Fatta l’Italia, ci fu bisogno di fare gli italiani e per farli parve indispensabile scrivere la loro storia come parte integrante di una nazione. Questa l’indicazione che proveniva dai padri politici e intellettuali del nostro Risorgimento: Cavour, Francesco De Sanctis, Pasquale Villari. Quel nobile proposito fu però equivocato, a partire dal 1945, tanto da porre l’implausibile equazione tra i tentativi di assicurare anche al nostro paese una storiografia a impianto nazionale e lo sviluppo di una analisi del passato in chiave sciovinistica, cui pure arrise qualche non piccola fortuna durante il fascismo.
Quell’equazione era però tanto più sviante quanto meno teneva conto della profonda affinità che esisteva tra alcune correnti, certamente non minoritarie, della storiografia europea e le tendenze di quegli storici italiani che, già alla vigilia del primo conflitto mondiale, s’impegnarono a realizzare una storia d’Italia, capace di descriverne, ma anche di corroborarne e di indirizzarne, la dinamica di integrazione e di espansione nazionale. Registrava puntualmente questo cambio di prospettiva Benedetto Croce, quando nell’ottobre del 1915, scriveva che il travaglio della guerra europea avrebbe modificato profondamente il vecchio modo di fare storia, risvegliandolo dal torpore erudito, avvicinandolo a nuove esigenze non solo presenti, ma pressanti e stringenti.
Allora, nessuno o davvero pochi studiosi del nostro paese avrebbero sostenuto che l’idea di nazione, intesa come concetto storico fondamentale, portava impresso in sé il peccato originale del deragliamento xenofobo. In quel momento invece, ritornava alla ribalta l’idea della nazione italiana in quanto “problema storiografico”. Riprendevano, in un contesto fortemente mutato nei confronti del dibattito, che aveva accompagnato le prime vicende risorgimentali, le discussioni sulla possibilità, sulla consistenza, sui limiti cronologici e sull’unità della storia d’Italia. Si faceva di nuovo urgente la necessità di individuare, nella molteplicità e nella sovrapposizione dei diversi fattori politici, economici, intellettuali, lo “spirito”, il “genio”, il “carattere” unificante delle nostre vicende nazionali, considerate in parallelo e in contrasto con quelle del resto dell’Europa.
Nel gennaio del 1915, Giustino Fortunato, un intellettuale meridionale, ben conscio della mancata integrazione del nord e del sud della Penisola, sosteneva che la «debolezza italiana» consisteva soprattutto nella poca o nessuna coscienza «della realtà morale ed economica dell’Italia, dall’unità ad oggi», e ancora di più «della realtà storica, anteriore e posteriore al miracoloso periodo del Risorgimento». Circa un decennio prima, anche un altro studioso, del tutto estraneo ad ogni possibile contaminazione tra storiografia e volontà di potenza nazionalistica, come il socialista Antonio Labriola, aveva considerato indispensabile interrogarsi sul problema della storia d’Italia, come fenomeno caratterizzato da un’«unità di temperamento e di inclinazioni, che costituisce il popolo nel senso storico della parola, nel quale la nazione italiana appare costituita».
Al compiersi dell’unificazione quel problema era apparso sorpassato perché l’unità statale finalmente conseguita induceva a non dubitare più dell’unità storica, che le vicende della politica internazionale avevano suggellato. Ma, nei primi decenni del Novecento, la trasfigurazione di quella comunità politica in nazione, che il battesimo del sangue della Grande Guerra aveva compiuto, accelerando l’impetuoso moto di modernizzazione del principio del secolo e trasformando in maniera epocale i tradizionali rapporti di forza internazionali, avrebbe richiesto nuove risposte a quell’interrogativo secolare. Risposte che comportavano il rischio di ridurre ulteriormente lo stretto confine che da sempre, da quando storia è storia, separa la riflessione sul passato dal suo uso politico. In questo modo, certamente, il «nazionalismo» diveniva il rischio della «storia nazionale». E fu rischio condiviso da un’intera generazione di storici e intellettuali (da Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, a Benedetto Croce, a Giovanni Gentile, a Giuseppe Prezzolini), i quali lo reputarono inevitabile, alla stregua di un pericolo che il tempo e l’ora obbligavano ad affrontare.
Nell’immediato anteguerra, molteplici furono le iniziative in questo senso, a partire dal progetto di Giovanni Prezzolini, che, tra 1913 e 1914 e più oltre, aveva cercato di impegnare Volpe, Antonio Anzilotti, Arrigo Solmi nella direzione di una collana di venti monografie sulla storia d’Italia, opera di diversi autori, da pubblicare nelle edizioni della «Voce», per attuare anche in quel settore gli obiettivi di modernizzazione culturale, che la rivista si prefiggeva, e che proprio Anzilotti aveva ampiamente teorizzato in un intervento del 1914, dove il disegno di una storia nazionale aveva come necessario presupposto l’abbandono del metodo positivo e la valorizzazione della filosofia idealistica anche nel campo degli studi storici, se veramente si era intenzionati ad edificare «una storia italiana, una storia interiore, capace di mostrarci il ritmo dello spirito nostro e della nostra civiltà nel tempo», invece di persistere nella «vecchia retorica, che spesso aveva rispecchiato il sentimento politico del nostro Risorgimento e la passione di nazionalità».
L’impresa storiografica «vociana» sarebbe stata poi travolta dall’inizio delle ostilità. Ma se la guerra aveva impedito lo svolgimento di quel progetto, proprio la guerra ne avrebbe direttamente sviluppato altri, mettendo in moto un circolo, ora virtuoso ora vizioso, tra ricerca dell’identità nazionale e analisi del nostro passato remoto e soprattutto prossimo. Alla fine del 1918, prendeva avvio l’iniziativa di Giacinto Romano di una Storia d’Italia in quattordici volumi, da affidare a diversi specialisti (tra cui, Barbagallo, Solmi, Caggese, Rota, Ferrari, Luzzatto) che, elaborata alla luce dell’esperienza della Grande Guerra, ma anche sulla falsariga del precedente tentativo della «Voce», doveva fornire «un possente rincalzo della nostra coscienza etnica e nazionale» e «senza voler essere, sonante di frasi o gonfia di tirate patriottiche, riuscire ad un tempo scientificamente severa e altamente nazionale». A questo programma si sarebbe aggiunto, a breve, quello della «Storia d’Italia in collaborazione», che Volpe, nel corso del 1921, annunciava in una serie di lettere indirizzate ad Alessandro Casati, Giovani Gentile, Fortunato Pintor, Benedetto Croce e nella corrispondenza indirizzata a Guido de Ruggiero, il 18 marzo, dove era contenuta una concisa esposizione dei criteri della nuova collezione storica.
Vorremmo pubblicare una serie di volumi in cui fossero lumeggiati i momenti o fasi più importanti della storia d’Italia: l’età barbarica e feudale, quasi vestibolo della storia d’Italia vera e propria; le città e borghesie di città; signorie principali e relativa coltura del Rinascimento; l’Italia e l’Europa, dal cozzo, alla fine del XV, al principio del XVIII secolo; il rinnovamento del XVIII, fino al 1815; l’azione e il pensiero politico dal 1815 al 1861 circa, cioè alla morte di Cavour; l’Italia di oggi. Vagheggerei volumi di storia, nel senso pieno della parola, in cui tutti gli elementi della vita storica si fondessero in una esposizione meditata, precisa, organica, chiara capace di interessare lo studioso e nel tempo stesso entrare nella biblioteca della semplice persona colta, dello studente universitario, del professionista che abbia qualche curiosità fuori della sua professione. Accanto o attorno a questo nucleo, un’altra serie di volumi in cui si riprendano motivi già toccati nei volumi precedenti, ma per dar loro maggiore svolgimento. Ad esempio: l’economia italiana e l’economia europea alla fine del Medio Evo; il Rinascimento italiano in Europa; l’Italia e l’Oriente europeo; Italia e Germania nel XIX secolo (rapporti di coltura-politica-economia); Italia e Inghilterra, nel XIX secolo; Italia e Francia dopo la Rivoluzione francese (specie durante il Risorgimento italiano); l’emigrazione italiana e le colonie italiane in America latina dalla seconda metà del XIX secolo.
Il disegno della collana si sarebbe ulteriormente precisato con la stesura di un opuscolo, in cui erano suggeriti alcuni indirizzi generali «per armonizzare un po’ il lavoro dei collaboratori», concepito alla fine del 1920, redatto già nell’ottobre del 1921, infine pubblicato nel marzo dell’anno successivo, che avrebbe dovuto servire anche come base di discussione tra tutti i partecipanti al piano di lavoro. In quel Programma e orientamenti per una Storia d’Italia in collaborazione e per una Collana di volumi storici, si manifestava un disegno di storia nazionale che doveva dare il senso del nuovo clima politico, sociale e morale che si era affermato al termine della guerra, ma «senza retorica e senza enfasi, senza “boria di nazioni” e parole pronunciate ore rotundo e supervalutazione, cioè deformazione del nostro passato, a scopo di effimera propaganda». Una storia quindi che doveva essere storia politica, in quanto storia delle istituzioni statuali e dei «gruppi sociali politicamente organizzati», ma solo a condizione di essere concretamente storia della società e dei suoi componenti con i loro bisogni, i loro obiettivi, i loro conflitti, perché molto spesso «lo Stato è un fantasma, con scarso rilievo e personalità e azione propria, e la vita sociale trabocca fuori dei suoi deboli argini e si svolge indisciplinata o conforme ad una sua propria disciplina, affidata alle classi, ai partiti, ai gruppi affiancati o contrapposti».
In qualche modo, dunque, una storia che ambiva ad essere «totale» ma soprattutto che doveva realizzare il fine di essere storia «contemporanea», «storia attuale». Storia, avrebbe ripetuto Croce, dei «propri tempi», che dal passato guardava al presente, per accompagnare il «cammino» dei popoli e degli individui verso il futuro. Storia, aveva sentenziato Gentile e con lui Adolfo Omodeo che addirittura avrebbe dovuto essere pratica normativa per il momento attuale, perché in essa «il giudizio, la sentenza non è vana parola contro vane ombre del passato, ma è la sentenza che si attua, il giudizio che incide perpetuo nella storia stessa». Storia, avrebbe concluso Volpe, per suo conto, che non poteva non muovere dalle «suggestioni dell’oggi», dai fermenti della vita presente che ne costituiscono «l’elemento animatore e vivificatore», dato che «l’interpretazione e ricostruzione del passato sarebbe “fatta” e non più da fare o rifare solo il giorno - ipotesi irrealizzabile - che gli uomini si fermassero nelle posizioni raggiunte e non vi fosse più domani per essi».
Di qui la struttura a piramide rovesciata dell’opera, che, poggiata sulla salda base di una ricognizione di quei caratteri originali, che si erano manifestati soprattutto sul piano giuridico ed economico tra Età di mezzo e Rinascimento, tendeva ad allargarsi con lo scorrere dei secoli, quando la storia della nazione italiana aveva dovuto confrontarsi, tra luci e più spesso tra ombre, ma sempre con formidabili ricadute sul contesto interno, con quelle delle altre formazioni politiche mediterranee e continentali. Una storia d’Italia, infatti, doveva e non poteva non essere anche una storia dell’Italia nella storia d’Europa. E quella dinamica parallela, strettamente intrecciata, se non davvero unitaria, tra nazione e continente, doveva essere illustrata a partire dai «due secoli di dominio straniero nella Penisola», al Settecento, in cui il nostro paese trovava la sua prima forma di identità politica come «sistema di Stati», fino allo sconvolgimento rivoluzionario e alla sistemazione napoleonica, alle lotte nazionali del XIX secolo, nel cui scenario diplomatico soltanto poteva intendersi il nostro Risorgimento, allo scontro non più soltanto europeo, ma ormai mondiale, delle «Grandi Potenze» tra 1870 e 1918.
Poi la parentesi del fascismo e il disastro di un conflitto, conclusosi con la resa incondizionata del settembre 1943, aprivano bruscamente una nuova stagione culturale, alla quale persino Croce fornì indirettamente qualche stimolo, insistendo sulla necessità di «snazionalizzare la storia» dei vari popoli, che avrebbe ormai dovuta essere intesa e giudicata «unicamente secondo il valore umano e universale». In questa nuova prospettiva, avrebbe poi aggiunto il filosofo, anche il problema storiografico della storia d’Italia doveva essere negato «come assurdo». Nasceva così, nel secondo dopoguerra, una vera e propria “storiografia politica della disfatta”, interessata a sottolineare unicamente le deficienze e le debolezze dello Stato unitario, posteriore al 1861. Non la nazione e le sue istituzioni politiche, non l’unità etnica e culturale del suo popolo, non la funzione-guida delle sue classi dirigenti, non la sua presenza sullo scenario internazionale e l’espansione del suo lavoro nel mondo, ma i contropoteri locali e gli antagonismi delle classi subalterne divenivano il centro della storia italiana. La storia del nostro paese si trasformava così in antistoria d’Italia, secondo le indicazioni di Ernesto Ragionieri, che poi avrebbe costituito la cifra unificante della voluminosa e farraginosa Storia d’Italia Einaudi, pubblicata a partire dall’inizio degli anni Settanta.
Bibliografia
Per tutte le citazioni presenti nel saggio si rimanda a :
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Galasso G. 1979, L’Italia come problema storiografico, Torino: Utet.
Galli della Loggia E. 1998, L’identità italiana, Bologna: Il Mulino.
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