Il nuovo libro di Joad Raymond sostiene una tesi lineare: tra gli anni ’60 del ‘500 e il 1700 ha luogo una trasformazione nel ruolo della stampa e del suo rapporto con il pubblico. Si tratta di un
mutamento dell’idea stessa del mezzo di comunicazione, connesso all’affermazione commerciale e sociale del pamphlet. Stampato generalmente in quarto, meramente legato alla controversia sociale,
politica e religiosa, marginale e denigrato all’inizio, esso si impone come medium del dibattito pubblico, attraverso il ventennio della Rivoluzione inglese. I pamphlet si affermano allora
come «una delle fondamenta di quelle influenti comunità morali e politiche che costituiscono una ‘sfera pubblica’ di opinione politica popolare». Nel 1688 la stampa è ormai un mezzo di persuasione
e propaganda politica quale non era nel 1560: il pamphlet lascia progressivamente spazio al giornale come principale mezzo di discussione pubblica. Tale tesi si snoda attraverso sette capitoli che
toccano tutti i punti cronologici e problematici dello sviluppo descritto: le origini con la Marprelate controversy; l’analisi del mondo della stampa e le relazioni tra librai, stampatori,
autori e lettori; l’«invenzione» dei periodici; la svolta e l’apice della diffusione dei libelli nei decenni rivoluzionari; l’incremento, a partire da allora, dei testi a stampa di donne, legato
soprattutto allo status profetico riconosciuto alla parola femminile nella Bibbia; il ruolo dei pamphlet nel preparare la Restaurazione e la Gloriosa Rivoluzione.
Pur all’apparenza semplice, questa ricostruzione dell’influenza sociale della stampa nella storia britannica del Seicento interessa più di un punto storiografico controverso. La criticata metafora
dell’«esplosione della stampa», cui si obietta la continuità della produzione misurata in risme di carta e delle tecnologie disponibili, conserva per Raymond una certa validità statistica. La
costanza del volume di carta, a fronte dell’aumento indubbiamente notevole del numero degli stampati, corrisponde, infatti, all’affermarsi nel 1641 di un nuovo tipo di commercio, basato su testi
brevi, controversi ed effimeri che caratterizzeranno il resto del secolo. L’andamento della curva mette anche in evidenza come, a differenza che nel periodo 1560-1640, ad ogni crisi politica il
numero dei testi in circolazione si impenna, indicando l’importanza dei pamphlet per la discussione pubblica. Tale quadro deve solo essere qualificato dal contesto «britannico» imposto dal
mainstream storiografico anglofono (Russell, Morrill): in effetti, l’«esplosione» del 1641 è innescata da un «incendio» che si estende da Edinburgo (e dall’Olanda), un sensibile incremento della
propaganda a stampa che dal 1637 si riversa su Londra.
In Pamphlets and Pamphleteering l’autore amplia la prospettiva adottata in passato (l’antologia Making the News, 1993 e The Invention of the Newspaper. English Newsbooks
1641-1649, 1996) sul piano geografico, su quello della periodizzazione e delle forme di stampa considerate, passando dal newsbook al pamphlet. Siffatta ricontestualizzazione del
‘giornale’ come parte di una più ampia affermazione di una «cultura del pamphlet» ha una certa importanza. Il pamphlet, con la sua peculiare ecletticità di contenuti, di stili e di retorica e la
sua essenza polemica e immediata, non può infatti configurarsi come veicolo della «sfera pubblica» habermasiana, ragionevole e orientata al consenso. La culla storica dell’opinione pubblica
britannica, in altre parole, è un contesto comunicativo percorso dalla competizione degli interessi politici ed economici, in cui la lettura è caratterizzata dalla passione e può essere del tutto
priva di utilità pratica. Limitarsi, come ha fatto David Zaret (Origins of Democratic Culture, 2000), alle petizioni vuol dire non comprendere come sia i ranters sia i
levellers contribuirono a costruire un dibattito pubblico sul pamphlet, gli uni facendone il veicolo di esibizioni scioccanti, gli altri uno spazio di discussione popolare. In tal modo, si
perde di vista anche il fatto che furono i pamphlet della Restaurazione ad erigere lo «steccato bianco» intorno a St George’s Hill – ove si erano insediati i diggers – con l’ammonimento
«attenti agli entusiasti». E nemmeno si coglie l’«evento mediatico» costituito dal «complotto papista» che, costruito alla fine degli anni ’70 da ballate, pamphlet, newsbooks e poemi e dal
loro interagire con la memoria del 1641, creò il clima nel quale Giacomo II fu poi costretto ad abbandonare il trono.
C’è un certo sbilanciamento tra i capitoli centrali dedicati ai decenni rivoluzionari, frutto di una diretta esperienza di ricerca, e quelli che piuttosto fanno buon uso di una vastissima
letteratura. Ma la semplice tesi di Raymond suggerisce, sottotraccia, che il processo storico è più complesso dei modelli spesso invocati per interpretarlo.
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