Negli ultimi quindici anni, l’apertura (quantomeno parziale) degli archivi ex sovietici e il nuovo clima culturale favorito dal crollo del sistema comunista e dalla fine della guerra fredda hanno
permesso un profondo rinnovamento degli studi storici, in particolare proprio in relazione agli anni cruciali del dopoguerra e alla formazione dei grandi schieramenti politici e ideologici che
hanno caratterizzato il quarantennio della cosiddetta «Prima Repubblica». Uno dei frutti più interessanti di questo rinnovamento storiografico è il volume di Victor Zaslavsky su Lo stalinismo e
la sinistra italiana. Dal mito dell’Urss alla fine del comunismo 1945-1991.
Sulla scorta di una notevole esperienza nello studio del regime sovietico, nella presente ricerca - risultato di una rivisitazione organica e dell’integrazione di studi precedenti - l’autore si
rivolge specificamente alla realtà italiana e cerca di dare una risposta ad alcune domande che a lui, nato a San Pietroburgo e diretto testimone della miseria materiale e morale dello stalinismo,
si presentano con un’urgenza esistenziale oltre che, per così dire, «professionale»: come è potuto accadere che il mito sovietico abbia fatto presa in strati tanto ampi e qualificati delle società
occidentali prima e dopo il 1945? E, ancora, come è stato possibile che lo abbia fatto in maniera tanto profonda e duratura, tanto da orientare ancora oggi, in un contesto del tutto mutato, non
pochi aspetti del dibattito politico-culturale e dello stesso sentire diffuso della nostra società? La risposta - secondo l’autore - sta nel grande fascino dell’ideologia totalitaria, ma anche
nella capacità della potenza che ne rappresentava il motore politico a livello mondiale (l’Unione Sovietica) di alimentarlo attraverso il sostegno ai movimenti comunisti dei paesi «reazionari»,
come appunto l’Italia.
A tale riguardo, lo studio di Zaslavsky è tanto più significativo in quanto riesce a mettere in discussione alcune impostazioni storiografiche invalse (incentrate in particolare sulla presunta
«indipendenza» del movimento comunista italiano rispetto al centro moscovita), grazie appunto all’utilizzo di fonti di recente acquisizione e alla loro interpretazione in un’ottica comparata: in
un’ottica, cioè, che astrae dalla dimensione puramente nazionale per inserire la vicenda italiana in quella complessiva della realtà internazionale della guerra fredda, e in particolare del
movimento comunista, così profondamente caratterizzato dall’autorità ideologica e operativa del centro sovietico. Quello che ne emerge è il panorama di una sinistra assai meno indipendente nelle
sue decisioni politiche di quanto comunemente ritenuto dalla storiografia tradizionale, come appare dall’esame di alcune vicende particolari. La presunta adesione ai principi democratici attuata da
Togliatti nel dopoguerra, ad esempio, risulta piuttosto il prodotto di una tattica politica dettata dall’Unione Sovietica, a sua volta frutto di una pragmatica valutazione dei rapporti di forza
anziché di una strategia «conciliativa» nei confronti del blocco occidentale come espressione di una fedeltà agli accordi di Yalta.
Le documentazioni degli archivi sovietici, insieme a quelle dei servizi segreti americani e italiani e a quelle acquisite dalla Commissione stragi del Parlamento, dimostrano ad esempio l’esistenza
di un esercito clandestino approntato dal PCI negli anni dell’immediato dopoguerra e pronto a una eventuale insurrezione, che fino al 1948 venne ritenuta dalla direzione del partito come un’opzione
concretamente praticabile. Fu solo in quell’anno che l’ipotesi venne scartata, e non per iniziativa del Partito italiano ma per disposizione del governo sovietico, sulla base del risultato delle
elezioni del 18 aprile ma anche di fattori di politica internazionale che orientarono Stalin al definitivo disimpegno dallo scacchiere mediterraneo: il tramonto dell’insurrezione greca, che di
quella italiana doveva rappresentare una sorta di «prova generale», e la rottura con la Jugoslavia, che avrebbe dovuto costituire un sostegno politico e militare imprescindibile per il partito
italiano. Se dopo il 1948 l’apparato militare venne in parte smantellato e ridotto alla dimensione di «apparato di vigilanza» molto più snello con compiti di sicurezza, di raccolta di informazioni
e di sorveglianza interna al Partito stesso, è da quella data che assunse invece una dimensione sempre più consistente il finanziamento occulto da parte sovietica al PCI, sia nella forma di
versamenti diretti sia in quella del sostegno indiretto a organizzazioni e imprese collaterali al partito, e destinata a protrarsi (almeno quella indiretta) fino al crollo dell’URSS nel 1991. Da
segnalare che tale sostegno finanziario favorì a lungo anche il Partito Socialista. Se i finanziamenti in suo favore cessarono solo negli anni Sessanta, fu, come è noto, prima del 1956 che la
leadership di Nenni lo appiattì su posizioni di totale subalternità a quelle comuniste, prestando con ciò un prezioso sostegno alla politica sovietica: unico partito socialista europeo ad
avere sposato la politica stalinista, la sua posizione fu fondamentale nel rendere le correnti antitotalitarie assolutamente minoritarie nel panorama della sinistra italiana.
Una realtà che, come abbiamo anticipato, nonostante i decenni trascorsi e il rinnovamento in corso produce ancora i suoi frutti nel panorama politico-culturale del nostro paese. «Questa eredità
storica - afferma l’autore - si rivela […] in tre caratteristiche interconnesse e interdipendenti: la debolezza del riformismo e la mancanza di un progetto riformista realistico e realizzabile; la
comunicazione e la competizione politica basate sulla delegittimazione dell’avversario e condotte in maniera antidemocratica, cioè senza sentire l’obbligo di presentare soluzioni alternative;
l’antiamericanismo come base di costruzione dell’identità politica. Individuare e analizzare le radici nazionali, i percorsi storici e le tappe della cristallizzazione di questa cultura politica
diventa la condizione necessaria per liberare la coscienza dai miti e dagli inganni dello stalinismo».
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