Mutare l’appellativo tradizionale della Repubblica di Venezia da “la Serenissima” a “l’Inquieta” per la sua storia successiva alla Riforma probabilmente non rappresenta una proposta praticabile, e
tantomeno originale. Tuttavia è una repubblica inquieta, capace di produrre pensiero divergente in tutti i suoi ceti sociali – si tratti di riflessioni politiche o concezioni religiose eterodosse –
quella che emerge dal libro di Barbierato. Il suo è uno studio importante sulla vivacità di forme di miscredenza ed eterodossia rintracciabili nel particolarismo veneziano. Particolarismo indagato
non tanto nella sua cultura di élite, quanto piuttosto rovesciando la prospettiva dei luoghi e delle personalità tradizionalmente assurti a protagonisti della Venezia post-Interdetto.
Sarpi e la tradizione giurisdizionalista della Repubblica o il “libertinismo trionfante” dei circoli nobiliari di metà Seicento perdono il loro ruolo tradizionale di primi attori della vita
intellettuale veneziana, per fare posto a tutti quei ceti generalmente considerati esclusi dalla produzione di cultura. Alle conversazioni erudite della spregiudicata aristocrazia tenute nei
ridotti o nei palazzi sul Canal Grande, l’autore preferisce quelle sviluppate nella mondanità di caffé ed osterie, sussurrate nei parlatori dei conventi, o condivise nella bottega del cappellaio
Bortolo Zorzi quale ritrovo di “liberi metafisici”. Per carpirne i frammenti Barbierato va a svuotare la cassetta delle denunce anonime al S. Uffizio, addentrandosi con perizia e profondità nella
documentazione prodotta dagli inquisitori pontifici e dalle magistrature laiche affiancate dalla Repubblica all’Inquisizione e demandate al compito de servanda fide.
I cinque capitoli del libro affrontano così gli ambiti formativi di messaggi potenzialmente eterodossi, l’analisi dei loro canali di diffusione, la descrizione dei rapporti tra chierici e laici in
materia di religione e politica, e il mutare con le congiunture delle relazioni non sempre idilliache tra Serenissima e Santa Sede. Specialmente l’ultimo capitolo, in cui l’autore descrive
l’attività del circolo legato al cappellaio, costituisce sia una brillante indagine sui canali dell’editoria e della circolazione clandestina che portano alla formazione della biblioteca dello
Zorzi, che una sintesi convincente dei rapporti con l’informazione e dei meccanismi di lettura ed elaborazione che condizionano l’interazione tra lettori e testi.
Si tratta di un libro che fa tesoro degli insegnamenti di Carlo Ginzburg e del suo Menocchio, senza tuttavia cadere nel peccato di “menocchismo”, padroneggiando una cospicua documentazione e
strumenti d’indagine mutuati dalle discipline sociali. Nel corso del lungo periodo preso in considerazione (1650-1740 ca.), la Venezia empia, pragmatica e miscredente che Barbierato descrive si
popola di numerosi Menocchio che discettano di religione e impostura, confortati dalla lettura di Bayle e Spinoza e dalla rielaborazione personale di argomenti eterodossi mutuati dalle tradizioni
scettica e libertina. Senza per questo incanalare il dissenso in un semplice processo di trasmissione dall’alto di concetti e modelli elitari, o di accettazione passiva di tradizioni intellettuali,
l’autore cerca così di tracciare percorsi di provenienza e ricezione del pensiero divergente in un’opinione pubblica nutrita da un crescente mercato dell’informazione. Ne scaturisce un panorama
interessante di elaborazioni concettuali che presentano tratti di originalità; una koiné di riflessioni individuali interiorizzate, atomizzate e fatte proprie che contribuiscono a restituire alla
Venezia barocca un’eco delle voci e della Weltanschauung dei ceti illetterati che, senza cadere nell’ingenuità della generalizzazione o di populismi estremi, contribuisce ad arricchire da
molti punti di vista la storia delle idee.
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