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Napoleone Colajanni e l'unità italiana

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Il documento: Napoleone Colajanni, Il Cinquantenario dell'unità italiana, Milano: Società editoriale milanese, 1911.

Già la stessa indicazione apposta quale sottotitolo al saggio dedicato al Cinquantenario dell'unità italiana nel 1911 definisce il tono e la collocazione politica dell'autore: Conferenza tenuta dall'on. Colajanni il 7 maggio 1911, nel salone della Casa del Popolo di Milano, a nome della Democrazia milanese, auspice la Sezione locale del Libero Pensiero.

Gli elementi caratterizzanti l'intera vicenda politica del sessantaquattrenne onorevole siciliano appaiono tutti presenti in modo implicito: il luogo, una Casa del popolo; gli organizzatori, la Democrazia milanese; il riferimento ideale, l'associazione di "Libero Pensiero". É quindi inevitabile che il suo discorso celebrativo rappresenti una sorta di summa delle valutazioni (e delle malinconie) che segnavano in quegli anni l'attività degli eredi di un azionismo mazziniano e garibaldino, profondamente deluso dagli esiti di un processo unitario visto come assai lontano dai programmi e dai miti trascinanti la loro giovinezza sui campi di battaglia dell'epopea risorgimentale.

Già perché Napoleone Colajanni (figura 1) era proprio la tipica espressione di un sogno unitario fatto di eroico volontarismo manifestatosi tra Aspromonte, Bezzecca, Magenta; le cospirazioni mazziniane pagate con il carcere; la lotta politico-parlamentare nelle fila dell'Estrema; il rifiuto della repressione antipopolare nella Sicilia dei Fasci; la partecipazione di primo piano alla nascita del Partito Repubblicano Italiano nel 1895, considerato allora dalle autorità l'espressione più pericolosa del rifiuto anti-sistema.

Figura 1
Figura 1

Intanto, comunque, non mancava certo in lui la consapevolezza che un grande cammino unificante fosse stato compiuto e ne testimoniavano proprio le eccezionali risposte date dal paese nella sua interezza, da Nord a Sud, ai flagelli naturali, dai terremoti alle inondazioni alle eruzioni vulcaniche, che avevano colpito a più riprese molte e svariate parti del territorio, cui sempre si era risposto con afflato e partecipazione comuni, come se tali sventure facessero meglio meditare sui tanti sacrifici da tutti compiuti per giungere alla meta della nazione compiuta.

Ad una simile considerazione si aggiungeva l'orgoglio di una ricorrenza celebrativa esaltata anche dall'intero mondo della cultura internazionale, sia per l'indiscutibile capacità della nostra storia di coniugare la superiorità della classicità romana con gli esiti del Rinascimento, indiscutibile palestra di ripresa della presenza della ragione dell'uomo dopo i secoli bui del Medioevo, come per la presenza nelle nostre città dei maggiori capolavori artistici esistenti e, pure, per l'essersi l'Italia unificata in virtù di un libero ed imprevisto contratto tra le sue popolazioni.

Ecco in queste considerazioni subito affiorare il senso profondo delle contraddizioni del pensiero di questa Sinistra azionista, che - come noteremo successivamente - è destinata ad un pensiero critico su quanto intercorso, ma ad un tempo a sentirne tutta la forza e, in definitiva, a farlo proprio. Contraddizione forse inevitabile, non per soggettiva incongruenza ideologica dei protagonisti, quanto piuttosto a causa della sempre ribadita feconda ambiguità di un Risorgimento, diplomatico e di popolo ad un tempo, rivoluzionario e compromissorio, palingenetico e stabilizzatore di tradizionali gerarchie sociali, sogno romantico e immersione nella realtà, in definitiva. Del resto, proprio Colajanni - e non fu certo l'unico della sua generazione - finì per schierarsi, di fronte alle scelte relative alla partecipazione alla Prima guerra mondiale del '900, per un completamento bellico dello sforzo unitario e, nel dopoguerra (scomparve nel 1921), rifiutò ogni ipotesi massimalistica vedendo con favore il movimentismo nazionalistico mussoliniano.

In quelle celebrazioni dell'11, però, era ad ogni buon conto possibile richiamare una vicenda storica segnata da un ritardo nella costruzione di un grande Stato simile a quello degli altri maggiori popoli europei a causa della presenza incombente della Chiesa con i suoi interessi che Colajanni pesantemente stigmatizza in quanto strabordanti dai confini del magistero religioso. Per questo la penisola restava una derisa "espressione geografica”, e si vedeva unificata solo nelle pagine dei suoi maggiori intellettuali, poeti e narratori, da Dante a Petrarca, da Alfieri a Foscolo a Leopardi. «Come trasformare l'idea letteraria dell'Italia una nella realtà?» si chiede l'autore e la sua risposta risulta coerente con la sua battaglia e il suo credo di sempre: «Occorrevano miracoli; o meglio occorrevano il pensiero, l'azione di un uomo-miracolo». Questi, in assenza di ogni altro mezzo doveva educare e spingere il popolo in tale direzione attraverso «il fatto, cioè le cospirazioni, le sommosse, le insurrezioni, le rivoluzioni, che, attraverso alle migliaia di anni di galera, ai processi, agli esili, alle fucilazioni, ai massacri di feroci governanti; attraverso ai martiri, ai sacrifici, agli eroismi, riescono gradatamente a creare, a plasmare, una coscienza italiana». Era l'Italia di Mazzini che sorgeva ai suoi occhi con tutta la sua forza dirompente, con il suo binomio di pensiero e di azione, con il suo coinvolgimento della spada invincibile di Garibaldi. Un'Italia disposta pure, nel supremo momento della guerra del 1859, a ritrarsi dalle sue entusiasmanti strategie pur di raggiungere l'esito sperato anche a costo di lasciar spazio all'iniziativa sabauda. Serrata è a questo punto la critica di Colajanni alla mancanza di generosità del sovrano e del suo ministro Cavour, indicati quali beneficiari del lavorio preparatorio dei repubblicani ed irriconoscenti verso quanti si erano votati a favorire il comune successo.

Persino la coraggiosa dichiarazione cavouriana del marzo 1861 di Roma capitale era tacciata di insincerità, sottoposta com'era, affermava l'autore, al beneplacito del Papa e all'accordo con la Francia, due condizioni del tutto apparentemente irrealizzabili e salvaguardate da Casa Savoia attraverso Aspromonte, le stragi di Torino del '64 e Mentana (i ricordi della giovinezza del deputato siciliano ancora risultavano brucianti con tutta evidenza). In realtà solo la predicazione mazziniana aveva fatto comprendere agli Italiani, fin dal 1832, l'ineluttabilità di quella soluzione imposta dalla storia e da una sorta di centralità morale che sola poteva dare al nostro paese il senso della missione universale da compiere verso l'armonico ed operoso intreccio di tutte le libere nazionalità rivolto al progresso dell'umanità.

Ecco perché Mazzini, alla guida nella primavera del '49 di una Repubblica romana ormai sopraffatta dalle preponderanti forze dell'esercito francese, ordinò, anche contro il parere di Garibaldi, una difesa ad oltranza della città, quale simbolo eroico di un futuro dove i popoli sapessero tutelare la loro dignità, la loro autodeterminazione, il rifiuto del predominio della violenza e dell'oscurantismo. E l’Apostolo lo ribadì tante volte, non ultima quella espressa alla vigilia della morte: «come dalla Roma dei Cesari uscì l'unità d'incivilimento comandata dalla forza all'Europa, come dalla Roma dei papi uscì un'unità d'incivilimento comandata dall'autorità a gran parte del genere umano; così dalla Roma del popolo uscirà un'unità d'incivilimento accetta dal libero consenso dei popoli, all'umanità». Quel Mazzini che proprio mentre tuonava il cannone a porta Pia la monarchia teneva prigioniero a Gaeta, là dove - suprema ironia - era andato a rifugiarsi Pio IX fuggito da Roma nel '49. Quel Mazzini, ancora, che da Roma, nelle brevi settimane del suo governo repubblicano aveva pur saputo affrontare i temi più urgenti delle necessità materiali del popolo, attraverso riforme fiscali, abitative, del lavoro. E soprattutto quel Mazzini che l'Europa tutta onorava per la capacità di parlare al suo popolo senza dimenticare gli altri popoli, di non richiamarsi mai ad una nazione sopraffattrice delle altre nazionalità, bensì costruttrice di un equilibrio internazionale basato sul consenso e non sulle segrete trame delle cancellerie.

Da ultimo occorreva evitare di tacciare Mazzini di eccesso di retorica nel suo insistito richiamo alla necessità di costruire una terza Roma, quasi fosse possibile ipotizzare una progressiva trasformazione dall'interno della Chiesa romana: Colajanni non vi credeva affatto, convinto com'era che la distruzione delle catene di ferro da sempre usate per tenere i popoli in soggezione fossero state sostituite da catene psicologiche, in quanto - l'autore ne era certissimo - l'educazione cattolica ha formato il disastro dei popoli.

Infine bisognava che gli Italiani si convincessero dell'esigenza di un forte impulso educativo che li rendesse migliori e su questo Colajanni terminava il suo intervento con la delusa constatazione che ben poco si fosse realizzato sotto un tale profilo, anche se c'era da sperare nella appena approvata legge sulla scuola e nel suffragio universale promesso. Eppure la vera speranza in lui stava nella forza riposta nella storia stessa di Roma indipendentemente dal migliorarsi degli Italiani: una sorta di fatalità indiscutibile «superiore a tutte le contingenze del momento e che va oltre tutte le deficienze degli uomini... Roma adempie alla sua missione senza la cooperazione degli Italiani. A lui sembrava sufficiente aver eliminato la presenza papale: il fallimento della infallibilità papale spalancò le porte alla libertà umana, segnò il trionfo della inviolabilità della coscienza umana».

Un Risorgimento quale processo di liberazione in senso democratico ed etico dell'uomo che rappresentava l'eredità migliore del nostro Ottocento e che faticava a fare i conti con le trasformazioni in corso nella realtà di un'Italia alle prese con i nuovi e diversi problemi di un paese in via di industrializzazione e alla ricerca di una diversa presenza nel quadro internazionale da tempo lontano dall'armoniosa convivenza fra i popoli e sulla via della caduta nel disastroso baratro della guerra mondiale.