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La Rai e il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia. Intervista a cura di Mirco Dondi

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Mirco Dondi - Il 26 aprile 2010 il Consiglio di amministrazione della Rai ha assegnato a lei la responsabilità, con voto unanime, della struttura organizzativa e finanziaria «Rai per i 150 anni dell'Unità d'Italia», aspetto insolito per un Cda che solitamente assume decisioni a maggioranza e non disdegna confronti serrati. Il suo unico referente sarà il direttore Mauro Masi [Lorenza Lei dal 3 maggio 2010]. Questa situazione quanto spazio le lascia e quali limiti eventualmente le impone?

Giovanni Minoli - Spazi e limiti sono quelli disegnati, con chiarezza, dalla delibera del CdA. Ovvero: da un lato, sulle reti generaliste (Raidue e Raitre), gli spazi già esistenti di La Storia siamo noi, dall’altro, su RaiStoria, quelli di Dixit, tutti i giorni in prima serata. In più, il CdA ha previsto la possibilità di allargare questi spazi per iniziative speciali legate ai 150 anni dell’Unità d’Italia: è già successo con alcune puntate speciali nella seconda serata di Raitre, speriamo accada ancora. Al di là di questo, l’unanimità del CdA significa la condivisione di un progetto editoriale forte, da interpretare come una declinazione del servizio pubblico. Purtroppo, però, manca tuttora il passaggio ulteriore: attualmente, infatti, il canale RaiStoria è in co‑abitazione. Da una parte c’è la nostra struttura, che gestisce tutte le prime serate, dal lunedì alla domenica, dall’altra il resto del palinsesto. Dal momento che si tratta dell’unico canale dedicato interamente alla Storia, e che dunque sarebbe la piattaforma ideale per le trasmissioni della Rai sui 150 anni dell’Unità d’Italia, sarebbe ragionevole che il coordinamento editoriale dell’offerta di RaiStoria fosse affidato ad un’unica persona, anche se, abbastanza incomprensibilmente, le recenti scelte del CdA sembrano essere andate in un’altra direzione.

In questo contesto lei ha ricevuto un incarico parallelo come coordinatore nella "Struttura di missione" per le celebrazioni dell'Unità d'Italia. Questa struttura sovraintende ai programmi di Storia dell’unità italiana delle tre reti generaliste e dei canali tematici. Su quale budget può contare questa struttura e in che rapporto sta con il budget ordinario solitamente assegnato per le produzioni di programmi storici?

Non è un incarico parallelo, ma rientra nella stessa delibera. È poi la stessa delibera che fissa chiaramente il budget assegnatoci: sono otto milioni di Euro l’anno, per un totale di circa 1060 ore di programma in onda ogni anno. Questa cifra è basata sui costi di produzione di La Storia siamo noi e Dixit, che – con considerevoli sforzi – siamo riusciti ad abbassare di oltre il 50% rispetto ad un normale programma di seconda serata.

Quanti sono i programmi creati appositamente per il 150° e con quale criterio avete assegnato le programmazioni, tra reti generaliste, canali tematici e fasce orarie?

Le iniziative e i programmi che stiamo realizzando sono tantissimi. A parte le puntate monografiche di La Storia siamo noi (penso a quelle su Mazzini, su Cavour, su Ippolito Nievo, e poi su Verdi, sul 16 marzo 1861 raccontato “ora per ora”), ne posso citare almeno tre: gli oltre cinquanta appuntamenti di Dixit – In diretta dal Risorgimento, due ore di prima serata in onda su RaiStoria che raccontano, con servizi e filmati, lo svolgersi delle celebrazioni del 150° anniversario; i dieci appuntamenti di Cercando i nuovi mille, un viaggio nel nostro Paese alla ricerca, appunto, di quei giovani che, nel 2011, incarnano lo spirito di innovazione e di avventura progettuale di cui l’Italia ha così bisogno, anche con forti radicamenti nel web e nelle nuove tecnologie; e, ancora, Fratelli d’Italia, un programma molto elegante e di spessore, che mette a confronto personalità del presente e della storia di questi primi 150 anni: Montanelli e Feltri, D’Annunzio e Sgarbi, Mattei e Scaroni, Duse e Melato, etc.

Temete un’assuefazione del pubblico, quindi un calo d’interesse nel tempo, sul tema del 150° anniversario? Quali accorgimenti si possono adottare per evitare la stanchezza del pubblico?

Nessuna assuefazione. Il successo trionfale – probabilmente al di là delle aspettative di quasi tutti – che hanno avuto le celebrazioni alla presenza del Presidente della Repubblica sono il segno inequivocabile di una riscoperta passione per il nostro Paese da parte di tutti gli italiani. Sono, ovviamente, anche il segno di altro, e dunque anche di questo occorre tener conto, e infatti mi pare che il Capo dello Stato non perda occasione per sottolinearlo, interpretando con un’autorevolezza e un prestigio davvero eccezionali il ruolo che la Costituzione gli assegna. Dal punto di vista strettamente televisivo, i 150 anni dell’Unità d’Italia sono un argomento tanto difficile quanto appassionante: difficile, perché ovviamente si tratta anche di un lungo periodo di cui non esistono immagini filmate, e dunque c’è la sfida continua a inventare modalità di racconto contemporanee (per un pubblico che vive di immagini) su una materia del passato; appassionante, perché dietro il luogo comune che vuole che si tratti di una materia polverosa, relegata nelle memorie dei banchi di scuola, palpita invece l’avventura straordinaria di chi ha creduto, lottato e sacrificato la propria esistenza per la nascita dell’Italia. È, insomma, un viaggio nelle ragioni delle nostre radici: un argomento che, in un momento di smarrimento diffuso, qual è quello che viviamo, mi sembra estremamente attuale.

Il primo programma che avete trasmesso per le celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia è stato quello del 5 maggio 2010, nell’anniversario della partenza dei Mille da Quarto nel 1860. Questo taglio è in linea, dalla nascita di Rai Storia, con una programmazione legata a una cronologia a ritroso che stabilisce un preciso legame di quel giorno nella storia, una sorta di anniversario quotidiano. State continuando a mantenere questo tipo di programmazione e con quale intensità?

In realtà questa non è la linea di RaiStoria: è la linea di La Storia siamo noi, sin da quando ho iniziato a occuparmene, nel 2002. RaiStoria ha semplicemente mutuato quell’idea, trasformando l’approfondimento di un’ora proprio di La Storia siamo noi in una sorta di Almanacco del giorno, come già avveniva su Raiuno negli anni Settanta.

Come i personaggi, anche i luoghi (lo scoglio di Quarto, le Valli di Comacchio, Teano eccetera) sono altrettanto importanti, come simboli dell’identità nazionale. Quanto spazio state dedicando ai temi legati ai significati dei luoghi?

Moltissimo, anche perché Dixit – In diretta dal Risorgimento, di cui parlavo prima, è una sorta di magazine che si presta perfettamente a questo tipo di approccio.

Nella costruzione dei programmi per “La Storia siamo noi” un ruolo importante è da sempre assegnato alle interviste ai testimoni. Affrontando temi antecedenti alla storia del Novecento non si può ricorrere a questa risorsa. Come cercate di ovviare a questa mancanza? Dando più spazio alle interviste con gli storici oppure realizzando filmati che, partendo dai documenti, ricostruiscano determinati contesti?

Entrambe le strade. Con il nostro lavoro, abbiamo contribuito, credo, a colmare il baratro che spesso si apriva tra il mondo accademico e la divulgazione: in realtà, anche la divulgazione televisiva è, o perlomeno dovrebbe essere, una estensione di quella trasmissione di sapere che è tra i compiti propri degli storici. Dando voce a storici di tutte le università e di tutti gli orientamenti, abbiamo scoperto un patrimonio inesplorato: grandissimi studiosi, grandissimi ricercatori, grandissimi comunicatori, che anche grazie a noi (ma non solo: penso alle affollatissime lezioni pubbliche, come il Festival della Storia a Roma) si aprono e aprono il proprio sapere ad una platea infinitamente più vasta di quella delle aule universitarie. D’altra parte, anche i documenti storici costituiscono una miniera che riserva continue sorprese, e la televisione, ovviamente, è uno strumento formidabile per riannodare il filo della Storia nel tessuto di quelle carte sepolte negli archivi.

È assodato che la storia in Tv incontra il gradimento del pubblico se i processi storici sono raccontati attraverso le vicende di personaggi noti. Oltre agli imprescindibili padri della patria (Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II) ci sono figure che in tempi recenti hanno incontrato un ritorno di interesse, è il caso, fra gli altri, di Goffredo Mameli sul quale avete trasmesso un programma del 1992 realizzato, da Giovanni di Capua, “Italia chiamò”. Quali sono i protagonisti di quel tempo che oggi sentite al centro dell’attenzione e su quali altre figure del Risorgimento state dedicando la vostra attenzione?

Ho già citato Ippolito Nievo, ma voglio citare anche il viaggio nel Risorgimento musicale che abbiamo iniziato raccontando le vite dei giganti della nostra musica: Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini, Toscanini. Può sorprendere, guardando alle date di nascita e di morte, l’inclusione di questi ultimi due, ma in realtà la loro storia e, soprattutto, la loro musica, sono parte integrante dei primi 150 anni del nostro Paese. E d’altra parte, stiamo lavorando, come ho detto, a tantissime puntate su questo tema – troppe, per citarle tutte.

Quanto è possibile far conoscere le opere degli storici in un programma televisivo a tema storico?

Non capisco bene la domanda. Se per opere degli storici si intende la loro ricerca, le loro scoperte, allora ho già risposto. Altro è se, viceversa, si intende il titolo del loro ultimo saggio.

Il simbolo del 150° anniversario si compone di tre bandiere; ciascuna rappresenta, nel passaggio di cinquant’anni, un anniversario (1911-1961-2011). Nel vostro palinsesto avete inserito programmi che riguardano le celebrazioni del 1961. Quali sono le differenze tecniche e di contenuto più evidenti rispetto ad allora?

Tecniche, ovviamente infinite. I cinquant’anni che separano i due anniversari sono, dal punto di vista della tecnologia, un’era geologica. Quanto al contenuto, è completamente diverso il clima culturale, sociale, politico, economico e, direi quasi, psicologico due celebrazioni. L’Italia del 1961 è l’Italia del boom, dell’Oscar alla lira, di una crescita che pareva inarrestabile; quella di oggi, lo sappiamo bene, è tutt’altro. Quella era la celebrazione del progresso e dei risultati raggiunti; questa di oggi, invece, è una riflessione su come ripartire.

Dai suoi esordi, com’è cambiato il modo di costruire il programma “La Storia siamo noi”? Le celebrazioni del 150° contribuiscono ad inserire ulteriori novità?

Credo di aver già risposto. Per quanto riguarda La Storia siamo noi, quello che è cambiato è che, intorno a noi, è cresciuta una meravigliosa squadra di giovani televisionisti che, ogni giorno, ci stupiscono per la passione, l’intelligenza e il talento che dimostrano. Giovani che rileggono pagine ed episodi della Storia recente con gli occhi “vergini” di chi non l’ha vissuta, con la competenza dello studioso e con l’entusiasmante capacità di racconto di chi è in sintonia con i ritmi della contemporaneità. Per creare una squadra del genere, ovviamente, c’è voluto del tempo. Quella dei 150 anni, poi, è un’ulteriore sfida per loro: perché si tratta di “re‑inventare” visivamente un passato di cui non esistono immagini cinematografiche né, ovviamente, televisive.

Il tema legato alla memoria condivisa ha attraversato il dibattito fra gli storici dividendoli tra chi ritiene scorretto da parte dello storico creare una memoria condivisa, perché ciò non risponde a verità, e chi invece ritiene doveroso cercarla. Da questo punto di vista come si pone realizzando i suoi programmi storici?

Sono d’accordo con chi, anziché invocare una memoria “condivisa”, invoca piuttosto una memoria “comune”. L’importante non è arrivare alla stessa interpretazione di un episodio: l’importante è che almeno tutti si sia d’accordo che i fatti sono andati in una sola maniera, e non altrimenti. Solo in quel momento – ed è questo il nostro approccio – il nostro compito è fornire una pluralità di punti di vista che consentano allo spettatore di formarsi una propria opinione, una propria lettura, una propria interpretazione di quell’evento.

Quale futuro e quali forme prevede per la Storia in televisione?

Temo che la domanda sia mal posta. Per quanto riguarda la Storia, infatti, ritengo che, di fronte alla crescente complicazione del nostro tempo, all’impossibilità di trovare dei punti di riferimento, allo smarrimento in un gigantesco nulla globale, crescerà da parte del pubblico la voglia di guardarsi all’indietro per cercare lì origini, radici e ragioni del presente. Quanto alle forme, il problema è estremamente complesso, e si può sintetizzare con uno slogan: abbiamo migliaia di autostrade, ma solo qualche decina di automobili. Si moltiplicano insomma i canali di diffusione del prodotto televisivo (televisione generalista, tematica, satellitare, via Internet, gratis, a pagamento, via telefonia mobile, etc), ma il prodotto rimane sempre lo stesso. Ogni giorno, quasi a qualunque ora, c’è almeno un episodio del tenente Colombo o dell’ispettore Derrick (tanto per fare due esempi a casaccio) in onda su un canale televisivo italiano. Ma una ricerca in questa direzione, alla volta cioè di prodotti specifici per piattaforme specifiche, richiederebbe soldi e investimenti culturali – qualcosa che, temo, al momento non sia praticabile.