Nikos Panou e Hester Schadee (eds.), “Evil Lords. Theories and Representations of Tyranny from Antiquity to the Renaissance”, New York, Oxford University Press, 2018, XII, 245 pp.
Il volume curato da Panou e Schadee è il frutto di due conferenze, tenutesi a Princeton nel 2010 e nel 2011. Le ricerche di Panou, Assistant Professor of Comparative Literature presso la Stony Brook University, vertono sull’orientalismo, la letteratura e la cultura della Grecia moderna, del mondo mediterraneo, bizantino e mediorientale. Schadee, Senior Lecturer in European History presso la University of Exeter, si occupa invece di storia culturale e intellettuale europea, con particolare attenzione al Rinascimento italiano.
Lo scopo dei curatori (p. 2) è contribuire alla comprensione del political discourse dall’antichità a Machiavelli attraverso lo studio delle teorie e rappresentazioni della tirannide, o cattivo governo. Nello specifico, i curatori (pp. 3-4) ritengono che questo lavoro possa aiutare a sviscerare la riflessione sul cattivo governo e di rimando anche quella sul buon governo. Essi, infatti, credono che il cattivo governo sia un anti-valore, quindi comprendere come esso muti nei vari contesti storici analizzati dall’opera può aiutare a capire quale fosse e come si fosse sviluppata negli stessi contesti l’idea di buon governo.
Il primo contributo (Luraghi) illustra la genesi del discorso greco sulla tirannide e i suoi caratteri principali, molti dei quali furono rielaborati dal mondo romano, medievale e rinascimentale fino ai giorni nostri. Il tiranno greco è un personaggio marginale e incarna la negazione di tutte le norme culturali greche. Il secondo (Grillo) tratta la critica alla regalità dell’Antico Testamento attraverso la categoria dell’estraneità: una critica così forte che Yahweh fu proclamato unico re di Israele. Il terzo (Baraz) spiega che nella tarda Roma repubblicana bastava che un politico commettesse un solo atto condannabile come monarchico per essere accusato di aspirare alla regalità e che l’accusa, data la sua elasticità, poteva essere restituita al mittente. Il quarto (Winterling) si focalizza sulla tàccia di pazzia di quegli imperatori (Caligola, Nerone, Domiziano) che non rispettarono le prerogative del Senato stabilite da Augusto. Essi in realtà non erano pazzi nel senso medico e legale del tempo, ma furono giudicati così dalla classe senatoria perché tentarono di superare tali prerogative. Il quinto (Reimitz) analizza le critiche mosse da Gregorio di Tours al re merovingio Chilperico I. Per Gregorio, il re si comportava come un imperatore romano, nello specifico come Massimo, che rifiutò di collaborare con la Chiesa per giudicare Priscilliano di Avila. Secondo lo storico, il modello da imitare è Clodoveo, re che aveva fatto della collaborazione con le varie élite del regno un caposaldo del suo consenso.
Il sesto saggio (Haldon e Panou) spiega come nel mondo bizantino, dalla metà del VII d.C., si diffuse l’idea che l’usurpatore, identificato con il tiranno, fosse la punizione di Dio. Ciò causò un aumento delle rivolte contro gli imperatori ritenuti illegittimi al fine di ristabilire l’ordine e riguadagnare il consenso divino. Il settimo (Shimahara) mostra il frequente utilizzo del termine tiranno in età carolingia, attribuito non solo a monarchi, ma a chiunque abusasse della propria posizione di potere. L’ottavo (Nederman) illumina alcuni punti nodali della riflessione medievale sulla tirannide. Se, da un lato, il tiranno poteva essere considerato come una punizione divina, dall’altro la tirannide non fu giudicata sempre la peggiore forma di governo. Spesso, inoltre, il re non era ritenuto malvagio ma lo erano i suoi consiglieri; pertanto il sovrano era istruito su come individuare i cattivi consiglieri. Il nono (Rychterová) evidenzia come lo sviluppo del discorso sulla regalità nelle lingue vernacolari diede alle popolazioni europee la facoltà di influenzare maggiormente l’opinione corrente su un monarca e la sua memoria presso i posteri. In Boemia, in particolare, la produzione scritta vernacolare diffuse un’opinione negativa su Venceslao IV tra ampi strati della popolazione.
Il decimo (Schadee) si concentra su Poggio Bracciolini e Giovanni Pontano. Il primo nel De infelicitate principum espone l’idea che ogni monarca sia infelice, perché non in grado di coltivare la virtù, mentre nel De praestantia Caesaris et Scipionis sostiene la possibilità per la natura umana di resistere alla corruzione morale generata dal potere. Pontano nel De Principe scrive che il re deve ricercare l’ammirazione dei sudditi per ottenere il loro amore, enfatizzando l’importanza dell’auto rappresentazione del sovrano. Nel De Magnanimitate presenta Scipione Africano come modello di magnanimitas e opera un paragone tra Alessandro e Cesare. Il macedone era re e quindi poteva agire come voleva, mentre Cesare sarebbe dovuto sottostare alle leggi della Repubblica. L’ultimo studio (Pedullà) chiarisce come, pur se la parola tiranno è assente da Il Principe, Machiavelli distingua tra principi virtuosi e malvagi. Il discrimine è che il principe virtuoso aspira al bene comune pur compiendo azioni giudicate tiranniche. Machiavelli crede che le azioni di un principe debbano essere lette alla luce del complesso contesto in cui egli agisce. Questa è un’operazione complessa, ma solo grazie ad essa si può ricavare un giudizio fondato.
Evil Lords mette bene in luce come la concezione personale del potere sia la cifra costitutiva di tutta la riflessione occidentale fino alla modernità politica (Hobbes e Locke). Questo implica che la discussione sul buono e cattivo governo verta sulla persona che detiene il potere e sulle sue qualità morali. Poiché allora il potere non aveva freni costituzionali, l’unico modo di indirizzare un sovrano a perseguire il bene comune era coltivare le sue qualità morali secondo i canoni classici o cristiani. Infatti, qualora la sua morale fosse degenerata, egli si sarebbe trasformato nel tiranno, uomo malvagio che attraverso il potere persegue solo il proprio interesse.
L’opera s’inserisce felicemente in un filone di ricerca sul cattivo governo che non ha una lunga tradizione, specie in una prospettiva di ampio respiro, ma che negli ultimi anni ha ricevuto maggiore attenzione da parte della critica, come ricordato dagli editori (p. 2). La lettura del volume è densa ma scorrevole e la bibliografia è ben curata e aggiornata. Il volume fornisce, dunque, una lucida panoramica dell’evoluzione del pensiero occidentale sul fenomeno in questione ed è adatto sia agli specialisti per l’alto valore scientifico dei saggi sia a chi è curioso di avvicinarsi a questo tema per la sua chiarezza espositiva. Forse sarebbe stato opportuno chiudere il volume con un saggio che tirasse le fila dei ragionamenti svolti nel libro, ma l’introduzione (pp. 1-6) e i frequenti rimandi tra un contributo e l’altro nelle note rendono il lettore in grado comunque di cogliere le linee principali del discorso e il loro sviluppo nel tempo.
Sommario
- Hester Schadee e Nikos Panou, Introduction: Tyranny and Bad Rule in the Premodern West
- Nino Luraghi, The Discourse of Tyranny and the Greek Roots of the Bad King
- Jennie Grillo, ‘A King Like the Other Nations’: The Foreignness of Tyranny in the Hebrew Bible
- Yelena Baraz, Discourse of Kingship in Late Republican Invective
- Aloys Winterling, Imperial Madness in Ancient Rome
- Helmut Reimitz, Contradictory Stereotypes: ‘Barbarian’ and ‘Roman’ Rulers and the Shaping of Merovingian Kingship
- John Haldon e Nikos Panou, Tyrannos basileus: Imperial Legitimacy and Usurpation in Early Byzantium
- Sumi Shimahara, Evil Lords and the Devil: Tyrants and Tyranny in Carolingian Texts
- Cary J. Nederman, There Are No ‘Bad Kings’: Tyrannical Characters and Evil Counselors in Medieval Political Thought
- Pavlína Rychterová, A Crooked Mirror for Princes: Vernacular Reflections on Wenceslas IV ‘the Idle’
- Hester Schadee, ‘I Don’t Know Who You Call Tyrants’: Debating Evil Lords in Quattrocento Humanism
- Gabriele Pedullà, Machiavelli’s Prince and the Concept of Tyranny