccardo Bonavita,La Shoah e la poesia del '900].
Per il filosofo tedesco l’impossibilità della poesia dopo Auschwitz indicava anche – tra i tanti possibili significati e sfumature di quella famosa dichiarazione – la impossibilità della cultura di ergersi a segno discriminate rispetto alla barbarie. Erano forse troppo vivide le immagini dei nazisti che si commuovevano ascoltando musica classica, gli stessi che disumanizzando e sterminando interi gruppi umani salvavano con ossessione maniacale le opere d’arte? Insomma se i nazisti avevano svelato il volto arcigno, crudele della modernità e della “civiltà”, significava che l’etica borghese, che l’ideale di un progresso dell’umanità così tanto celebrato da Stefan Zweig era del tutto scomparso.
Eppure, nonostante il monito adorniano immediatamente divenuto, nel dibattito tedesco, una sorta di indicazione normativa per una nuova poetica post-Shoah, le prime reazioni che presero forma, che cercarono di dare un senso alla tragedia furono proprio quelle della “finzione narrativa”, della poesia e del falso.
Ritornerò sulla questione del falso. La poesia, come testimonia l’opera di Celan poteva giungere a risultati altissimi, sprigionando le potenzialità del linguaggio lirico nel cogliere ciò che la ragione non riusciva a spiegare, a far sentire la Shoah proprio agendo sul rapporto tra parola ed emozioni.
Se vogliamo percorrere un viaggio nella memoria della Shoah è opportuno partire proprio dalla poesia – da un lato dalla sua dichiarata “impossibilità” di darsi, e dall’altro dalla sua innegabile capacità di trasfigurare la tragedia e il trauma del genocidio nelle straordinarie potenzialità della lingua del modernismo – nella capacità di conciliare la violenza della realtà con la bellezza della parola, rinunciando all’armonia. Si trattava proprio di estetizzare il dolore e il trauma – e se ciò può sembrare immorale, vero è che solo la poesia o la scrittura di finzione permette al dolore di esprimersi attraverso una trasfigurazione letteraria che rende dicibile l’indicibile, che permette alle sensazioni, alle paure, agli orrori della psiche di cristallizzarsi nelle tecniche di composizioni letterarie.
Aharon Appelfeld, altro scrittore della Shoah, altro scrittore rumeno e ora israeliano, come Celan sopravvissuto ai campi, traeva spunto proprio dagli stessi versi della sua poesia, rispondendo ad una domanda rivoltagli da Philip Roth [Roth 2004]. Appelfeld sostiene, parlando dei sopravvissuti, dei superstiti, che «il sopravvissuto … ha ingoiato l’Olocausto tutto intero, e procede nella vita con l’Olocausto in tutte le sue membra. Beve il “latte nero” del poeta Celan, mattino, pomeriggio e sera. Non ha alcun vantaggio su nessun altro, ma non ha ancora perduto il suo volto umano» [Appelfeld in Roth 2004].
Il commento di Appelfed ci permette di capire uno dei grandi temi legati alla memoria della Shoah e alla sua trasmissione. I primi ad apparire sul campo della memoria ebraica sono scrittori e poeti che hanno vissuto l’esperienza dei campi, che hanno sperimentato la perdita di famigliari e che hanno vissuto - nel caso di Celan fino alla follia che lo portò al suicidio nel 1970 – tra il senso di colpa e l’angoscia del sopravvissuto. Colui che – parafrasando le parole di una poesia di Nelly Sachs, altra poetessa ebreo-tedesca a cui fu legato da intensa amicizia – così prega nella sua solitudine esistenziale:
«mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita» [Sachs 1966]
2. Se dobbiamo guardare alle modalità con cui venne formandosi una risposta alla tragedia europea del primo Novecento e come venne a formarsi la memoria della Shoah dobbiamo distinguere tra le voci e le reazioni dei sopravvissuti e le voci di coloro che - pur essendo ebrei – erano riusciti a fuggire dall’Europa prima della guerra. Il nucleo più significativo di queste risposte prese inizio già intorno agli anni ’30 e ’40 – cristallizzandosi nel periodo della guerra – ma nessuno, se ci affidiamo alle posizioni di Hannah Arendt, avrebbe mai potuto immaginare cosa si profilasse nell’immediato futuro.
Vorrei per lo meno ricordare che se da un lato, la trascrizione lirica o in prosa, la finzione letteraria di questa memoria si materializza tra i sopravvissuti intorno agli anni cinquanta, occorre ricordare che tutti questi autori, al di là della qualità letteraria delle loro opere, faticarono ad imporre la loro visione di ciò che era accaduto, faticarono ad imporre la loro testimonianza e di conseguenza a sdoganare la loro esperienza. La difficoltà a trovare editori si combinò spesso con un limitato successo di pubblico.
Da un lato, i sopravvissuti destinati a divenire testimoni [Bidussa 2009], non erano pronti a raccontare, per la vergogna, la paura e il trauma ancora impressi nelle carni e nelle menti. Il silenzio e forse l’oblio – per carnefici e vittime – si profilavano come prima modalità di reazione.
Il silenzio europeo, accompagnato dai diktat e timori dei sopravvissuti, è accompagnato negli anni cinquanta, tra boom economico e guerra fredda, dalla lenta emersione di Israele come stato indipendente. Uno stato che aveva visto scomparire nell’arco di cinque anni una parte considerevole del suo popolo. In un certo senso uno stato senza popolo – prima dei grandi flussi migratori scatenati dai pogrom post guerra mondiale e dalla espulsione degli ebrei dai paesi arabi – e che accoglieva ciò che rimaneva di un’umanità umiliata e scossa dall’esperienza dello sterminio. Il vissuto d’Israele di quei decenni, le storie non politiche, quelle non segnate dalla continua presenza del conflitto con gli arabi, ma dal tragico vissuto dei sopravvissuti e dei loro figli, della vergogna di chi vive lo stigma di non essersi ribellato, nel continuo desiderio di poter ritrovare qualche membro della sua famiglia, tutte queste storie sono presenti, ricorrenti, nitide tra le righe della letteratura israeliana della generazione dei figli. Sono i figli – come David Grossman, Amos Oz, Yoram Kaniuk – a dare voce alle vite degli ebrei europei, di madri e nonni, come in una sorta di continua rielaborazione di un lutto – la vita morta nel mondo europeo.
Come scrive David Grossman in uno dei suoi romanzi più belli, Vedi alla voce amore, quando si evoca l’Europa il lessico famigliare diventa allusivo e quasi cabalistico – contemporaneamente luogo del male e del desiderio, della paura e della nostalgia. L’ ambivalenza che si cristallizza in un ricordo, che diventa nostalgia e desiderio di capire, di cucire lo strappo tra il luogo della tragedia, l’Europa, e le tante storie personali, si ritrova anche nel romanzo di Amos Oz, Una storia d’amore e tenebra [Oz 2005]
È proprio in Israele, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, che viene a costituirsi un discorso pubblico sulla Shoah e sulla necessità della sua memoria come atto fondante della identità nazionale [Zertal 2007]. Nonostante ciò, ancora per molti decenni, il linguaggio pubblico della memoria della Shoah rimarrà confinato in Israele, introverso e poco visibile perché tutto sommato, la vita ebraica, si può dire, è altrove ...
Per l’appunto, la vita ebraica è negli Stati Uniti dove sono emigrati nel corso della prima metà de Novecento, milioni di ebrei, sia dall’Europa orientale che da quella centrale. È agli Stati Uniti che vogliamo ora lo sguardo per capire i primi passi di una reazione ed elaborazione del lutto del genocidio ebraico: dagli Stati Uniti arrivano voci, reazioni e forme della rielaborazione del lutto e della perdita sia della vecchia identità europea che dei propri morti. L’yiddish è ancora una lingua diffusa e di cultura – decine di fogli, di scrittori, di pubblicazioni, circolano tra New York e le stamperie di Buenos Aires, altro grande centro della emigrazione ebraica centro-orientale. Brani teatrali, musiche, lavori di finzione di vario tipo – molti dei quali non noti al pubblico italiano – pullulano sulla scena culturale newyorchese. E proprio qui che trova vita uno dei testi più famosi e controversi della memoria ebraica. Si tratta per l’appunto di Yossi Rakover si rivolge a Dio, un brano di finzione che viene scambiato per una vera testimonianza di un ebreo polacco durante l’assedio del ghetto di Varsavia.
Ritmato sul libro di Giobbe, Yossi Rakover si rivolge a Dio è un testo di straordinaria potenza, che parla del desiderio di vendetta dei “sommersi”, dell’amore per Dio e della fine di Dio. L’autore, le cui vicende sono tragicamente picaresche, è uno dei tanti ebrei dello shtetl polacco-ucraino coi suoi villaggi chassidici, così liricamente descritti da Isaac Babel [Babel 2002]. Nelle sue peregrinazioni che lo condurranno alla vera terra promessa – l’America – Zvi Kolitz passa dall’Italia alla Palestina, organizza la resistenza ebraica senza rinunciare alla scrittura, alla parola, alle storie, come quelle dei rebbe coi quali era cresciuto [Pinto 2008].
3. Le correnti culturali che riflettono sul dramma della Shoah sono quindi abbastanza divergenti, le risposte alle domande cercano mezzi e strumenti di espressione che sembrano privilegiare in una prima fase la possibilità della trasfigurazione letteraria e linguistica; sembrano adottare il linguaggio della preghiera e della teologia secolarizzata. Esempi fondamentali sono costituiti dall’ opera di Elie Wiesel, uscita in francese nel 1958, La nuit e sostenuta dal cattolico François Mauriac [Levis Sullam 2006].
Alcune delle poesie di Nelly Sachs, poi premio nobel per la letteratura insieme a Yosef Agnon nel 1966, così come quelle di Paul Celan, sono chiaramente da interpretare in quella direzione. Si delinea così, in un linguaggio lirico modulato sulla Bibbia ebraica e qualche volta sulla tradizione rabbinica, l’immagine della morte e del silenzio di Dio. A questo tipo di espressione letteraria appartiene anche la poesia di Primo Levi posta ad exergon di Se questo e’ un uomo. Shema’, titolo e inizio della più importante preghiera ebraica – significa Ascolta! Ascolta Israele diventa una richiesta di ascolto rivolta ai non ebrei, forse a quelli del futuro, una interazione tra uomo e uomo, tra generazione e generazione, che si trasforma lentamente – sempre recuperando i moduli stilistici e il lessico della preghiera ebraica – in una maledizione dai toni biblici
SHEMÀ
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi [Levi 1956].
4. Allo stesso tempo, comincia a profilarsi la necessità di descrivere in modo razionale la realtà del campo di sterminio e della Shoah, di descriverlo per come esso si è conficcato nelle esistenze dei sopravvissuti. Si tratta anche ancora una volta di una riflessione consegnata alla scrittura di finzione, ma in questo caso, lo scrittore italiano – che pure ci ha lasciato belle poesie - tenta ciò che evitano sia Paul Celan che Nelly Sachs, cioè una descrizione realistica dell’esperienza di Auschwitz. Una scrittura sobria e penetrante, che nei successivi lavori, conduce Levi, ebreo assimilato italiano, ad un percorso di riscoperta di quel sé ebraico e di quel mondo sconosciuto che era l’ebraismo dell’Europa centro-orientale. Più ironico e solare, Primo Levi, scrittore non “professionista”, autore del capolavoro Se questo è un uomo, nel suo libro Se non ora quando?, dedicato per l’appunto agli ebrei dell’Europa orientale, propende per un percorso narrativo più lieve. In questo libro, il cui titolo è tratto da un antico insegnamento rabbinico, Levi confessa che voleva
“raccontare una storia piena di speranza, a tratti allegra, benché proiettata su uno scenario sanguinoso. Volevo combattere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo è una persona mite, uno studioso, inadatto alla guerra, umiliato che ha sopportato secoli di persecuzione senza mai reagire. Mi sembrava doveroso rendere omaggio a quegli ebrei che, in condizioni disperate, trovarono il coraggio e la capacità di resistere” [Roth 2004].
Mi piace pensare a Primo Levi come una sorta di alter ego letterario di Hannah Arendt e viceversa, entrambi spinti dal bisogno, dall’urgenza di “capire”, comprendere ciò che per molti rimane ancora una esperienza del “male assoluto”.
Tra le riflessioni più pregnanti e degne di nota, generate all’interno di questo contesto vi è sicuramente quella iniziata da Hannah Arendt all’indomani della tragedia. I temi affrontati da Arendt sono molteplici, ma tra i più urgenti è quello di cogliere il nesso tra antisemitismo e formazione dello stato totalitario [Arendt 1999].
I silenzi
Se pensiamo ai tanti silenzi che avvolgono la storia del genocidio ebraico, uno tra i più significativi che pesa in questi anni è quello delle chiese, nello specifico la chiesa cattolica [Cereti - Sestieri 1983]. Il nesso con l’opera della Arendt si fa qui più visibile, ed è interessante agganciare la riflessione della filosofa ebrea tedesca con i problemi della responsabilità, non da ultimo quella dell’antisemitismo cristiano e delle chiese, della loro assoluta impotenza, quando non connivenza, coi regimi e con la persecuzione verso gli ebrei. Non posso addentrarmi nell’argomento, ma ciò che mi preme sottolineare è che la Arendt insiste nei suoi scritti e nella sua riflessione sullo sterminio ebraico sulla novità assoluta dell’antisemitismo nazista: «l’antisemitismo, a differenza dell’odio antiebraico, storicamente d’importanza subordinata, è un fenomeno degli ultimi secoli» [Arendt 1999]. Nella sua magistrale analisi, Arendt afferma che l’errore principale degli intellettuali ebrei fu quello di non aver saputo individuare nell’antisemitismo una novità assoluta, leggendo invece in esso il riproporsi, un classico refrain dell’ostilità antiebraica. Secondo la Arendt questa errata interpretazione avrebbe fornito «agli antisemiti un alibi per i crimini che mai nessuno avrebbe ritenuto possibile» [Arendt 1999].
Nel delineare sommariamente alcune di queste risposte, si può osservare fin da queste prime note, che le prime reazioni allo sterminio ebraico e alla tragedia dei campi di concentramento, si formarono tutte all’interno del mondo ebraico, in particolare quello tedesco o di lingua tedesca, quello tornato in Germania a posarsi sulle ceneri della simbiosi ebraico-tedesca (come il caso di alcuni esponenti della scuola di Francoforte tra cui Adorno, e centinaia di altri ebrei che erano emigrati e che optarono per il silenzio) o quello rimasto in una sorta di esilio diasporico, in particolare quello americano, facendo del nuovo mondo una madre-patria opposta e vincitrice della Germania-matrigna. La prevalenza di voci ebraiche in questa prima fase di elaborazione del ricordo della Shoah dovrebbe suscitare delle riflessioni. Non che siano mancate le voci degli intellettuali europei sulla tragedia del nazismo ancor prima della Shoah, ma gli inizi della riflessione, della testimonianza e della rielaborazione intellettuale provengono per lo più da intellettuali ebrei. Enzo Traverso ha dedicato uno studio proprio alla genesi di questa riflessione e ha mostrato come siano stati per lo più intellettuali ebrei ai margini delle istituzioni accademiche ad iniziare una riflessione teorica e storica sulle cause e i motivi che condussero allo sterminio del popolo ebraico in Europa, il che indica non solo il personale coinvolgimento degli intellettuali, ma anche la liminalità di un evento che faticò molto ad imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica, a farsi patrimonio di una identità culturale condivisa.
Si possono individuare alcuni motivi di questo assordante silenzio: negli ambienti di diversa appartenenza culturale e politica, questo aspetto relativo alla storia della Seconda guerra mondiale non sembrava rilevante. Il dibattito sulle conseguenze del conflitto, segnato dal clima determinato dalla guerra fredda, non toccò inizialmente lo sterminio ebraico.
Il “silenzio dei gentili”, come mi piace definirlo, mi permette di volgere lo sguardo ad un altro significativo silenzio, quello dei cristiani. I silenzi politici non sono gli unici. La Shoah rendeva urgente riguardare alla tradizione della ostilità antiebraica con occhi diversi – si preannunciava una indagine sulle responsabilità di un’ostilità antiebraica, quella cristiana, che era radicata da secoli nel tessuto culturale europeo, una delle radici stesse del cristianesimo. All’interno del mondo cristiano, e di quello cattolico in particolare, questa riflessione è maturata con ritardo: avviata prima all’interno dell’universo delle Chiese protestanti, nel mondo cattolico il processo è stato lentissimo, in parte influenzato dall’attività dei personaggi che hanno animato la scena culturale della Francia degli anni ’30. Pierrard menziona i gruppi di incontro tra cristiani ed ebrei e le opere di personaggi come Maritain, Bonsirven, volte a trovare una soluzione innovativa alla virulenza dell’antisemitismo di quel decennio.
Nel mondo anglosassone, un libro apparso già nel 1934, pubblicato da James Parkes, studioso e uomo di chiesa, invitava a cercare nella tradizione cristiana le radici profonde dell’antisemitismo.
[Parkes 1934 e http://www.southampton.ac.uk/parkes].
Tra le opere che in qualche modo cercarono di scuotere gli ambienti cristiani degna di nota è certamente quella di Jules Isaac, ebreo francese e storico, che rivela un approccio del tutto differente rispetto a quello della filosofa tedesca. Ma si tratta ancora una volta di una voce ebraica, rivolta – è necessario ricordarlo – al mondo cattolico. Isaac scriveva che
Et voici le point capital, devenu le point de départ de notre deuxième livre: cette tradition reçue, cet enseignement théologique, cet “enseignement du mépris”, poursuivi de siècle en siècle, de génération en génération, et parfois grossièrement déformé, a déposé dans les âmes sans défense un subconscient d’antisémitisme, une sorte d’horreur sacrée pour les Juif. Diffusé pendant des centaines d’années, par des milliers et des milliers de voix, l’antisémitisme chrétien est la souche puissante, millénaire, aux multiples et fortes racines, sur laquelle (dans le monde chrétien) sont venues se greffer toutes les autres variétés d’antisémitisme — même les plus opposées de nature, même antichrétiennes.
Selon la formule d’un philosophe chrétien, un des plus grands penseurs de notre temps, Nicolas Berdiaeff, “l’antisémitisme à base religieuse” est donc “le plus sérieux, le seul qui mérite d’être étudie”. Sinon le seul, dirai-je, du moins le principal, parce qu’il est à la base [Isaac 1956].
Isaac pubblicava, qualche anno dopo la seconda guerra mondiale, un’opera dal titolo L’antisémitisme nella quale evidenziava le responsabilità della Chiesa nella persecuzione antiebraica; ma il suo saggio più influente è stato L’enseignement du mépris [Paris 1962], la cui tesi di fondo è che l’antisemitismo moderno abbia avuto origine dalla secolare diffusione di una “dottrina del disprezzo” da parte delle chiese cristiane che avrebbe reso gli ebrei un nemico di facile individuazione. Singolarizzando l’ebreo come nemico per secoli e secoli, la chiesa aveva creato l’obiettivo più facile da distruggere. Ma l’opera di Isaac interveniva in un campo del tutto differente e straordinariamente problematico: quello della teologia e della necessità di revisionare gli insegnamenti cristiani relativi agli ebrei trasmessi in secoli di storia del cristianesimo.
Verso gli anni Sessanta due eventi importanti a livello internazionale contribuirono a far uscire dal “ghetto” la discussione sul nazismo, sulla Shoah e lo sterminio e a scuotere l’opinione pubblica. Il processo Eichmann svoltosi a Gerusalemme e l’apertura del Concilio Vaticano II. Penso che nessuno li abbia mai collegati eppure un nesso può essere individuato. Entrambi gli eventi segnano una novità nel panorama pubblico – il discorso della Shoah, seppure in modalità e forme diverse è mediatizzato e internazionalizzato. Decine di giornalisti sono a Gerusalemme e scrivono resoconti su uno dei processi più interessanti dalla fine della seconda guerra mondiale.
In un bellissimo documentario costruito con immagini di repertorio – Lo specialista – una scena colpisce sommamente. Il processo ha raggiunto un punto morto, Eichmann – che la Arendt descriverà con come un banalissimo burocrate – continua a sostenere, in modo apatico e fastidioso, di non essere responsabile di nulla. I dialoghi sono in ebraico, un brillante e aggressivo procuratore generale – sostenuto da Ben Gurion – guida l’accusa. Eichmann risponde in tedesco, a suo fianco siede un traduttore. Ad un certo punto succede qualcosa di strano e perturbante: la stanchezza, i toni gelidi del nazista, difficile capirlo, ma qualche cosa si rompe. All’improvviso pubblica accusa e giudici cominciano ad urlare in tedesco, trasformando così radicalmente il tessuto culturale della scena, riportando il dramma entro i confini culturali tedeschi [Brauman - Sivan 2003].
Il processo – peraltro molto criticato dalla Arendt – la induce a parlare di “banalità del male” – la belva, il demoniaco, il male assoluto che talvolta echeggiava dalla poesia, non esistono. Il male è l’uomo comune, e quindi ancora più insidioso e insopportabile. Una osservazione questa che contribuì di certo a modificare i termini della riflessione sulla questione della responsabilità, di cui si discuterà anche in sede conciliare.
Ci vorranno però ancora una ventina d’anni per cogliere i risultati delle svolte. E ancora una volta sarà un fatto mediatico a indicare che i tempi sono cambiati: il successo e lo scandalo suscitato in Germania dal film Holocaust (peraltro privo di qualsiasi qualità artistica degna di nota) e qualche anno dopo l’esperimento del famoso documentario di Claude Lanzmann Shoah (1985). Due elementi si intersecano attorno alle reazioni generate da questi eventi. Una nuova generazione – nella fattispecie la mia – cresceva in Europa con domande ed interessi a nessuno riusciva a dare risposta. Bisognava andarsene dall’Italia per capire e scoprire i perché. Contemporaneamente quella stessa generazione, in Germania, scopre un passato che era rimasto piuttosto rimosso o relegato alle discussioni tra intellettuali (molti dei quali ebrei). È una generazione disposta a guardare con occhi diversi, a criticare il passato senza paure e senza remore, disposta a cercare nei non detti. Parallelamente è la generazione che comincia a chiedere ai nonni, ai genitori di raccontare. Ogni testimonianza ha diritto di esistenza, ogni storia personale un suo valore. Da qui il bisogno – morale e collettivo – di ricordare comincia a trasformarsi e a cristallizzarsi in altri modi e forme, il ricordo non può più essere esclusivamente individuale o famigliare, ma deve diventare collettivo. Il processo – complesso e ambivalente – è ancora in corso e l’istituzione della “Giornata della Memoria” è una delle sue manifestazioni: tra critiche e problemi di varia natura (ogni paese ha una sua storia differente) lo sterminio degli ebrei d’Europa diventa, a fatica, memoria collettiva d’Europa, avvicina i vivi ai morti massacrati dai regimi nazifascisti e celebra nella commemorazione sociale i principi di eguaglianza e dei diritti dell’uomo morti – ma non per sempre – nei campi di sterminio europei.
Bibliografia
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Vedi anche: