L’ hanno chiamata giornata del ricordo. Si contrappone, o si affianca, alla giornata della memoria. Per non dimenticare gli italiani morti nelle foibe. Per ovviare all’indolenza degli storici che non hanno mai studiato quegli eventi. Per rimediare alla malafede della sinistra.
Ricordo nonè memoria. Memoria è costruzione complessa, fatta di rimozioni e di riconoscimenti, attraverso riflessioni individuali e collettive: la memoria riesce per questo a costituire una componente identitaria essenziale nella vita degli individui e delle società. La giornata della memoria è stata istituita per rispondere anche a questa necessità: dotare i giovani di un patrimonio ampio di conoscenze; che facesse sopravvivere le verità di eventi che hanno segnato nel profondo il secolo XX e gli uomini che lo hanno attraversato. Da questo punto di vista è giusto aggiungere le foibe al patrimonio della memoria.
Memoria è tuttavia anche una costruzione interpretativa. Ai fatti va dato un senso, e perciò vanno collocati in un contesto. Che non deve e non può essere quello della miserabile contabilità dei morti. Non possiamo ricordare con giusta reverenza chi è morto innocente, o anche chi è morto colpevole, se non sappiamo le circostanze le cause le scelte che l’ hanno condotto a quel passo. Se poi quel rammemorare si connette a un discorso più grave e più ampio, allora non possiamo fare una storia piccina e gretta. Dobbiamo alzare gli occhi a un orizzonte diverso.
Se l’obiettivo della giornata del ricordo – come è stato affermato –è contribuire a ricostruire un senso per la vicenda nazionale, non possiamo isolare un fatto o una catena di fatti e solo questi giudicare. La storia contemporanea, intendo la storia del ‘900 (benché sia possibile estendere la riflessione su tempi anche più lunghi) presentacasi e problemi analoghi che investono le nazioni europee soprattutto in relazione alla tragedia dei regimi totalitari.
L’esperienza del nazismo e del fascismo ha segnato in profondità gli europei. “Il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata”, ha scritto Zygmunt Bauman (Modernità e olocausto, tr. it. Bologna Il Mulino 1992 (1989), p.278). E la capacità del nazismo di mantenere in catene le sue vittime anche oltre la sconfitta emerge da ogni documentazione.
Gitta Sereny, giornalista d’origine viennese, appassionata indagatrice del nazismo e dei suoi protagonisti, ne dà testimonianza quando racconta della tragedia di cui è stata spettatrice ed agente in quanto incaricata su mandato dell’Onu (Unrra) di riportare alle famiglie originarie i bambini polacchi assegnati dai nazisti a famiglie tedesche perché ritenuti depositari di caratteristiche razziali ariane. Integrati fin dalla più tenera età nella nuova famiglia tedesca, molti di quei bambini subirono un nuovo irreversibile trauma quando vennero restituiti ai genitori naturali alla fine della guerra. La giornalista assiste impotente a una tragedia le cui fondamenta erano state gettate cinque anni prima dalla politica razziale del Reich (Gitta Sereny, “Bambini rubati”in Germania il trauma di una nazione, tr. it. Rizzoli 2002, pp. 51- 84).
Una acuta sintesi della storia dell’occupazione tedesca nei paesi europei durante la seconda guerra mondiale (Gustavo Corni, Il sogno del ‘grande spazio ’. Le politiche d’occupazione nell’Europa nazista, Bari Laterza 2005) richiama l’attenzione sulla tragedia della cacciata dei tedeschi ai territori dell’Europa orientale, anch’essa ultima conseguenza della politica razziale del nazismo. Per alcuni aspetti la vicenda si avvicina a quella dell’esodo dall’Istria e delle foibe. L’indagine su di essa nasce negli ultimi anni da una ricerca sugli spostamenti di massa durante la seconda guerra mondiale, originati dal progetto hitleriano di riportare all’interno della Grande Germania le minoranze tedesche sparse da secoli nell’Europa orientale per dare vita a un assetto etnicamente omogeneo, espellendo (o annientando) le popolazioni autoctone. (Su questa ricerca vedi: “Annali dell’Istituto storico italo- germanico di Trento”, voll. XXVI – XXIX, contenenti i saggi elaborati nell’ambito della ricerca promossa dalla European Science Foundation sull’occupazione nazista efascista in Europa 1940-1945).
Alla fine della seconda guerra mondiale le popolazioni tedesche dei territori orientali, quelle appunto trapiantate a est nel quadro della politica di colonizzazione del Reich, e anche altre, già insediate da tempo nel mosaico dei popoli dell’Europa orientale, furono oggetto di persecuzioni, di cacciate, di sterminio.
“Anche se l’esodo e poi le espulsioni dei tedeschi dai territori dell’Europa orientale si protrassero fino a tutto il 1947 con modalità assai complesse, si può dire che tale fenomeno, che è la più grande e intensa migrazione di popolo nella storia dell’umanità, sia anche una conseguenza delle politiche d’occupazione messe in atto dai tedeschi in quei territori; politiche al cui centro campeggiava la priorità di realizzare una società etnicamente pura e perfetta, in cui le popolazioni autoctone sarebbero state ridotte a mera carne da lavoro oppure espulse verso un Oriente ignoto e inospitale. Il bilancio di questo drammatico esodo è di 2 – 2,5 milioni di persone decedute per conseguenze dirette dell’esodo e delle violenze che lo hanno contrassegnato, su 13 – 16 milioni (…) di persone sradicate ed espulse verso ciò che restava della Germania sconfitta”. (Corni, Il sogno del ‘grande spazio ’cit. pp. 130 –131).
E’ di questi giorni (13 febbraio 2005) la rievocazione dello spaventoso bombardamento di Dresda, a pochi mesi dalla fine della guerra. Un atto di atroce e gratuita violenza contro le popolazioni civili, attuato dalle flotte aeree delle democrazie angloamericane. E che, tra l’altro, fu solo uno dei massacri perpetrati con l’arma aerea ai danni delle popolazioni civili tedesche nel quadro di una sanguinosa strategia coscientemente scelta dai responsabili della condotta di guerra britannica. Comportamenti che hanno fatto scrivere a un profondo commentatore di quelle vicende e del silenzio mantenuto su di esse dai tedeschi nel dopoguerra:
“La guerra costruita sui bombardamenti era guerra in forma pura e scoperta. Dal suo sviluppo, contrario a qualsiasi razionalità, si può rilevare come le vittime di un conflitto (secondo quanto scrive Elaine Scarry nel suo libro di straordinaria acutezza The Body in Pain) siano non già vittime sacrificate sulla via che conduce a un qualche obiettivo, bensì esse stesse – nel vero senso del termine – e l’obiettivo e la via”. (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, tr. it. Milano Adelphi 2004, p. 31).
I massacri di italiani nell’Istria, il silenzio che molta parte della storiografia (destra o sinistra, francamente non ho visto grandi differenze) ha mantenuto su di essi non sono quindi un momento eccezionale nel tortuoso e penoso cammino per uscire dagli odi e dalle divisioni del XX secolo. Forse gli europei dovrebbero riflettere più a fondo su quanto è avvenuto nel Sud Africa: al termine del conflitto originato da trecentocinquanta anni di colonialismo e da cinquanta di dominio di apartheid fu creata una Commissione per la verità e a riconciliazione. Essa raccolse le testimonianze di vittime e aguzzini con l’obiettivo di portare in luce la verità di ciò che era accaduto, concedendo ai responsabili l’amnistia solo in cambio di una piena e assoluta confessione. L’obiettivo era far sì che “nessun sudafricano – bianco o nero che fosse – [potesse] sostenere che non era mai accaduto nulla , o di non aver mai saputo” (Charles Villa Vicencio, in Storia, verità giustizia, a cura di M. Flores, Milano Bruno Mondadori 2001 p. 201)
Riesumare il passato in questi termini non costituisce un tentativo di rinfacciarele responsabilità, che sono esclusivamente di coloro che i massacri hanno perpetrato. Significa dare un tributo di memoria anche alle vittime delle persecuzioni compiute dagli italiani, ai deportati nelle isole della Dalmazia, nei campi di Puglia; ai rastrellati e ai fucilati nelle campagne di Grecia e dei Balcani. Dove gli italiani purtroppo gareggiarono in spietatezza con i camerati germanici. Non ha senso ricordare i caduti di Cefalonia se non si ricorda perché quelle truppe erano in quell’isola. E sarebbe bene anche che alcuni giornalisti (e qualche studioso di storia) si informassero prima di scrivere che gli studiosi hanno taciuto…
Vari interventi pubblici alla metà di questo febbraio 2005 hanno sottolineato la necessità di non isolare un evento, per quanto atroce, dal contesto più ampio. Tra questi interventi vorrei commentare quello di Raoul Pupo, che in due successive interviste su“il Riformista” e “Repubblica” (9 e 10 febbraio 2005) ha spiegato il senso e la portata delle ricerche del suo volume Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio (Milano Rizzoli 2005). Nel suo discorso Pupo afferma di aver lavorato nel contesto dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia Giulia e giustamente rivendica l’impegno di questo Istituto per la ricostruzione delle vicende del confine orientale.
Ciò che forse può sfuggire al lettore è questo: che l’Istituto, dichiaratamente antifascista, ha operato con le sue ricerche da circa quarant’anni nel contesto di una città e di un territorio profondamente divisi dalla questione nazionale, dagli egoismi nazionalistici, dalle violenze della guerra mondiale. La sua opera di approfondimento delle vicende della Resistenza e dell’esodo dall’Istria si è tuttavia volto in una direzione che aveva di mira non il rinfocolare gli odi e i rancori, ma piuttosto di aprire entrambe le comunità (l’italiana e la slovena) al dialogo e allo scambio. Per decenni l’Istituto è stato un luogo di collaborazione tra studiosi italiani e sloveni, accusato di essere un covo di comunisti, osteggiato dal locale nazionalismo. Da questo covo di comunisti sono uscite le prime ricostruzioni dell’esodo, e le indagini che hanno portato a questo lavoro di Pupo. Che non è il solo scritto in materia (ciò non toglie nulla al valore dello studioso) uscito da quel contesto.Sarebbe bene aggiungere che la giunta di destra della Regione Friuli Venezia Giulia tagli i contributi a questo Istituto. (E che le giunte di sinistra sono state solo un po’ meno avare).
Certamente gli studiosi di storia della sinistra sono stati a lungo condizionati, e non dubito che molti ancora lo siano, da gabbie ideologiche e da miti di bandiera. Il punto è che, pur con molti difetti e incertezze, gli intellettuali della sinistra e in particolare gli studiosi di storia tanti tabù li hanno superati. Il lavoro degli Istituti per la storia della Resistenza, additati di questi tempi come laboratorio di efferatezze storiografiche, testimonia una varietà di indirizzi molto larga, per certi aspetti anche eccessiva a causa dell’ipersensibilità verso temi e metodi innovativi. Si può dire altrettanto degli studiosi di destra? Non sono uno di quelli che negano alla destra e alla sua storiografia una identità culturale. Ma credo che – come sta provando in questi giorni la discussione sul tema del “ricordo” delle foibe – non ci sia quasi nessuno di loro che riesca a uscire dalle direttive di una polemica misera e asservita.