Ranajit Guha è l’ispiratore del gruppo di storici indiani che nel 1982 dà vita alla serie di volumi collettanei «Subaltern Studies» (una parziale traduzione di una raccolta di quei testi è
stata curata da S. Mezzadra, cfr. R. Guha, G. Chakravorty Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Verona, Ombre Corte, 2002), un’esperienza nella quale sarebbero
cresciuti alcuni tra gli storici e scienziati sociali più eminenti dell’attuale scena intellettuale, da Partha Chatterjee a Dipesh Chakrabarty a Gayatry Spivak.
In questo breve volume, Guha si confronta con il canone della storiografia europea per eccellenza, vale a dire la dottrina hegeliana della storia. Hegel non condivideva il disprezzo per l’India
espresso dal suo contemporaneo James Mill (History of British India, 1818), aveva anzi grande ammirazione per quel popolo, ciò rende la sua riflessione sui “popoli senza storia” di grande
interesse perché essa non discende da un rozzo pregiudizio eurocentrico, come nel caso di Mill, ma da uno schema di pensiero coerente e lineare che avrebbe influenzato profondamente la visione
occidentale – e non solo – della storia indiana fino a tempi recenti. Nonostante la ricchezza spirituale della letteratura indù, sostiene Hegel, l’India è priva di storia perché «il moto
organizzativo, che comincia a differenziare l’amorfo stato sociale originario […] si pietrifica subito in determinazioni naturali (nelle caste)». Senza lo Stato, insomma, la scrittura da sola non è
indice dell’esistenza di una storia.
Guha contrappone due nozioni hegeliane: la “prosa del mondo” e la “prosa della storia”. La prosa del mondo inizia con l’uscita dal tempo ciclico dello stato di natura, essa richiede un processo di
individualizzazione e di riconoscimento delle altre individualità nei termini concreti dell’interazione quotidiana. La prosa recupera i suoi contenuti dalle transazioni tra gli individui che
portano con sé i propri specifici passati; passati irriducibili e plurimi, insomma, che stanno in relazione tra essi nella prosa del mondo. Ciò prospetta una dimensione della storicità dialogica e
aperta, nella quale le diverse storie partecipano di un multiforme orizzonte che viene a costituire la prosa del mondo.
Ma ciò è ben lontano dalla visione hegeliana della storia che assume invece il volto monolitico della “storia dello spirito”. In un movimento incessante, lo spirito supera le determinazioni
naturali del suo essere e affermandosi come libertà si realizza nell’autocoscienza. I materiali che costituiscono la storia vengono perciò selezionati in base a questo “motivo conduttore”, ma
perché questa selezione sia possibile è necessario che la libertà faccia il suo corso e che conduca all’autocoscienza. È precisamente ciò che, secondo Hegel, manca alle grandi civiltà orientali, in
Cina le regole morali sono poste come leggi di natura, mentre l’ascetismo indiano ha come fine ultimo l’annullamento della coscienza (Lezioni di filosofia della storia). Manca insomma la
libertà che conduce lo spirito a riconoscersi, e che permette di conoscere e volere oggetti universali come la legge e il diritto e a produrre la realtà dello Stato. La storia del mondo inizia
soltanto quando inizia questo processo, di conseguenza le civiltà nelle quali questo passo non è stato compiuto stanno al di fuori della storia, fluttuano nel paesaggio eterogeneo e destoricizzato
della prosa del mondo.
La prosa della storia, insomma, supera le storie del mondo, se le annette, un po’ come gli imperi europei, aggiunge Guha, si annettono popoli e paesi al di fuori dell’Europa e in questo modo li
trascinano nella storia. Nel momento in cui lo Stato diventa il centro di gravitazione dell’uomo nel mondo, la storicità dialogica e aperta della prosa del mondo viene improvvisamente a chiudersi.
La storia dello Stato fissa i confini della storicità e la pluralità dei passati degli uomini sembra svanire. Hegel ha insomma murato la storia nello Stato ed è all’individuazione dei passaggi per
evadere da questa fortezza che Guha indirizza le pagine conclusive del suo libro.
La visione statalista della storia ha espunto i modi di appropriazione del passato dell’India precoloniale dalla considerazione storiografica. La storiografia sarebbe perciò nata in India solo con
il dominio coloniale, sarebbero stati gli inglesi a convincere gli eruditi indiani a scrivere la storia dei loro re. Ma Guha mette in luce le differenze nell’interrogazione del passato che
segnavano la distanza tra l’India e l’Europa, la dimensione della storicità comune nella cultura indiana era il frutto di un rapporto comunitario mediato da un narratore di storie che interagiva
con i suoi ascoltatori. L’occidente ha introdotto la preminenza del narratore e ha spostato sullo Stato l’interesse della storia che in precedenza permeava i riti della società e si qualificava
come una sorta di ricordo dialogico e creativo. Guha chiude il suo volumetto commentando un articolo di Tagore del 1941, riprodotto in appendice, nel quale emerge una nozione di storicità sottratta
alla forza oggettivante della storia dello Stato e riportata, secondo una personale lettura delle Upanisad, alle gioie e ai dolori della quotidianità, nonché ad una soggettività
dell’esperienza storica che si configura come una sorta di autobiografia. La storia perciò «incorpora nella propria opera i multiformi spettacoli del mondo con la loro gioia e la loro tristezza.
Prova gioia nel farlo e condivide la sua gioia con gli altri» (p. 123).
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