Premessa
L’emigrazione di imponenti masse di lavoratori che dall’Italia, soprattutto del Nord, si diressero in Brasile, prevalentemente negli stati centro-meridionali, ha rappresentato tra fine Ottocento e inizio Novecento un fatto nuovo e ha costituito uno stimolo per impostare su basi originali la dilatazione dell’orizzonte ideale del nascente movimento operaio da una parte e del tradizionale credo cattolico dall’altra. Entrambi questi universi compresero rapidamente che la lotta per il controllo delle coscienze nel Nuovo Mondo si sarebbe giocata sui coloni europei, anche perché era su di essi che, secondo un consapevole calcolo biopolitico, era stato costruito l’intero progetto migratorio funzionale alla costituzione del «tipo umano brasiliano», ossia il futuro cittadino brasiliano (Colbari 1997, 55). Una lotta nella quale questi due universi ideali hanno convissuto entrando in conflitto non solo con le realtà politiche e confessionali del paese di arrivo ma anche, e molto duramente, tra di loro. Si tratta di una vicenda molto complessa, che di volta in volta, a seconda dello spazio e del tempo che attraversa, assume connotati differenti, e che si incardina esattamente nel crocevia tra sviluppo industriale europeo, conseguente espulsione di manodopera, esasperato colonialismo e nazionalismo, contrasti di nazionalità (Rosoli 1982, 225).
Il presente saggio cerca di disegnare il profilo di questo complesso rapporto.
Un piroscafo carico di uomini, famiglie e ideali
Nel 2000 la scrittrice Zélia Gattai dà alle stampe il romanzo Città di Roma (Gattai 2006) nel quale ricostruisce, attraverso i racconti dei parenti e i ricordi d’infanzia, la storia della propria famiglia a partire dalla migrazione dei nonni dall’Italia fino alla nuova vita in Brasile, prima con i fratelli e le sorelle e poi con il marito Jorge Amado. Il testo è fortemente romanzato, a partire dal titolo che rievoca il nome errato del piroscafo sul quale gli avi dell’autrice avrebbero lasciato l’Italia per raggiungere il Brasile, ma poco importa perché – come ha già osservato Isabelle Felici (Felici 1994, 352) – questa formula nulla toglie al valore di testimonianza del racconto di Zélia Gattai che anzi, ricco di carica emotiva e coinvolgimento personale, compensa imprecisioni con una profondità che restituisce il senso complessivo dell’esperienza migratoria in questi tempi e in questi luoghi. Ernesto Gattai, padre di Zélia, parte da Genova sul piroscafo Adria il 10 marzo 1891 – insieme alla sua famiglia d’origine composta di anarchici toscani – e arriva a Rio de Janeiro l’8 aprile successivo per rafforzare il contingente della Colonia Cecilia, nota esperienza di comune socialista-anarchica fondata nel 1890 dall’internazionalista pisano Giovanni Rossi nel Paranà (Gattai 2002; Rossi 1893; Felici 1988; Bignami 2017b). La madre dell’autrice, Angela Maria (detta Angelina) Da Col, arriva in Brasile al seguito della propria famiglia composta invece di braccianti veneti cattolici in fuga dalla miseria in cui erano costretti in Italia e diretti al lavoro in fazenda. La famiglia Gattai-Da Col ci dice molto della famiglia italiana diretta al Brasile al tempo della Republica Velha, all’interno della quale radicate istanze religiose convivono molto spesso con nuove tensioni internazionaliste, e ci racconta delle motivazioni e dei progetti che portavano alla scelta migratoria: ovviamente in capo stava la miseria della condizione presente in patria unita alla speranza in un futuro altrove, perseguita sempre nel solco di un progetto lavorativo per molti fortemente connotato da un ideale politico; infine ci racconta delle differenti destinazioni dei migranti italiani una volta giunti nel Nuovo Mondo.
In questi anni l’emigrazione verso il Brasile era organizzata attraverso il reclutamento di grossi contingenti di migranti da lavoro, che negli stati centro settentrionali (San Paolo, Minas, Espirito Santo, Bahia, ecc.) venivano generalmente impiegati come lavoratori salariati nelle fazendas dove, in seguito all’abolizione della schiavitù, nel 1885 le grandi imprese agricole avevano perduto la manodopera a costo zero (Beozzo Bassanezi 1991, 89), mentre negli stati meridionali (Paranà, Santa Catarina, Rio Grande do Sul) venivano attratti nel sistema della colonizzazione “libera”, cioè mediante l’offerta di lotti di proprietà a riscatto. Si tratta di spazi molto differenti per diversità di sistemi economici e per esito dell’emigrazione: il lavoratore della fazenda avrebbe presto lasciato il lavoro nei campi a causa delle dure condizioni di vita, attratto dalla possibilità di impiegarsi nell’industria e nel terziario (settori in forte sviluppo nelle città in espansione), mentre il colono sarebbe stato generalmente stanziale e vincolato al riscatto del terreno quindi alla proprietà.
In questi due grandi spazi dell’emigrazione degli italiani in Brasile si inserisce l’azione di assistenza e propaganda del clero e dell’internazionale, arrivati entrambi in Brasile al seguito del grosso contingente di manodopera. I sacerdoti italiani, in molti casi favoriti dal fatto di provenire dagli stessi villaggi dei migranti, hanno spesso accompagnato i compatrioti nei viaggi e, grazie alla comunanza di linguaggio e alla conoscenza delle singole anime, hanno svolto una funzione fondamentale «nei processi di territorializzazione delle terre brasiliane», fino a imprimere direttamente nei nuovi territori «segni fortemente legati alla tradizione religiosa della società italiana» (Cristaldi 2015, 81). Gli internazionalisti, invece, erano sia veri e propri militanti anarchici in fuga da condanne o persecuzioni perché considerati pericolosi per l’ordine pubblico dello stato italiano, sia parte degli stessi migranti in cerca di maggior fortuna nel Nuovo Mondo, oltre ai moltissimi che si sarebbero politicizzati solo nel paese di arrivo in seguito al contatto con i militanti. La tipologia e i risultati dell’assistenza religiosa e politica è stata determinata dalla differente natura e soluzione dei grandi spazi dell’emigrazione di cui si è detto.
L’assistenza spirituale e politica nelle fazendas e nelle colonie agricole
In fazenda la vita era organizzata in piccole colonie, isolate e autoreferenziali. Ciascuna di esse era distante non solo dalla sede centrale – luogo della casa e dell’ufficio del proprietario, del magazzino e degli impianti per la lavorazione del caffè, della segheria e della cappella – ma anche, pressoché equamente, dalle altre colonie, rendendo così la vita di ciascuna fortemente isolata e le occasioni di attività associative relegate a feste o cerimonie religiose (Vangelista 1982). Uno status che era rafforzato dalla costante e pesante sorveglianza degli ispettori sui lavoratori, che intervenivano sulla quotidianità delle famiglie, impedendo loro di ricevere visite, spostarsi e lasciare la proprietà nei giorni lavorativi senza autorizzazione. Di conseguenza, si fecero molto stretti e costanti i vincoli fra gli abitanti della stessa colonia, ma impossibili i contatti con l’esterno (Bignami 2017a).
Di fronte alla pressante questione migratoria e in seguito alla constatazione di una grave lacuna nella capacità di evangelizzare i migranti italiani [1], la Congregazione Propaganda Fide [2] assegna a Giovanni Battista Scalabrini, già vescovo di Piacenza, l’organizzazione dell’assistenza degli italiani nelle Americhe e la formazione di missionari addetti a tale compito (Sanfilippo 2001, 134-135). Leone XIII approva con la lettera apostolica Libenter Agnovimus (25 novembre 1887) [3] la costituzione di una congregazione missionaria ad opera di Scalabrini e con l’enciclica Quam aerumnosa (10 dicembre 1888), primo documento della chiesa sulla pastorale migratoria, presenta ai vescovi d’oltreoceano il programma:
Riflettendo su tutto ciò e deplorando la misera sorte di tanti uomini, che come gregge privo di pastore vediamo errare per luoghi scoscesi e ostili, e insieme ricordando la carità e i dettami dell’eterno Pastore, ritenemmo Nostro dovere recare ad essi tutto l’aiuto possibile, offrire loro pascoli salutari e provvedere al loro bene e alla loro salvezza con tutti i mezzi che la ragione suggerisce. […]
Poiché la causa principale dei mali crescenti sta nel fatto che a quegli infelici manca l’assistenza sacerdotale che amministra e accresce la grazia celeste, decidemmo di inviare costì dall’Italia numerosi sacerdoti, i quali possano confortare i loro conterranei con la lingua conosciuta, insegnare la dottrina della fede e i precetti di vita cristiana ignorati o dimenticati, esercitare presso di loro il salutare ministero dei sacramenti, educare i figli a crescere nella religione e in sentimenti di umanità, giovare infine a tutti, di qualunque grado, con la parola e con l’azione, assistere tutti secondo i doveri della missione sacerdotale. E affinché ciò possa compiersi più facilmente, con Nostra lettera sotto l’anello del Pescatore del 15 novembre dello scorso anno istituimmo l’Apostolico Collegio dei Sacerdoti presso la sede vescovile di Piacenza, sotto la direzione del venerabile Fratello Giovanni Battista vescovo di Piacenza, ove possano convenire dall’Italia gli ecclesiastici che animati dall’amore di Cristo, vogliano coltivare quegli studi, esercitare quelle funzioni e quella disciplina per cui possano con ardore e con successo andare in missione nel nome di Cristo, presso i lontani cittadini italiani, e diventare efficaci dispensatori dei misteri divini [4].
Così, il 28 novembre 1887 Giovanni Battista Scalabrini fonda la Congregazione dei missionari di San Carlo (detti anche scalabriniani), destinata specificamente alla pastorale degli immigrati italiani in America. Nel 1888 si assiste all’invio dei primi missionari, armati di un programma religioso, ma anche sociale e di tutela (Rosoli 1982), di cui Scalabrini fissa sinteticamente gli obiettivi nei suoi scritti: «Insegnare a scuola, insieme alle prime nozioni di matematica, la lingua madre e un po’ della storia nazionale, per mantenere vivo nei fratelli lontani l’amor di patria e l’ardente desiderio di rivederla». Un’opera, dunque, che andava oltre la sola assistenza spirituale e che sfociava nell’educazione sociale e politica volta a mantenere vivo nei coloni lo spirito di italianità (Scalabrini 1979, 63 e passim; Azzi 1991). Un’assistenza su Stati Uniti e Brasile che pontefice e curia avevano pensato per i successivi cinque anni, ma che poi sarebbe stata dilatata nel tempo, come mostra la Rerum Novarum (15 maggio 1891) [5]. Il 15 ottobre 1894 il giovane sacerdote Giuseppe Marchetti, dopo aver ascoltato una conferenza di monsignor Giovanni Battista Scalabrini sull’emigrazione italiana in America, si mise a sua disposizione e raggiunse San Paolo, dove nel 1895 fondò l’Orfanotrofio Cristoforo Colombo e dove si fece promotore, insieme ad altri missionari scalabriniani, di una straordinaria opera di assistenza religiosa e sociale degli immigrati italiani dell’interiore dello stato, cioè quella parte dove affluiva la maggior parte dei migranti italiani e dove i problemi pastorali erano più complessi: le oltre 2.000 fazendas in cui le condizioni di lavoro erano durissime.
I giri dei missionari nelle fazendas rappresentavano un momento sociale e religioso di straordinaria importanza, perché permettevano ai lavoratori isolati di venire a contatto con il mondo esterno, di ricevere conforto e soprattutto di poter raccontare i soprusi subiti e chiedere aiuto. Era anche, però, un momento molto difficile per il sacerdote, perché i missionari per visitare le fazendas dovevano ottenere il permesso del proprietario, superare i pregiudizi del clero locale, e poi sopportare viaggi lunghi anche di molti mesi in territori impervi, nel corso dei quali dopo lunghi tratti in treno erano costretti a percorrere molti chilometri a cavallo e a piedi. Tutti questi ostacoli impedirono al messaggio religioso dei missionari di attestarsi in modo significativo in queste zone, anche se il lavoro dei missionari portò alla conversione di circa 150 chiese delle fazendas in vere e proprie parrocchie, spesso dotate di scuola e personale avventizio (Rosoli 1982, 229).
La condizione dei lavoratori delle fazendas è stata, ovviamente, tra le prime questioni su cui si è concentrata l’attenzione dei primi periodici anarchici dell’emigrazione italiana al Brasile. Strumento didattico-propagandistico più importante e diffuso della militanza dell’anarchismo italiano in Brasile (Trento 2011, 53), queste prime ed esili testate svolgevano inoltre la fondamentale funzione di centri di riferimento e coordinamento di vari gruppi sul piano locale (Toledo 2007, 70), così da tenere insieme gli elementi eterogenei «di una coscienza operaia comune» (Foot Hardman 2002, 311). Generalmente redatti dallo stesso sparuto gruppetto di militanti sottraendo allo svago e al riposo il tempo concesso dal lavoro, i periodici dell’emigrazione anarchica erano compilati con linguaggio a effetto, mentre i contenuti, spesso ripetitivi, vertevano, analogamente alla pubblicistica operaia del resto del mondo, sulle condizioni dei lavoratori italiani in Brasile. In questa prima fase di insediamento della grande emigrazione transoceanica essi si concentrarono sulla difesa dei connazionali, in duplice direzione: da una parte attraverso articoli di cronaca e denuncia delle condizioni dei lavoratori impiegati nelle fazendas e negli opifici – per la maggior parte immigrati italiani –, e dall’altra, attraverso il racconto di drammi dell’immigrazione seguiti da reiterati inviti a non emigrare in Brasile (Trento 2003, 90-91). I riferimenti ideali rinviano ai classici della letteratura libertaria (Réclus, Kropotkin, Malatesta, Gori e Rafanelli i nomi più frequenti, ma anche Maupassant, Gorki, Tolstoi e soprattutto Zola), mentre l’obiettivo didattico-propagandistico era spesso veicolato attraverso la pubblicazione di dialoghi immaginari od opuscoli a puntate. Il primo foglio dell’anarchismo italiano in Brasile di cui abbiamo notizia si intitola 1° Maggio (São Paulo 1892), il secondo, uscito forse in seguito a un appello lanciato dai redattori di quest’ultimo ai militanti italiani del Brasile, porta il titolo Gli Schiavi Bianchi (São Paulo 1892-[1893]), ovvero come erano chiamati gli immigrati italiani allora reclutati nelle fazendas per sostituire gli ex-schiavi neri (Biondi 1993-1994, 52). Il «giornaletto di estrema vivacità polemica» (Bettini 1976, 50), «a tinte sociali non ben definite» [6] ma di chiara ispirazione anarchica [7], comincia le sue pubblicazioni con un numero di saggio datato 13 maggio 1892 (De Freitas 1915), anniversario dell’abolizione della schiavitù in Brasile, è diretto da Galileo Botti, redatto da Francesco Nassò, Benedetto Nori e Giuseppe Zottele (de Godoy 2013, 94), e interamente dedicato alle condizioni di lavoro e di vita a cui erano costretti gli italiani impiegati nelle fazendas, tema della lotta e della strategia degli anarchici italiani di San Paolo. Con i suoi articoli di denuncia, inoltre, ha dato inizio alla lunga campagna contro l’immigrazione in Brasile e ha messo in rilievo la necessità di condurre la questione sociale in Brasile a partire dalla considerazione della massa di emigranti che lavorava nelle fazendas (Biondi 1993-1994, 215 e 231). Molti altri periodici avrebbero dato spazio alla tematica, fino a La Battaglia (São Paulo 1904-1912), il periodico più rappresentativo dell’anarchismo di lingua italiana in Brasile, non solo per qualità e diffusione, ma soprattutto per aver dato un nuovo e compiuto orientamento strategico alla militanza, anche mediante una rubrica fissa di denuncia delle condizioni di vita dei lavoratori italiani nelle fazendas. Ma nonostante lo straordinario sforzo costante, la difficoltà di raggiungere con questi strumenti i remoti territori delle grandi aziende agricole brasiliane, dove gli immigrati italiani vivevano in totale isolamento, unita alla piaga dell’analfabetismo, particolarmente grave in queste comunità, vanificarono ogni tentativo di raggiungere i lavoratori e portare loro qualche sostegno.
Le colonie agricole che furono costituite negli stati meridionali del Brasile hanno rappresentato, invece, «un trapianto riuscito di ‘civiltà contadina’» (Rosoli 1982, 232). Nello stato di Santa Catarina e in quello di Rio Grande do Sul le colonie agricole composte da italiani riuscirono a imporsi con un’evidenza tale da rendere possibile veri e propri comprensori agricoli in cui tutto, dall’uomo al paesaggio, rinviava all’“etnicità italiana”, ma anche nel Minas Gerais (Anastásia 1991), dove nel 1899 la colonia Rodrigo Silva, prevalentemente italiana, si era messa in risalto per l’allevamento del baco da seta. Nel Paraná e sparse nello stato di San Paolo, dove se ne contavano almeno 40, le colonie furono fondate per iniziativa governativa e abitate da immigrati di diversa nazionalità, italiani compresi, dal 1888 anche da schiavi. Si tratta di realtà, al pari delle grandi fazendas del caffè, fondamentali per la realizzazione del programma di modernizzazione e civilizzazione cui era sotteso il progetto migratorio realizzato a cavallo tra XIX e XX secolo. Se infatti è vero che questi piccoli produttori agricoli rappresentavano, come i braccianti delle piantagioni di caffè, la nuova leva di cittadini-lavoratori, oltre che una riserva di manodopera per far fronte a eventuali carenze di braccia nelle piantagioni di caffè, essi rappresentano soprattutto il tentativo, attraverso la promozione della policoltura, che peraltro sfruttava terre inviolate o non adatte alla coltivazione del caffè e l’occupazione di aree disabitate, di far fronte alle esigenze di un mercato di consumo di generi alimentari che la monocultura rivolta all’esportazione non riusciva a soddisfare (Borges Pereira 1991, 140-141). Anche in questo caso i lavoratori, arrivati a destinazione dopo viaggi estenuanti, erano lasciati nei lotti selvaggi, forniti di pochi attrezzi e privi di un alloggio e di qualsiasi forma di assistenza sanitaria (come d’altra parte tutta la popolazione agraria brasiliana), e in balia di forti una diffusa corruzione (da Paz Lopes 1991, 129-130). In queste colonie gli emigranti italiani hanno trasferito il proprio bagaglio di conoscenze e abilità tecnico-professionali, che avrebbero costituito l’ossatura essenziale del futuro sviluppo di quei territori, fondato sull’equilibrio tra la volontà di mantenere l’originalità culturale del paese di provenienza e la necessità di adattarsi alle condizioni economiche e sociali dell’ambiente di arrivo. Nello stesso “confine” tra il prima e il dopo si colloca anche la vita religiosa nel suo senso complessivo, ovvero come concezione di vita e di valori. Basti pensare all’importanza e alle modalità con cui si costituivano e identificavano i primi centri di insediamento. Questi momenti coinvolgevano tutta la comunità immigrata, che tra le prime attività doveva riunirsi e decidere i nomi da assegnare ai villaggi, nome che erano sempre scelti, non di rado dopo duri scontri, tra quelli che ricordavano città e paesi italiani, spessissimo i luoghi di origine. Un altro momento molto sentito era la decisione del sito in cui installare la chiesa o la cappella che, essendo centri di aggregazione della vita civile oltre che religiosa, diventavano luoghi di fondamentale importanza: non è un caso che ciascun piccolo insediamento volesse averne una propria.
In questi contesti il contributo dato alla chiesa brasiliana da quella italiana è risultato molto positivo, a giudicare dalla produttività della chiesa locale (come dimostra la considerevole espansione di vocazioni e opere religiose negli insediamenti di immigrati europei), il grande attaccamento alla chiesa da parte dei fedeli e lo sviluppo di congregazioni maschili e femminili, tanto che nei primi vent’anni del Novecento la maggior parte degli allievi dei seminari di Porto Alegre era di origine tedesca o italiana. Un successo tale che Rosoli, nei suoi studi, lo considera dimostrazione del sorpasso della chiesa “etnica” degli immigrati europei, dotata di irruente vitalità, sulla chiesa luso-brasileira (Rosoli 1982, 232).
L’azione della propaganda degli anarchici italiani nelle colonie agricole, invece, agisce in due fasi diverse e cronologicamente successive. Una prima fase, che accompagna la costituzione delle colonie e non registra interazioni significative con l’esterno, e dunque nemmeno con il clero italiano o locale, vede la partecipazione del movimento – a questa fase di occupazione agricola delle terre – attraverso la costituzione della colonia comunista-anarchica chiamata “Cecilia”. Nata sulle macerie della colonia “Cittadella” di Stagno Lombardo (Betri 1971), la colonia “Cecilia” è stata un esperimento comunitario socialista ideato dall’internazionalista pisano Giovanni Rossi nel contesto delle colonie collettiviste diffuse al tempo in America del Nord, attivo nello stato del Paraná dal 1890 al 1894 con l’obiettivo dichiarato di studiare a livello sperimentale e in modo rigorosamente scientifico “le attitudini umane” in relazione alle leggi e ai regolamenti, senza capi e senza proprietà individuale ma lavorando spontaneamente in comune [8]. Profondamente autoreferenziale, l’esperimento “Cecilia” si sarebbe esaurito nel giro di pochi anni, ripiegandosi sulle proprie debolezze ma anche sui propri principi: l’instabilità dovuta al continuo ricambio della popolazione, i frequenti furti, l’“egoismo domestico” – come Rossi chiama «le facoltà antisociali sviluppatesi necessariamente nella vita borghese» e la mentalità conservatrice delle donne (Rossi 1993, 33-41) –, e soprattutto il richiamo della città (Bignami 2017a). Una seconda fase, invece, si colloca nel periodo successivo all’insediamento, ed entra nel vivo dello sviluppo delle colonie che, trasformandosi in piccole città, necessitano di braccia per lo sviluppo di settori quali l’edilizia e le ferrovie: saranno proprio questi settori che costituiranno il lievito per l’agitazione e la diffusione di nozioni quali “movimento operaio” e “azione operaia”, ed è così che si costituiranno negli stati meridionali del Brasile le società di mutuo soccorso e successivamente le prime leghe operaie (Haupt 1978, 66-67). È ancora presto per entrare in diretto conflitto con il clero italiano, conflitto che si realizza di lì a breve in seguito all’ontologica impossibilità di convivenza tra socialismo anarchico e ideale cattolico in una delle prime grandi città del Brasile: San Paolo.
L’assistenza spirituale e politica nella città di Saõ Paulo
Nel 1909 il professor Ernesto Schiaparelli fonda l’Italica Gens, Federazione per l’assistenza degli Emigrati oltre Oceano e nel Levante promossa dall’Associazione nazionale per il soccorso dei missionari cattolici italiani (Anmi), con il compito di chiamare a raccolta ordini, congregazioni religiose e associazioni laiche (gesuiti, francescani, cappuccini, salesiani e scalabriniani in primis) che si interessano agli emigrati italiani in America, e così organizzare al meglio il loro lavoro (Rosoli 1990, 87-100) nel segno della “difesa dell’italianità”. Dal 1910 al 1916 esce una rivista omonima, dedicata alla emigrazione degli italiani e preoccupata di rilevare il grado di italianità mantenuto dagli immigrati in Brasile. Tra i molti temi trattati si segnalano la tutela dei lavoratori italiani, in particolare nelle fazendas di cui i redattori condannavano il sistema di lavoro schiavistico e le condizioni igienico-sanitarie insufficienti, e l’elogio dei coloni italiani, che avevano reso fertili e produttivi territori isolati e impervi, ma non mancano resoconti di associazioni, istituzioni culturali e feste di stampo ecclesiastico. Problematiche che vanno esaurendosi in favore dell’interesse preminente verso il tema della scuola e dell’educazione all’italianità, a cui sono dedicati numerosi articoli (Rosoli 1982, 239-240).
A partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, «grandi squadre di disertori delle fazendas» [9] in fuga dalla grave crisi della caffeicoltura, insieme a nuovi lavoratori in continuo arrivo dall’Europa, ma anche lavoratori nazionali delle classi medie ed ex schiavi (Morse 1970; de Souza Martins 2004) si riversarono nelle grandi città che andavano costituendosi in territorio brasiliano, attratti dalla rapida espansione del terziario e del settore industriale. Un esodo rurale che si sarebbe attenuato solo intorno al 1910 e che portò la città di San Paolo, tra 1890 e 1900, a quadruplicare la sua popolazione – che passò da 64.934 a 239.820 abitanti (de Godoy 2013, 72-73) – e che influì decisamente nella composizione della popolazione urbana della città stessa, costituita per il 22% di stranieri. Una massa compatta che andò a nutrire l’espansione industriale e urbana della città. Tra il 1890 e il 1908 (Morse 1970, 235 ss.) nella città di San Paolo si assiste infatti alla nascita di unità produttive industriali di notevoli dimensioni che, concentrate nei settori del tessile, del ferroviario e dell’alimentare, furono rese più dinamiche dall’immissione del capitale e della manodopera proveniente dall’economia agraria cafeeira costituita per l’83% di lavoratori di origine straniera (Hall 2004; de Godoy 2013, 73), e dall’espansione del settore finanziario nella città (de Godoy 2013, 74 e Morse 1970, 235). Nel 1907 il 63% del totale degli operai dello stato di San Paolo erano concentrati nella sua capitale (de Godoy 2013, 75). Dopo il collasso finanziario del 1897-1901, il sistema economico-industriale si riprese attraverso un’opera di intensificazione della diversificazione dei rami di attività presenti negli impianti industriali della città: metallurgia, meccanica, arti grafiche, materiali di costruzione e legno, mobilifici furono i settori che più si dinamizzarono. Il ritmo accelerato della crescita, tuttavia, non riuscì ad assorbire la popolazione che era affluita nella città e così a San Paolo convissero due settori economici, uno formale e l’altro informale, per cui la maggior parte della popolazione sopravviveva grazie a piccole attività. A fianco dei grandi stabilimenti, infatti, si moltiplicarono diverse officine di medie e piccole dimensioni, responsabili dell’impiego della maggior parte della manodopera industriale, ma era soprattutto nel campo della sottoccupazione e delle attività marginali che si esercitava il monopolio degli italiani. Così, accanto a meccanici di automobili e macchine agricole, bottegai di piccoli empori, barbieri, calzolai, sarti, cocchieri, facchini, sterratori, muratori, scalpellini, marmisti, falegnami, fabbri, candelai, renaioli e addetti alla nettezza urbana della città, erano italiani anche lustrascarpe, acquaioli, pescivendoli, caldarrostai e “strilloni” [10]. Pochi, invece, erano gli italiani che riuscirono a trovare le condizioni per affermarsi come nouveau riches dell’imprenditoria paulista e nelle professioni liberali e del mondo della finanza. Analogamente, anche l’espansione del ramo immobiliare e della costruzione civile e, quindi, dei settori commerciali e finanziari mutarono repentinamente. I capomastri italiani costruirono gli edifici pubblici e residenziali di San Paolo per accogliere i nuovi industriali e fazendeiros che allora si trasferivano in città, ma soprattutto costruirono le loro stesse case, nei bairros popolari, spesso nella caratteristica forma di corticos (Bonduki 1998), insalubri e decisamente insufficienti a coprire il deficit degli alloggi, gestito dalla speculazione immobiliare che agitò la città in questo periodo, e che insieme ai problemi di risanamento e organizzazione del sistema dei trasporti, mostra l’incapacità del governo municipale di far fronte ai problemi di una città in rapida crescita (de Godoy 2013, 74). All’effervescenza economica corrispose anche un nuovo processo di strutturazione sociopolitica. La città di San Paolo stava diventando industriale e capitalista, ma stava al contempo compiendo una metamorfosi in fatto di potere sociopolitico. La concentrazione e la convergenza tra potere politico e potere economico si manifestava in differenti campi sociali; in modo evidentissimo nella divisione dello spazio urbano e nell’assenza di una legislazione specifica sulla manodopera. La nuova gerarchia sociale fu costruita anche sulla base delle caratteristiche etniche distintive delle classi medie e dominanti rispetto alle classi popolari. La città, come abbiamo visto, brulicava di una grande massa di braccianti italiani trasformati, attraverso il processo migratorio, in lavoratori, sottooccupati e disoccupati urbani, che si mescolava – nel nuovo agglomerato urbano – ai lavoratori brasiliani autoctoni, molti dei quali schiavi liberati; insieme andarono a formare la nuova classe operaia, protagonista dello scatto di crescita industriale in corso nel paese. Data la composizione demografica delle classi popolari, il disprezzo per i lavoratori manuali – tipico di una società recentemente uscita dalla schiavitù – si associò a una crescente e reiterata produzione di un’immagine negativa nei confronti dello straniero, principalmente dell’italiano (Morse 1970; de Souza Martins 2004). Per queste ragioni, il contingente della popolazione appartenente alla classe popolare, nella configurazione sociale nascente, fu oggetto di integrazione non politica, culturale o sociale, bensì come forza produttiva. Fu un contingente poco soggetto agli stimoli politici, che si costituì ai margini del sistema (de Godoy 2013, 75-78).
In questo stato di abbandono e smarrimento, gli emigrati risposero all’umano bisogno di sicurezza rafforzando, nel paese di arrivo, da una parte il conservatorismo ideologico, dall’altra i legami socioculturali tra familiari o compaesani. Una possibile estensione di questa elaborazione della propria identità collettiva si realizzò attraverso la costruzione di legami extrafamiliari, principalmente per mezzo di sistemi come i movimenti operai nazionali, il mutualismo tra individui nati nello stesso luogo ma in particolare la chiesa, con «la sua storia di organizzazione internazionale» e l’«internazionalismo operaio», ovvero l’associazionismo e l’attivismo di classe in chiave transnazionale (Gabaccia 2000, 89, 105-107; Franzina 2008, 27). Mondi – come mette bene in luce Canales Urriola nella sua tesi – tra loro in netta contrapposizione fino a essere talvolta escludenti, ma che concorrevano di pari passo a guadagnare il supporto e l’adesione dei migranti (Canales Urriola 2015-2016, 37-38).
Nello stato di San Paolo, in particolare, questo esercito di sfruttati divenne il centro dell’interesse della lotta operaia combattuta dal movimento anarchico paulista, composto allora per la maggior parte di immigrati italiani, spagnoli e portoghesi con l’obiettivo di costruire una coscienza sociale del sottoproletariato attraverso l’educazione politica e il coordinamento di gruppi e azioni, oltre alla minuziosa organizzazione della vita sociale (Bignami 2017a, 219-229). Un piano che, diretto specificamente da leader italiani, era pensato in netta e aperta opposizione nei confronti del clero italiano, sia perché condotto da un movimento (quello anarchico) ontologicamente anticlericale, ma che comunque della battaglia anticlericale ha sempre fatto uno dei baluardi fondamentali della propria ideologia, sia e soprattutto perché nello stato di San Paolo, tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento, il clero contendeva agli anarchici l’influenza sui compatrioti; questo è il motivo della tensione che si venne a creare tra anarchici e scalabriniani. Tensione che fu particolarmente accentuata nelle zone a grande concentrazione operaia come Santo André, Saõ Bernardo do Campo e Saõ Caetano, dove gli scalabriniani erano molto attivi, al punto da essere percepiti dagli anarchici come effettivo ostacolo al reclutamento degli operai tra le fila della lotta sociale. Come testimonia una lettera del missionario scalabriniano padre Faustino Consoni datata 17 ottobre 1907: «Non creda V. Rev.mo che la tempesta mossa dai partiti e dai socialisti in Italia non abbia avuto ripercussioni fin qui, al contrario; e perciò è necessario stare molto attenti a quel che si fa» [11]. Le ostilità, che nel corso degli anni erano rimaste sommerse, esplosero definitivamente con quello che è passato alla storia come il “Caso Idalina”, ovvero il culmine della campagna anticlericale del movimento operaio paulista.
Il “Caso Idalina” e la fine delle contese
Gli eventi risalgono all’ottobre del 1905, quando l’industriale Domenico Stamato affida i due orfani di cui era tutore, Socrate di otto anni e Idalina di sei anni, all’orfanotrofio Cristoforo Colombo, e così il primo viene accolto nell’Istituto maschile di Ipiranga e la seconda in quello femminile di Vila Prudente. Nel 1907 si presentò presso la struttura una giovane donna che, dichiarando di essere la madre di Idalina, riuscì a farsi consegnare la bambina da padre Capelli, sostituto rettore dell’orfanotrofio in assenza temporanea di padre Consoni, e a portarla via con sé. Stamato seppe e denunciò alla polizia il fatto solo all’inizio del 1908, quando si recò all’orfanotrofio per far visita a Socrate e Idalina senza trovarvi quest’ultima. Iniziarono così le ricerche della piccola.
Il 20 giugno del 1909 esce un articolo sulla stampa anarchica, intitolato Dov’è la Idalina? [12], con il quale gli anarchici di San Paolo, non convinti delle spiegazioni date dall’istituto e dalla piega che stavano prendendo le ricerche, danno notizia del caso all’opinione pubblica e aprono la strada al maggior scandalo religioso della Prima Repubblica. Il 4 luglio 1909 esce sullo stesso periodico un altro articolo [13] in cui i redattori ricostruiscono gli avvenimenti nei dettagli, insinuando che nella vicenda vi fosse «qualcosa d’inconcepibile, d’infernale, probabilmente un delitto che si cercava nascondere con la simulazione di una specie di ratto inverosimile e assurdo» [14]: da allora è un continuo susseguirsi di aggiornamenti sul caso, con i quali, come descrive bene Romani, Ristori (redattore de “La Battaglia”) cerca di «catalizzare la tensione sociale esistente e, attraverso essa, demistificare le istituzioni religiose e il potere da esse esercitato sull’ingenua e passiva popolazione» (Romani 2015, 185). Non solo: dopo aver chiesto aiuto ai compagni [15], gli anarchici decidono di dare inizio loro stessi a un’indagine, che fece arrivare alla redazione de “La Battaglia” decine di lettere di ex ospiti dell’orfanotrofio che denunciavano di aver subito violenze sessuali da parte dei sacerdoti, intervallata da articoli che cercavano di screditare il clero locale e disincantare la popolazione [16]. L’interesse fu tale che si organizzò addirittura un dibattito pubblico tra anarchici e religiosi, che si tenne il 6 febbraio 1910 e vide confrontarsi Oreste Ristori e padre Ravaioli, e nel corso del quale il primo avrebbe dovuto mostrare le responsabilità del dogmatismo clericale (e del capitalismo nel suo complesso) nel mancato avanzamento del progresso dei popoli e il secondo difendere la posizione della chiesa, che tentò «facendo appello alla fede in Cristo e alla salvezza eterna» [17]. È questo il culmine della più grande campagna anticlericale che si sia mai vista a San Paolo. Nell’ottobre del 1910 Ristori interrogò America Ferraresi, ospite anch’essa dell’orfanotrofio, la quale dichiarò di aver ricevuto una confidenza dalla monaca della struttura: «ella sapeva essere stata [Idalina] stuprata da padre Stefani e uccisa da padre Faustino [Consoni], avendo tentato la bambina di fuggire» [18]. Sulla base di tutte queste testimonianze Ristori ricostruì sul suo periodico, in modo del tutto parziale, il caso dal suo punto di vista [19].
Nel febbraio del 1911 si tenne una grande manifestazione, organizzata da diversi gruppi di liberi pensatori di San Paolo: insieme a Oreste Ristori, Benjamin Mota, Passos Cunha, Ramon Dias. Dopo il tentativo da parte dei direttori dell’orfanotrofio – rapidamente smascherati da La Battaglia – di mettere tutto a tacere affermando che Idalina era stata trovata, la situazione si fece inevitabilmente più complessa. Ne approfittarono prontamente Ristori e Edgard Leuenroth (redattore del giornale anticlericale A Lanterna) che, alla guida della campagna, convocarono un meeting al quale parteciparono gruppi socialisti, repubblicani, libertari, logge massoniche e leghe di resistenza e invocarono la partecipazione di tutta la popolazione richiamata al compito di «esigere l’immediata chiusura di quell’antro di deboscia e delitti che è l’Orfanato Cristóvão Colombo e l’adeguata punizione dei colpevoli» [20]. La manifestazione si tenne il 12 marzo 1911 e si concluse con il la dispersione dei manifestanti da parte dell’esercito, alcuni feriti e un centinaio fermati. Tutta la stampa borghese, a eccezione de O Commercio de São Paulo, sostenne la chiesa e la polizia, mentre l’iper-conservatore O Estado de S. Paulo affermava che tutto questo fosse una montatura degli anarchici per guadagnarsi il favore della popolazione contro la chiesa e le istituzioni, tanto più allora che con l’istituzione delle “Scuole Moderne” – definite dai preti “una moda” – stavano entrando in diretta competizione con il monopolio del clero sull’educazione [21].
Durante la manifestazione del 12 marzo furono arrestati «José Romero e Edgard Leuenroth […], Alessandro Cerchiai e Oreste Ristori, […] e il dr. Passos Cunha, contro i quali si congegnò un’infame indagine, incolpandoli della morte di un soldato e delle ferite di una recluta straordinaria, avvenute dopo il loro arresto» [22]; fu un’operazione condotta dalla Secretaria da Segurança pública per impedire che la protesta contro l’orfanotrofio potesse trasformarsi in un’agitazione politica più complessa, e che si risolse con l’assoluzione di tutti [23] (Romani 2015, 186-198).
La campagna, e gli eventi che seguirono, fiaccarono il movimento operaio causando, tra le altre cose, il ritiro di Oreste Ristori dal «campo di lotta» [24] e l’allontanamento del direttore dell’Orfanotrofio Cristoforo Colombo, ormai considerato responsabile della sparizione della minore, che fu trasferito a Ribeirão Preto. Padre Consoni avrebbe fatto ritorno a San Paolo solo nel 1919, quando il caso fu ufficialmente considerato chiuso (Lopreato 1997, 217), e proprio quando il successore di Ristori alla direzione de La Battaglia, Luigi Damiani, sarebbe stato espulso dal Brasile [25], episodio che chiude simbolicamente l’esperienza della colonia degli immigrati anarchici in Brasile, e quindi anche dei suoi rapporti con il clero italiano.
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Note
1. Al proposito si rinvia al rapporto alla Segreteria di Stato in Archivio Segreto Vaticano, Segr. Stato, Spogli dei Cardinali e degli Officiali di Curia, Bedini, busta 3, fasc. E. Si veda inoltre Sanfilippo 1992.
2. Istituita da papa Gregorio XV con la bolla Inscrutabili Divinae (22 giugno 1622) la Congregatio de Propaganda Fide, poi Congregatio pro gentium evangelizatione è il dicastero che ha competenza per l’attività missionaria, dunque dirige e coordina l’opera di evangelizzazione dei popoli.
3. Litterae Sanctissimi D. N. Leonis XIII Ad Episcopum Placentinum De Instituto Sacrorum Virorum, Qui in Americam Proficiscentes,
Opem S. Ministerii Ferant Italis Illuc Rerum Necessitate Compulsis, ASS, vol. XX (1887), p. 305 (https://w2.vatican.va/content/leo-xiii/la/letters/documents/hf_l-xiii_let_18871125_libenter-agnovimus.html).
4. Quam Aerumnosa. Lettera enciclica di Sua Santità Leone PP. XIII. Dato a Roma, presso San Pietro, il 10 dicembre 1888, nell’anno undecimo del Nostro Pontificato (http://www.vatican.va/content/leo-xiii/it/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_10121888_quam-aerumnosa.html).
5. Rerum Novarum Lettera Enciclica di S.S. Leone XIII. Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato (http://www.vatican.va/content/leo-xiii/it/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum.html). Si veda inoltre Sanfilippo 2007, 345; Francesconi 1985; APF (Archivio di Propaganda Fide), Congressi, Collegi Vari, vol. 43, fasc. 5.
6. IISH (International Institute of Social History) fondo Ugo Fedeli n. 1064 Martino Stanga, Il movimento sociale al Brasile. Rassegna cronologica.
7. Stanga, Martino. 1913. “Il movimento sociale al Brasile. Rassegna cronologica.” La Propaganda Libertaria, 31 agosto; Nori, Benedetto. 1892. “Per il nostro diritto.” Gli Schiavi Bianchi, 27 novembre. Si vedano inoltre Felici 1994, 370 e Feierabend Baêta Leal 2006, 176.
8. Rossi, Giovanni “Cardias”. 1884. “Vantaggi e possibilità di una colonia socialista.” La Favilla, 25 dicembre (Mantova). Inoltre, Betri 1971, 7.
9. La Battaglia, 1906. “Lavoratori, non venite al Brasile!.” La Battaglia, [1] marzo.
10. Trento 1984, 192-197; Trento 2016; Governo do Estado de São Paulo – Memorial do Imigrante/Museu da Imigração 2006, 24; Durham 1966; Carelli 1985; Toledo 2004, 11.
11. Archivio Generale della Congregazione Scalabriniana, Roma, già in Azzi 1991, 215.
12. “Dov’è la Idalina?,” La Battaglia, 20 giugno 1909.
13. “Le infami prodezze dei preti.” La Battaglia, 4 luglio 1909.
14. Ibidem.
15. La Battaglia, 20 agosto 1909.
16. “Le maialate dei sacerdoti”, La Battaglia, 26 dicembre 1909.
17. “Le lotte civili.” La Battaglia, 15 febbraio 1910. Si veda anche Io. 1909. “Ieri e oggi.” La Battaglia 241, 19 dicembre.
18. “Gli orrori dell’orfanotrofio Cristoforo Colombo.” La Battaglia, 30 ottobre 1910.
19. “Il mistero della Idalina svelato.” La Battaglia, 21 ottobre 1910.
20. La Battaglia, 12 marzo 1911.
21. La Battaglia, 14 marzo 1911.
22. “Ecos do processo da polícia.” A Lanterna, 21 settembre 1912.
23. Ibidem.
24. La Battaglia, 31 dicembre 1911.
25. Ballerini, Emma. 1919. “Em defesa do companheiro Gigi Damiani.” A Plebe, 30 ottobre e ACS (Archivio Centrale dello Stato), CPC (Casellario Politico Centrale) 1601 fasc. 1 Damiani Luigi detto Gigi, Appunto del Ministero dell’Interno per il fascicolo di Damiani Luigi 34007-2, 12 dicembre 1924.