Premessa
Per studiare i rapporti tra le culture politiche del fascismo e del cattolicesimo, il tema del corporativismo offre un buon angolo prospettico, dal quale è possibile osservare sia l’articolazione delle posizioni ideologiche, sia le interazioni sul piano politico, istituzionale, organizzativo. Anche se, nei due decenni tra le guerre mondiali, sotto la duplice spinta dell’anticomunismo e dell’antiliberalismo, il baricentro del cattolicesimo politico si spostò a destra (Conway 1997), la dialettica con il fascismo fu notoriamente complessa, segnata da molteplici tornanti storici (uno su tutti: la firma dei Patti lateranensi nel 1929) e animata da diversi protagonisti (i leader politici e i pontefici, ma anche le composite gerarchie e le varie componenti ideologiche interne). Essa si dispiegò inoltre su una duplice scala: quella nazionale, relativa cioè alle vicende di un paese, l’Italia, che rappresentava il luogo di origine e il centro istituzionale sia della chiesa cattolica, sia del movimento fascista, e quella europea, o addirittura globale, determinata dalla dimensione transnazionale di entrambe le forze. Anche per questo motivo, la questione del corporativismo appare particolarmente funzionale alla riflessione sui nessi tra le due culture politiche, poiché non si esaurì nel progetto dello stato fascista ma assunse una valenza epocale, attraversando frontiere nazionali e ideologiche, e intrecciandosi al più ampio dibattito sul rinnovamento dei sistemi istituzionali per risolvere il problema della regolamentazione dei rapporti tra i gruppi di interessi socioeconomici [1].
Nelle seguenti pagine verrà quindi posto al centro dell’attenzione il ruolo giocato dal corporativismo nella continua evoluzione delle relazioni tra cattolicesimo e fascismo, tratteggiando un percorso scandito da quattro variazioni, da quattro differenti reazioni dialettiche che si sovrapposero nel corso degli anni tra le due guerre mondiali: 1) l’iniziale convergenza sulla dottrina corporativa come punto d’incontro fra tradizione cattolica e movimento fascista; 2) le prese di distanza da parte di certi ambienti dell’area cattolica rispetto all’ordine corporativo implementato nell’Italia fascista; 3) il riallineamento del pensiero politico cattolico sulla questione dello stato; 4) i processi di ibridazione tra progetti cattolici e modello fascista che connotarono i laboratori corporativi di vari paesi europei.
Convergenze
Le radici del corporativismo cattolico come progetto ideologico di riorganizzazione dei rapporti sociali e del sistema istituzionale vanno rintracciate nel pensiero contro-rivoluzionario del XIX secolo. Come ha sottolineato Emilio Gentile, «fra le Chiese cristiane europee, solo la chiesa cattolica aveva elaborato, fin dalla Rivoluzione francese e durante l’Ottocento, una sistematica e coerente visione religiosa della modernità come civiltà anticristiana», cercando di contrastare in particolare il processo di secolarizzazione dello stato moderno e il primato di quest’ultimo sulla società (Gentile 2010, 16). In certi ambienti dell’universo cattolico, soprattutto in Austria, Germania e Francia, si era andata elaborando non solo una lettura fortemente critica dell’ordine liberale sgorgato dalla Rivoluzione, ma anche una dottrina politica alternativa, dichiaratamente corporativa. Le teorie dei francesi Frédéric Le Play, René de La Tour du Pin, Albert de Mun, del tedesco Wilhelm Emmanuel von Ketteler, dell’austriaco Karl Freiherr von Vogelsang, o dell’italiano Giuseppe Toniolo, erano accomunate dalla preoccupazione per l’instabilità sociale provocata, da un lato, dal processo di industrializzazione, e dall’altro dalla soppressione postrivoluzionaria delle gilde medievali. Contrapposto all’immagine di un’età liberale connotata essenzialmente dalla disgregazione individualistica della società, il passato prerivoluzionario era rimpianto come un’idilliaca età dell’oro, durante la quale il vecchio sistema corporativo garantiva il funzionamento dell’organizzazione produttiva, il rispetto delle gerarchie, una forma di protezionismo comunitario, ovvero l’ordine e l’armonia sociale. L’appello cattolico per la ricostruzione di una società organica prevedeva perciò la restaurazione di corpi professionali giuridicamente riconosciuti, come cardine di una struttura socioeconomica in cui gli interessi collettivi prevalessero sugli interessi del singolo, e in cui l’antagonismo tra capitale e lavoro fosse ricomposto in modo non conflittuale, secondo lo spirito della solidarietà cristiana [2]. Poiché questo sistema corporativo doveva essere costruito dal basso, tramite l’autonoma collaborazione tra tutte le componenti sociali di ogni categoria produttiva, e non invece dall’alto, per imposizione autoritaria dello stato, in seguito la letteratura giuridica e politologica lo avrebbe definito come «corporativismo societario» o «corporativismo di associazione» [3].
In realtà, in tutte le versioni della teoria corporativa cattolica rimaneva un’incognita di fondo. Anche nelle formulazioni più sistematiche e influenti, come quelle di La Tour du Pin raccolte in Vers un ordre social chrétien. Jalons de route 1882-1907, al proposito di riconciliare gli interessi dei gruppi sociali non faceva seguito una chiara esposizione delle soluzioni organizzative: in che modo, attraverso quali strutture, era possibile realizzare pratiche aconflittuali di mediazione tra lavoratori e datori di lavoro? Come istituire organi di rappresentanza e conciliazione delle rispettive istanze? In breve, come doveva funzionare una corporazione nella società moderna? Questo era il problema fondamentale che il corporativismo cattolico di origine ottocentesca faticava a risolvere. Il rimpianto modello delle gilde medievali, infatti, non forniva più un’opzione praticabile, poiché si basava su una divisione del lavoro in categorie artigianali che non trovava riscontro in società a capitalismo più avanzato, con segmenti del proletariato e del ceto imprenditoriale che si stavano organizzando in autonome associazioni di rappresentanza degli interessi (Pollard 2017, 43-44). Neppure la Rerum Novarum di Leone XIII, ovvero l’enciclica del 1891 che a lungo venne considerata come il principale testo di riferimento del pensiero sociale cattolico, andava oltre una generica dichiarazione d’intenti sulla necessità di temperare la lotta di classe regolando i rapporti tra capitale e lavoro.
Piuttosto, questa e altre encicliche di Leone XIII diedero un’ulteriore spinta alla costituzione di varie organizzazioni cattoliche nel campo socioeconomico: dalle società di mutuo soccorso alle cooperative, dalle leghe ai sindacati. Nel complesso, tali organizzazioni cercavano di applicare i principi del cristianesimo sociale all’azione di difesa dei lavoratori, scontrandosi a volte con le stesse gerarchie ecclesiastiche. Al fine di fronteggiare l’emergere dei conflitti sociali e di contrastare la penetrazione del movimento socialista tra le masse, il sindacalismo “bianco” si ispirava a criteri solidaristici, di collaborazione tra le classi, sebbene spesso le sue organizzazioni, strutturate sulla divisione tra categorie professionali, fossero composte in realtà dal solo proletariato. Anche per questo motivo, non tutti i sindacalisti cattolici credevano nell’effettiva possibilità di ripristinare un tessuto corporativo nella moderna società industriale. In ogni caso, l’orizzonte ideale rimaneva un mondo del lavoro depurato dalla conflittualità, per esempio tramite l’introduzione di procedure di arbitrato e conciliazione tra le parti, inseguendo il mito di una “terza via” tra liberalismo e socialismo (Pasture 1999, 17-24) [4].
Dopo una parziale “eclissi” nei primi due decenni del Novecento (Misner 1991, 207), la tradizione corporativa cattolica conobbe una fase di rilancio al termine della Prima guerra mondiale, quando alcuni partiti politici di stampo confessionale, che dalla fine del XIX secolo si erano diffusi sul continente europeo, introdussero nei propri programmi espliciti riferimenti alla dottrina.
Il caso più significativo fu quello austriaco. In seguito alla dissoluzione dell’Impero asburgico, nel periodo di costruzione del nuovo assetto statale emerse la figura del prelato Ignaz Seipel, leader del Christlichsoziale Partei (Partito cristiano-sociale), che si fece portavoce di un’idea di democrazia corporativa nell’Assemblea costituente [5]. Seipel sosteneva che uno stato di matrice liberale sarebbe degenerato in un insieme atomistico di individui, mossi esclusivamente da egoismi personali o di classe, mentre vi erano «molti problemi di politica generale» che andavano affrontati «in un foro diverso da quello politico»; ovvero da una camera corporativa, composta dai delegati dei diversi corpi professionali ed espressione diretta degli interessi economici [6]. Le proposte del Partito cristiano-sociale non trovarono spazio nella costituzione austriaca del 1920, frutto sì di un compromesso fra tutte le forze politiche, ma raggiunto sotto l’egemonia socialdemocratica. Né trovarono attuazione durante gli anni di cancellierato di Seipel, che di fatto governò per buona parte degli anni Venti, esercitando il potere per due mandati (dal 1922 al 1924, poi dal 1926 al 1929), grazie anche all’alleanza con le milizie paramilitari della Heimwehr. Tuttavia, la sua critica alla democrazia parlamentare e all’assetto costituzionale della repubblica austriaca attraversò l’intero decennio, contribuendo a destabilizzare il sistema politico e fornendo un retaggio ideologico alla riforma corporativa del decennio successivo [7].
Nella stessa Austria degli anni Venti, la tradizione corporativa cattolica trovò anche nuovi interpreti nel mondo accademico: in particolare il sociologo e filosofo Othmar Spann, che divenne un teorico di riferimento anche all’estero, soprattutto negli ambienti del “conservatorismo rivoluzionario” tedesco (Breuer 1995, IX-XI, 78-80). Spann concepiva la società secondo una metafora organicistica, ossia come un corpo i cui arti erano costituiti da corporazioni chiamate ad agire in modo armonico. Nella sua opera di maggior rilievo, Der wahre Staat, pubblicata nel 1921 e più volte aggiornata in una serie di successive edizioni, egli prendeva di mira la versione individualistica della democrazia, fondata sull’arbitrio dei compromessi parlamentari, per proporre poi un modello statuale alternativo, in cui la Volkssouveränität (“sovranità del popolo”) avrebbe lasciato spazio alla Sachssouveränität (“sovranità oggettiva”, nel senso di autentica, razionale, funzionale) [8]. Il “vero stato” sarebbe sorto da una riorganizzazione corporativa (ständisch), di stampo cattolico, che avrebbe assorbito il controllo dell’economia capitalistica attraverso una struttura gerarchica ma decentralizzata. Pur salvaguardando l’esistenza della proprietà privata, il sistema prevedeva l’introduzione di forme di proprietà sia pubblica, sia di stampo feudale (Lehen): in quest’ultimo caso, gli individui avrebbero potuto beneficiare dell’uso dei mezzi di produzione messi a disposizione dalla propria corporazione, a patto di restituire alla comunità servizi utili [9]. Le teorie di Spann rimanevano tuttavia sul piano della riflessione puramente speculativa, fornendo un’impalcatura filosofica – fra l’altro piuttosto arcana e contorta – al discorso corporativo, ma senza alcun nesso effettivo con la realtà politica.
Pur conservando valori e obiettivi delineati nella letteratura ottocentesca, il pensiero politico cattolico doveva confrontarsi invece con il rapido mutamento delle condizioni storiche imposto dalla guerra, tra il progredire della società di massa, l’esplosione della conflittualità sociale, la sfida portata dalla rivoluzione bolscevica, il dilagare della sfiducia nella democrazia liberale. La Grande guerra aveva provocato inoltre «la fusione del cristianesimo con il nazionalismo, come mai nel passato era accaduto in Europa» (Gentile 2010, 45). In questo scenario, oltre al Partito cristiano-sociale austriaco alle prese con la costruzione ex novo di uno stato nazionale, diverse forze d’ispirazione cattolica aggiornarono la tradizione corporativa cercando di proporre progetti di riforma più definiti.
In Svizzera, per esempio, si mossero in questa direzione sia la confederazione sindacale Christlichsozialer Arbeiterbund (Federazione cristiano-sociale dei lavoratori), sia il Schweizerische Konservative Volkspartei (Partito popolare conservatore svizzero), che nel corso degli anni Venti si dotarono di programmi socioeconomici di matrice corporativa (Rölli-Alkemper 2004, 59-60). In Belgio, una parte essenziale del programma cristiano-democratico dell’Union catholique (erede del vecchio Parti catholique) riguardava la collaborazione tra capitale e lavoro, da realizzarsi attraverso una forma di corporativismo che non minacciava le fondamenta della democrazia liberale, poiché si concentrava sul riconoscimento giuridico di comitati misti con funzioni di concertazione in campo sociale ed economico (Gerard 2004, 84). Nei Paesi Bassi, tra il 1919 e il 1921 vennero istituiti sessantaquattro consigli industriali paritari, all’interno dei quali lavoratori e imprenditori cattolici sperimentarono forme di collaborazione di classe, almeno finché le reciproche istanze non si radicalizzarono sotto la pressione dell’instabilità economica (Luykx 1996, 234). In Portogallo – dove nell’ultimo anno di guerra aveva avuto luogo un primo, effimero esperimento di riforma corporativa del parlamento, durante la breve dittatura di Sidónio Pais [10] – il Centro católico português guidato da un giovane docente di scienze economiche dell’Università di Coimbra, António de Oliveira Salazar, metteva insieme vecchie e nuove suggestioni, che andavano dai testi classici di Le Play, de Mun, La Tour du Pin, Toniolo e Leone XIII, a influenze più recenti come quelle dell’Integralismo lusitano e dell’Action française (Serapiglia 2011, 67-79). In Francia, proprio il movimento di Charles Maurras conobbe nel primo dopoguerra un rinnovamento generazionale del gruppo dirigente, che da un lato allontanò ulteriormente l’Action française dalle gerarchie ecclesiastiche (fino al noto episodio della scomunica papale ricevuta nel dicembre 1926), e dall’altro accentuò l’opzione corporativa (Prévotat 2001).
In quest’ultimo caso, il contributo più importante venne da un ex anarcosindacalista, discepolo di Proudhon e Sorel, diventato monarchico maurrassiano nel 1906: Georges Valois. Il suo apporto teorico introdusse all’interno del movimento nuovi elementi, ereditati dalla precedente militanza anarcosindacalista, contaminando il tradizionale cattolicesimo sociale di La Tour du Pin con pulsioni rivoluzionarie di stampo produttivistico [11]. A partire da un volume del 1919 intitolato L’économie nouvelle, Valois proponeva un «nuovo regime economico» corporativo che non prevedesse alcun intervento da parte dello stato, poiché si doveva lasciare ai produttori la facoltà di «organizzare loro stessi l’economia del paese». Tale obiettivo esigeva «la libertà delle associazioni [sindacali] di fronte allo stato» (Valois 1919, 209-211): un cardine ideologico che in ultima analisi costituiva la cifra di tutto il corporativismo cattolico, e che consentiva l’avvicinamento anche di esponenti di altre correnti politiche, come appunto Valois.
Nel complesso, dunque, almeno una parte della variegata galassia cattolica partecipò al “revival” di teorie e progetti corporativi che si registrò in Europa nel primo dopoguerra (Pasetti 2016, 44-58). Si innescarono così processi di convergenza tra forze di differente ispirazione ideologica che condividevano il comune orizzonte di un nuovo ordine corporativo, al contempo antiliberale e antisocialista, per ridisegnare sia la disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, sostituendo il sindacato di classe con un’organizzazione interclassista, sia il sistema di rappresentanza politico-istituzionale degli interessi socioeconomici, trasformando il modello parlamentare della democrazia liberale in un’assemblea che fosse espressione diretta delle categorie produttive.
Ma nell’immediato dopoguerra, nell’eterogeneo insieme delle forze fautrici di progetti corporativi si inserì anche un nuovo soggetto politico: il movimento fascista italiano. Fin dai suoi esordi, infatti, il fascismo veicolò molteplici declinazioni del discorso corporativo, dando il via a un dibattito ideologico che nel tempo avrebbe raggiunto dimensioni enormi, accompagnando l’intera parabola del regime di Mussolini. Espliciti riferimenti alla teoria del corporativismo comparvero già nel programma di piazza San Sepolcro e poi nello statuto del 1921 del Partito nazionale fascista: nel primo, venivano indicati fra gli obiettivi la sostituzione del senato con «un Consiglio nazionale tecnico del lavoro intellettuale e manuale», nonché la «partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria»; nel secondo, era riservato un paragrafo alle corporazioni «come espressione della solidarietà nazionale e come mezzo di sviluppo della produzione» [12]. Alla vigilia del congresso che sancì la nascita del Pnf, Mussolini in persona ribadì che la sostituzione del senato con un organo di rappresentanza degli interessi professionali costituiva una delle linee programmatiche del partito:
[Il programma fascista prevede, n.d.a.] la limitazione delle funzioni e dei poteri attualmente attribuiti al parlamento e l’istituzione dei consigli nazionali tecnici con funzione legislativa, limitatamente al loro dominio. Di competenza del Parlamento i problemi che riguardano l’individuo cittadino dello stato e lo stato come organo di realizzazione e tutela dei supremi interessi nazionali; di competenza dei consigli tecnici nazionali i problemi che si riferiscono alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di produttori. Pertanto ogni cittadino maggiorenne disporrà di un voto politico per la elezione dei deputati al parlamento e di un voto quale produttore per l’elezione del consiglio tecnico nazionale [13].
Abbozzando una formula di doppia rappresentanza politica, le parole di Mussolini ricordavano molto da vicino altri progetti corporativi in circolazione nell’Europa postbellica, come per esempio quello di Seipel e del Partito cristiano-sociale austriaco.
Su queste basi, la dottrina del corporativismo fornì insomma un terreno fertile, se non una vera piattaforma programmatica, sul quale divenne possibile, nonostante l’originario anticlericalismo del movimento mussoliniano, l’incontro ideologico tra cattolicesimo e fascismo, prima sul piano nazionale, poi su scala europea. Non fu certo l’unico motivo che spinse parte del mondo cattolico verso l’adesione più o meno aperta a partiti e regimi di stampo fascista, ma nonostante contraddizioni e ambiguità rimase a lungo uno dei punti di convergenza più importanti. Ne offrì una prova, nel caso italiano, l’appoggio ottenuto dal governo Mussolini nella fase di inaugurazione della politica sindacale, con segmenti del mondo cattolico che approvarono pubblicamente i primi interventi di repressione della conflittualità sociale, presentati tramite la vuota formula della conciliazione degli interessi (Pasetti 2012, 91-92).
Divergenze
Che i discorsi corporativi elaborati nel campo fascista fossero polivalenti e derivassero da differenti suggestioni ideologiche è un aspetto ampiamente messo in luce dalla storiografia [14]. Per tutto l’arco del Ventennio, nonostante il bavaglio alla libertà di espressione imposto dalla rigida cornice dittatoriale, le diverse componenti ideologiche che fin dall’inizio animarono il dibattito corporativo non vennero mai ridotte a un’effettiva unità, per cui proseguirono a circolare versioni contrastanti della teoria. Tuttavia, questo apparente “pluralismo” venne presto disinnescato dall’inaugurazione di una politica corporativa che, pur con tutti i suoi limiti rispetto ai proclami propagandistici, metteva in atto un preciso disegno autoritario e statalista, del quale fu principale artefice il ministro della giustizia Alfredo Rocco.
Lo spartiacque venne posto dall’approvazione della legge del 3 aprile 1926 sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, seguita a un anno di distanza dall’emanazione della Carta del lavoro, con la quale vennero stabiliti i principi ispiratori della politica corporativa fascista, profilando la graduale evoluzione verso un sistema più compiuto. I cardini del nuovo ordinamento erano sostanzialmente tre: 1) la disciplina autoritaria dei conflitti di lavoro, attraverso l’abolizione del diritto di sciopero e di serrata e l’istituzione della Magistratura del lavoro; 2) il monopolio fascista della rappresentanza degli interessi, attraverso il riconoscimento giuridico di una sola associazione dei datori di lavoro e di un solo sindacato dei lavoratori per ogni categoria; 3) la creazione dei primi organi corporativi, sede di incontro ufficiale dei diversi interessi socioeconomici, attraverso la costituzione del Ministero delle corporazioni e del Consiglio nazionale delle corporazioni [15]. Questa legislazione implicava innanzitutto la sconfitta di altri progetti corporativi presenti all’interno del fascismo italiano, decretando la totale subordinazione del movimento operaio allo stato fascista e, viceversa, una sostanziale protezione dei privilegi imprenditoriali, pur innestando una dinamica politica che avrebbe gradualmente eroso anche la libertà d’azione delle organizzazioni padronali.
Vista alla luce di queste considerazioni – è stato opportunamente precisato in sede storiografica –, l’intera vicenda del corporativismo fascista ci appare diversa da come generalmente viene descritta: non la storia di un’irrimediabile e profondissima distanza tra progetti e realizzazioni, di un inequivocabile fallimento, ma la concreta e piena attuazione di una delle sue possibili versioni (Gagliardi 2010, 37-38).
Una versione che Rocco aveva già iniziato a elaborare a cavallo della Prima guerra mondiale e si differenziava da tutte le altre ipotesi del “revival” postbellico, a partire da quelle di area cattolica. Mentre per gran parte delle teorie il corporativismo aveva tra le sue funzioni primarie quella di difendere la società dallo stato, cioè di riorganizzare gli interessi sociali in modo da proteggerli non solo dalla logica della lotta di classe, ma anche dalla crescente ingerenza della politica, per Rocco lo stato doveva «comportarsi verso i sindacati moderni esattamente come si comportò con le corporazioni medioevali», cioè doveva «assorbirli e farli suoi organi», proclamandone l’«obbligatorietà» e ponendoli sotto il suo diretto controllo, trasformandoli infine «in organi di collaborazione al raggiungimento di fini comuni» [16]. Fu questo primato dello stato a orientare il ministro della giustizia del governo Mussolini nella legislazione sindacale da lui firmata. E in ragione di tale indirizzo statocentrico e autoritario l’impalcatura istituzionale del 1926-27 inaugurò un modello inedito, che allontanò la politica corporativa fascista anche dalle più contingenti pratiche di concertazione tripartita attuate in Francia o Germania nella prima metà degli anni Venti, definite «corporatiste» da Charles Maier. Il disegno di Rocco infatti andava ben oltre quelle prassi di «contrattazione permanente» fra governi e gruppi d’interesse organizzati, che comportavano «un decadimento dell’autorità parlamentare» e spostavano il centro del potere decisionale dai parlamenti ai ministeri o a nuove burocrazie parastatali (Maier [1975] 1999) [17]. Una prima differenza consisteva nella soppressione delle libertà sindacali e di ogni forma di pluralismo. Una seconda originalità derivava dal fatto che il funzionamento del sistema fascista si basava sull’inaugurazione di un’inedita struttura istituzionale di “rappresentanza” (sindacale, e solo molto più tardi politica) degli interessi socioeconomici, coercitiva e allo stesso tempo dotata di meccanismi di arbitrato. Una terza peculiarità, strettamente connessa a quest’ultima, riguardava la traduzione dalla teoria alla pratica del corporativismo fascista: esso, a differenza delle prassi “corporatiste”, si sviluppò sulla base di un progetto ideologico coerentemente implementato.
Nonostante le affinità ideologiche, e nonostante Rocco appartenesse all’area del nazionalismo italiano più vicina alla chiesa romana (Moro 2004), il quadro legislativo e istituzionale che il regime fascista iniziò a costruire dalla metà degli anni Venti propose dunque un modello corporativo divergente dai progetti di ispirazione cattolica, per cui suscitò alcune resistenze innanzitutto tra i vertici della Confederazione italiana dei lavoratori, contrari al monopolio fascista della rappresentanza (Pasetti 2012, 96-97) [18]. Ma furono soprattutto gli antifascisti in esilio a rimarcare fin da subito le divergenze. Le prese di posizione più nette provennero da Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari. Se il primo fin dall’alba del regime aveva messo in guardia dalla tendenza “statolatrica” del fascismo, implicita già nelle prime misure del governo Mussolini (Sturzo 1925), Ferrari si impegnò in un’opera di demistificazione del nascente sistema corporativo, anticipando nel 1928 quella “tesi del bluff” assurta in seguito a vero e proprio paradigma interpretativo: a suo modo di vedere, la legislazione italiana del 1926 e la Carta del lavoro non avevano realizzato altro che “una rivoluzione di nomi”, imponendo una dittatura sindacale che nulla aveva a che fare con un reale sistema di collaborazione tra le classi. Anzi, sottoponendo «l’economia nazionale alla direzione delle autorità governative», il fascismo stava «per soffocare ogni tentativo di opposizione e per realizzare il controllo effettivo dello stato-governo sui rapporti tra le diverse classi sociali»: «come succede sempre nei regimi di polizia, i grandi problemi politici ed economici sono così ridotti a problemi puramente amministrativi» (Ferrari 1928, 244-245).
In qualche misura influenzati dall’incipiente creazione di una rete transnazionale dell’antifascismo, della quale facevano parte anche Sturzo e Ferrari, altri intellettuali e movimenti cattolici europei condivisero analoghi giudizi sulla politica corporativa messa in atto in Italia dalla seconda metà degli anni Venti in poi [19]. In Francia, per esempio, si espresse in tal senso il piccolo Parti démocrate populaire, fondato nel 1924, che sebbene alla ricerca di una “terza via” tra liberalismo e socialismo, non manifestò alcuna attrazione per il corporativismo fascista (Delbreil 2004, 101-103). Analogamente, tennero le distanze dal modello autoritario e statocentrico italiano gli ambienti più legati alla tradizione del cattolicesimo sociale, soprattutto all’interno del movimento sindacale cristiano. Come dichiarò a Bordeaux in un dibattito congressuale del dicembre 1933 Jules Zirnheld, presidente della Confédération française des travailleurs chrétiens, che dal 1919 era l’espressione sindacale del cattolicesimo sociale francese, la crisi mondiale stava rendendo evidente il fallimento del liberalismo economico e al contempo stava dando credito all’alternativa fascista, anche all’interno del mondo cattolico. Tuttavia – metteva in guardia Zirnheld – la comprensibile attrazione per la soluzione corporativa italiana non implicava la condivisione da parte del movimento cristiano, poiché quest’ultimo difendeva il principio della «libertà sindacale», ripudiava «lo stato monopolista», preferiva il concetto di «professione» a quello di «produzione», ribadiva «il primato dello spirito» (Zirnheld 1933, 12-16) [20].
Divenuto il corporativismo, negli anni della Grande depressione, un tema all’ordine del giorno nel dibattito politico transnazionale, soprattutto nell’area francofona si moltiplicarono le riflessioni, con l’esperienza italiana sempre sullo sfondo. Una rara, e infruttuosa, occasione di confronto si svolse a Roma dal 20 al 23 maggio 1935, con il Convegno italo-francese di studi corporativi. Tra i rappresentanti italiani (Giuseppe Bottai, Ugo Spirito, i ministri Edmondo Rossoni e Luigi Razza, più una schiera di sindacalisti) e l’eterogenea delegazione di giovani intellettuali francesi (fra gli altri, Robert Aron di Ordre Nouveau, George Roditi e Paul Marion di L’Homme Nouveau, Emmanuel Mounier di Esprit, Pierre Ganivet di L’Homme Réel, Pierre Gimon dei Jeunesses patriotes) la discussione si accese attorno a quattro questioni cruciali: il ruolo dello stato, la funzione del partito unico, la libertà personale, i rapporti tra sindacati e corporazioni [21]. In questa sede, il filosofo del personalismo cristiano Mounier mise in contrapposizione la logica del corporativismo fascista e quella del proprio movimento: se i nemici erano comuni, ovvero la società borghese e l’individualismo liberale, il «valore primario» era differente: «per noi la persona, per voi lo stato» [22]. Sulla stessa linea e nello stesso periodo, una delle interpretazioni più originali venne dall’economista François Perroux, molto vicino al “personalismo” di Mounier. Se nei primi studi dedicati al fascismo Perroux aveva manifestato interesse per la politica corporativa, pur contestandone la soppressione della libertà sindacale (Perroux 1928), in seguito egli descrisse l’ordinamento italiano come un sistema dirigista che non riusciva tuttavia a sciogliere i nodi economici strutturali, quali la ridistribuzione dei redditi, la disciplina dei prezzi, l’incremento della produttività, la riduzione degli squilibri sociali (Perroux 1937, 45-64) [23]. Il problema, a suo modo di vedere, consisteva proprio nel tipo di corporativismo, statalista e oligopolista, messo in atto in Italia, che di fatto impediva la rappresentanza degli interessi di tutte le forze produttive e il pieno utilizzo delle loro competenze tecniche. La soluzione, al contrario, andava cercata in una “terza via” alternativa, in un altro tipo di corporativismo basato su «comunità di lavoro» in grado di riunire liberamente le parti sociali di uno stato democratico (Perroux 1937, 194-214).
Tra i cattolici francesi, anche figure più vicine alla nuova destra filofascista esprimevano perplessità sul modello italiano: secondo Georges Coquelle-Viance, lo «statalismo totalitario fascista» rappresentava un ostacolo più che una risorsa per l’agognata «restaurazione corporativa della nazione» (Coquelle-Viance 1937, 169-179) [24]. Di analogo tenore le opinioni di due padri gesuiti come lo spagnolo Joaquín Azpiazu (1934) e il belga Albert Muller (1935), entrambi attenti allo sviluppo del fascismo su scala europea, ma ostili a un’eccessiva invadenza dello stato nella regolazione degli interessi socioeconomici. Ciò non significava l’abiura di ogni progetto istituzionale di riforma corporativa, ma semplicemente il rifiuto del prototipo fascista e la ricerca di una soluzione differente, che avesse una maggior corrispondenza con i principi del cattolicesimo sociale, anche se in certi interpreti rimaneva latente una tentazione autoritaria.
Riallineamenti
Sebbene persistendo nella ricerca di una “terza via” corporativa, una parte almeno del cattolicesimo politico reagì dunque in modo critico, talvolta con esplicita contrarietà, all’ordinamento implementato nell’Italia fascista dalla legge Rocco in poi. Il principale motivo di divergenza derivava dalla tensione antistatalista che continuava a permeare certi ambienti del mondo cattolico. Tuttavia, altre correnti, e soprattutto alcuni esponenti delle frange più intransigenti, manifestarono un aperto apprezzamento per la disciplina sindacale imposta dal fascismo.
Anche su questo versante la casistica è ampia e varia. In Italia, sotto il giogo del regime, fino ai primi anni Quaranta la produzione del pensiero politico cattolico rimase in mano ad ambienti legati al fascismo, per cui prevalsero chiaramente dichiarazioni di allineamento nei confronti del corporativismo di regime, sebbene tra le righe potessero comparire latenti perplessità, obiezioni, distinzioni. Testate come Civiltà cattolica della Compagnia di Gesù, con gli scritti di padre Angelo Brucculeri, o Rivista internazionale di scienze sociali dell’Università del Sacro Cuore di Milano, con i contributi di Amintore Fanfani e Francesco Vito, furono tra le più assidue nel sostenere senza particolari rilievi critici il modello instaurato, di fatto accettando il ruolo interventista e dirigista dello stato, e quindi abbandonando lo schema del «corporativismo di associazione» caro alla tradizione antistatalista del cattolicesimo sociale [25]. Lo riconosceva fra gli altri Agostino Gemelli, introducendo un ciclo di lezioni accademiche dedicate ai Problemi fondamentali dello stato corporativo: benché «i mutati rapporti tra individuo e stato» costituissero «la più preoccupante [...] tra tutte le innovazioni dello stato fascista», il problema andava affrontato con la consapevolezza che i «compiti propri dello stato variano da epoca a epoca» e che l’unico principio per stabilire la giusta misura dell’«azione politica» era «l’etica» (Gemelli 1935, IX-X). In pratica, l’accettazione delle istituzioni statali era un fatto compiuto e attraverso il corporativismo si era realizzata la convergenza storica tra cattolici e stato (Cerasi 2018, 954-955).
Fuori dai confini nazionali, in uno scenario con maggiori libertà di espressione e quindi molto più diversificato, non mancarono adesioni altrettanto esplicite. Uno fra i primi a esaltare pubblicamente il modello italiano fu l’olandese con passaporto svizzero Herman de Vries de Heekelingen: un classico esponente del cattolicesimo più intransigente, poi del clericofascismo antisemita [26]. In un volume del 1926, scritto in francese per una casa editrice di Bruxelles e istantaneamente tradotto in Italia nel 1927, egli sosteneva che tra il fascismo e il cattolicesimo esistesse una profonda identità di valori e obiettivi. Soffermandosi in particolare sulle principali originalità che garantivano «le legittime esigenze della giustizia sociale», come l’Opera nazionale del dopolavoro e l’organizzazione corporativa, Vries de Heekelingen scriveva che quest’ultima, i cui quattro cardini erano individuati nel riconoscimento legale dei sindacati, nell’efficacia della contrattazione collettiva, nell’istituzione del tribunale del lavoro, e nella proibizione dell’autodifesa di classe, rappresentava un fattore chiave per spiegare il successo del fascismo, poiché realizzava l’obiettivo della pacificazione sociale. Perciò il fascismo era l’unico movimento in grado di condurre l’Europa fuori dalla lotta di classe, di far cooperare «i migliori artigiani di una vita internazionale, in cui saranno garantiti i diritti di tutte le nazioni», e di creare una società spiritualmente, politicamente ed economicamente omogenea, come prescritto dalla dottrina cattolica (Vries de Heekelingen 1927, 82-95, 130-131).
Sebbene Vries de Heekelingen osservasse il mondo con la lente del cattolicesimo intransigente, che leggeva il fascismo essenzialmente come reazione culturale antimodernista e antidoto alla minaccia comunista, egli percepiva comunque l’importanza delle innovazioni introdotte dal regime, fin dalla metà degli anni Venti, per quanto concerneva l’organizzazione delle masse, il controllo sociale, l’integrazione della società nello stato. Dal suo punto di vista, l’avvio di una politica corporativa era una componente essenziale di una nuova modalità di esercizio del potere politico, basata sull’inquadramento delle masse in strutture statali create per promuovere “ordine”, “disciplina”, “gerarchia”, “giustizia sociale”. L’incontro fra l’integralismo cattolico e il fascismo poteva avvenire non solo per convinzioni meramente reazionarie, ma anche nel nome di una modernità alternativa, che aveva tra i suoi cardini un corporativismo di stato di nuova concezione, di matrice rovesciata rispetto al tradizionale corporativismo dal basso, con venature antistataliste, del pensiero sociale cristiano. Era questa la principale novità che sul finire degli anni Venti iniziò a circolare in certe correnti di destra del cattolicesimo politico: l’idea che fosse una prerogativa dello stato imporre l’ordine corporativo. Iniziò a pensarlo, per esempio, anche il cancelliere austriaco Seipel, alle prese nel 1929 con il tentativo di riformare la costituzione austriaca in senso autoritario, rafforzando il potere esecutivo (Diamant 1964, 304-310).
Come sintomo di questa svolta si può citare il cosiddetto “Codice sociale di Malines”, cioè l’insieme di direttive per la soluzione dei problemi sociali che fu elaborato nel 1924-26 e pubblicato nel 1927 dall’Unione internazionale di studi sociali, fondata nella cittadina belga nel 1920 dal cardinale Désiré Mercier. Mentre alcuni articoli del codice ribadivano le posizioni tradizionali della Rerum novarum, affermando per esempio che i raggruppamenti personali erano «organi naturali della società civile» (art. 58), altre disposizioni aprivano un’inedita prospettiva statalista: in particolare l’art. 156 riconosceva infatti «il dovere dello stato di imprimere all’economia nazionale una direzione di insieme e [...] istituire un consiglio economico nazionale, espressione della organizzazione corporativa», con la funzione di mettere «in stretto collegamento» i poteri pubblici e i rappresentanti «di tutti gli ordini della produzione» (Uiss 1927). Il “Codice di Malines” può essere letto perciò come un documento di passaggio nell’evoluzione del pensiero corporativo cattolico verso una concezione meno tradizionale del rapporto tra politica e società, più disposta ad assegnare allo stato una funzione di intervento nella sfera economica e sociale.
Ma l’esempio più emblematico, la vera pietra miliare del cambio di paradigma venne dal vertice della chiesa romana, in particolare dall’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno, pubblicata il 15 maggio 1931. All’inizio degli anni Trenta, sulla scia del Concordato con Mussolini, e sullo sfondo del dissesto sociale provocato dalla crisi economica, il Vaticano era ormai giunto ad abbandonare l’avversione per lo stato secolare che aveva connotato il “lungo Ottocento” della chiesa romana. Se nell’ottica di Leone XIII, che con l’enciclica sociale Rerum novarum aveva pur sempre favorito lo sviluppo organizzativo politico e sindacale del cattolicesimo, la discriminante verso le forme di governo rimaneva vincolata alla subordinazione del potere temporale a quello spirituale, Quadragesimo anno sancì un cambiamento di posizione, aprendo al riconoscimento di un certo tipo di stato capace di intervenire dall’alto sulla realtà sociale. Ribadita la condanna al comunismo e al liberalismo, Pio XI esprimeva infatti un esplicito apprezzamento all’ordinamento corporativo dello stato fascista, che – si legge nel testo – stava opportunamente producendo «la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l’azione moderatrice di una speciale magistratura». Certo, connotando l’enciclica in modo ambiguo, rimaneva vivo il timore che «lo stato si sostitui[sse] alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo [avesse] carattere eccessivamente burocratico e politico, e che [...] po[tesse] servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale» (Pio XI [1931] 1940, 1132). Ma fermo restando l’anatema contro la tendenza alla sacralizzazione della politica, insita nella dimensione “religiosa” del fascismo, lo stato corporativo italiano rappresentava pur sempre l’unica risposta concreta ai mali dell’economia contemporanea e al pericolo del socialismo.
Altri esempi di riallineamento a favore di uno stato forte, che si facesse promotore di un ordine corporativo, si susseguirono negli anni Trenta, anche in paesi di radicata tradizione cattolica come il Belgio. Si leggano tra gli altri gli scritti di Charles Anciaux – funzionario del Ministero delle finanze, fondatore del Groupe Réaction, collaboratore della Revue réactionnaire, dal 1935 Revue de l’ordre corporatif – che propugnava una nuova costituzione monarchica e corporativa, aggiornando la lezione di La Tour du Pin in base alla più recente esperienza fascista, perché – affermava – «soltanto lo stato, con i potenti mezzi di cui dispone, è capace di dare l’ampiezza necessaria a questo insegnamento» (Anciaux 1935, 54) [27]. Oppure si vedano i programmi delle varie forze che si contendevano l’elettorato cattolico: incapaci di formare un fronte unito ma preoccupati dall’ascesa del movimento clericofascista Rex di Léon Degrelle, il Parti catholique e gli altri gruppi dell’area si avvicinarono a un’idea di stato corporativo influenzata dall’esperienza italiana [28].
In sintesi, su scala europea le reazioni del pensiero politico cattolico di fronte al laboratorio corporativo fascista furono discordanti, ma posero al centro della riflessione politica una questione cruciale, che toccava il nodo dei rapporti tra politica e società. A una polarizzazione tra ammiratori e detrattori dell’esperienza italiana, infatti, si aggiunsero via via tutta una serie di posizioni intermedie, che spesso rispecchiavano l’evoluzione del cattolicesimo in merito a un problema all’ordine del giorno nel dibattito intellettuale e politico: la crisi dello stato e la ridefinizione delle sue funzioni [29]. L’ambiguità ideologica sul tema del corporativismo e del modello proposto dal fascismo nasceva cioè dal fatto che tra le due guerre mondiali anche tra i cattolici iniziò a porsi in modo più dirimente la questione dell’intervento dello stato nella vita sociale ed economica delle comunità nazionali.
Un simile riallineamento del pensiero politico cattolico interessò anche le correnti schierate su posizioni antifasciste, o comunque critiche verso il regime, sebbene con esiti differenti. Nel loro caso, infatti, l’esempio della politica corporativa fascista produsse un paradossale effetto di avvicinamento a una concezione “moderna” della forma statale, ma nel contempo di allontanamento da ogni progetto di corporativismo, come se l’idea stessa fosse ormai vincolata inesorabilmente alla sua versione dittatoriale. I cattolici europei, italiani e francesi soprattutto, che scelsero la via dell’esilio e si rifugiarono principalmente in Gran Bretagna e in Usa, partirono con un bagaglio intellettuale che comprendeva quasi sempre ricette corporative per riformare il sistema politico ed economico, nell’auspicio di assicurare maggior giustizia sociale e coesione tra le classi. Tuttavia, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, nelle reti transnazionali della diaspora cattolica svanì progressivamente ogni indugio sugli esperimenti corporativi in corso, che apparivano inequivocabilmente connotati in senso coercitivo, burocratico, statalista, in ultima analisi totalitario (Kaiser 2004, 273-275). Come chiosava nel 1942 un sindacalista e filosofo cattolico esiliato in Usa, il francese Paul Vignaux, gli ordinamenti corporativi in vigore in Europa altro non erano che «un metodo per l’integrazione delle forze produttive nello stato totalitario: un aspetto o, se si vuole, una maschera del totalitarismo» (Vignaux 1942, 314). Nella riflessione politica degli esuli cattolici acquisì perciò maggior centralità la questione della libertà, ossia di come tenere insieme il riconoscimento dell’autorità statale e il ripristino dei diritti politici e sindacali [30]. Nel caso italiano, è emblematica di tale passaggio – nonostante provenisse da un esilio sui generis, vissuto all’ombra del Vaticano – la figura di Alcide De Gasperi, che abbandonò gradualmente l’orientamento corporativista degli anni Trenta legittimando le libere organizzazioni sindacali come strumenti per promuovere democrazia e giustizia sociale, all’interno di una concezione della politica imperniata sull’idea del solidarismo cristiano [31].
Ibridazioni
Nel periodo tra le due guerre mondiali, anche attraverso il confronto – a volte critico, altre volte del tutto accondiscendente – con l’esperienza del corporativismo fascista, la cultura politica del cattolicesimo, nelle sue molteplici sfumature, fece i conti dunque con il problema dello stato, finendo per accettare di delegare a quest’ultimo specifiche funzioni nei campi dell’ordine sociale e della direzione economica. «Not just under Fascism, but because Fascism» (Salvati 2006, 242), il cattolicesimo politico fu costretto ad affrontare i principali nodi della modernità, inclusa appunto la questione della crescente istituzionalizzazione dei rapporti tra economia, società e stato, poiché la semplice opposizione alle dinamiche moderne non rappresentava più un’opzione. Per vedere alcuni effetti concreti, sul piano politico e istituzionale, di questo riallineamento ideologico, non si dovette aspettare il secondo dopoguerra. Già dal finire degli anni Venti l’“onda corporativa” che si propagò in Europa (Pinto 2017) – e in qualche misura anche oltreoceano, soprattutto in America latina (Pinto e Finchelstein 2019) – portò allo sviluppo di varie riforme costituzionali o legislative di stampo autoritario, alle quali parteciparono anche forze di area cattolica. A connotare gran parte di questi esperimenti fu l’ibridazione tra progetti di eterogenea ispirazione ideologica e l’archetipo del sistema corporativo italiano. Nessun regime replicò pedissequamente il prototipo fascista, ma in molti casi venne riproposto un analogo corporativismo statocentrico. Dall’incontro tra visioni differenti nacquero ordinamenti corporativi che si possono definire ibridi poiché contaminavano la tradizione cattolica – pur cercando di preservarla soprattutto nella cornice giuridico-ideologica – con strutture, norme, disposizioni mutuate dal fascismo.
A partire dal 1926, infatti, l’ordinamento corporativo fascista rappresentò un modello non solo in senso astratto, come oggetto del dibattito politico e giuridico, ma anche su un piano empirico, come esperimento che venne preso a riferimento da legislatori di altri paesi europei, sui quali esercitò una certa influenza proprio in quanto antecedente storico di un determinato modo di concepire la disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In molti casi, si trattò di governi autoritari che coniugavano inclinazioni fasciste e tendenze al nazionalcattolicesimo [32].
Un primo esempio di questa valenza politica del laboratorio fascista venne dalla Spagna durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera. Per opera del ministro del lavoro Eduardo Aunós Pérez, infatti, tra il novembre 1926 e il maggio 1928 anche la monarchia spagnola si dotò di un’organizzazione corporativa, che per alcuni aspetti richiamava l’archetipo italiano: l’Organización nacional corporativa (Onc). La legge approvata il 26 novembre 1926 istituì grandi associazioni di rappresentanza sindacale unitarie per lavoratori e datori di lavoro, dividendo l’economia spagnola in 27 settori produttivi (dieci dei servizi, quindici dell’industria, due per il comparto minerario e la pesca, escludendo in un primo momento l’agricoltura) e profilando un sistema di relazioni sindacali strutturato su quattro livelli, dalla scala locale a quella nazionale. Nel suo insieme, venne così disegnato un ordinamento «gerarchizzato e piramidale» (Perfecto 1997, 191), che in parte raccoglieva il retaggio di precedenti progetti corporativi, alcuni di matrice cattolica, e in parte subiva l’influsso del fascismo.
Formatosi negli ambienti del cattolicesimo catalano, Aunós Pérez per primo ammetteva – seppure con qualche significativa precisazione – il proprio debito intellettuale con il modello italiano. Non solo egli attribuiva alla riforma sindacale di Rocco un primato assoluto nella storia del moderno corporativismo, in quanto prima esperienza pienamente realizzata (Aunós Pérez 1928a, 35), ma riconosceva in tutti i suoi scritti più importanti che la concezione fascista dello stato corporativo rappresentava una fonte d’ispirazione imprescindibile [33]. Come dichiarò presentando la sua riforma, «in tutti i paesi si sent[iva] la necessità di creare organismi [...] che dom[assero] le passioni indomite» nel mondo del lavoro, ma nel dotare la Spagna di un sistema di disciplina sindacale andava preso come esempio virtuoso un caso in particolare: «l’esperienza realizzata in Italia deve essere di gran valore per noi, perché fornisce un’ampia visione di un nuovo concetto politico» (Aunós Pérez 1928b, 456). Perfino nella terminologia la sua idea di stato corporativo sembrava quasi mutuata dalla retorica fascista, soprattutto nel richiamo a «un nuovo tipo di stato [...] che pretende che l’individuo agisca all’interno di corpi specializzati e rappresentativi della sua categoria di lavoro, e che questi corpi vadano a confluire nell’organizzazione e ordinamento dello stato» (Aunós Pérez 1928c, 11-12). Allo stesso tempo, Aunós Pérez si preoccupava di mettere in luce alcune peculiarità dell’ordinamento spagnolo che di fatto lo rendevano differente da quello fascista (Aunós Pérez 1928a, 38-46).
In dettaglio, procedendo in un’analisi comparativa tra le due varianti, l’Onc non imponeva un sindacalismo unico di stato ma conservava un certo grado di pluralismo sindacale. Inoltre manteneva almeno formalmente il diritto di sciopero, presupponeva la collaborazione dell’ala riformista della confederazione sindacale socialista invece che la totale eliminazione del preesistente movimento operaio, e nel funzionamento dei Comités paritarios riusciva a difendere gli interessi dei lavoratori più di quanto accadeva in Italia (Prat e Molina 2014, 211-214). Ciò non toglie che anche l’Onc fosse un’organizzazione subordinata a uno stato autoritario, attraverso la quale il regime primoriverista – fino alla sua dissoluzione nel 1930 – si assicurò il rigido controllo delle relazioni sindacali e un canale di intervento nel campo socioeconomico. Tanto che i sindacati padronali e quelli cattolici manifestarono un crescente distacco da un impianto corporativo che appariva loro troppo centralista e statalista [34].
Negli anni della Grande depressione, analoghe forme di ibridazione tra corporativismo d’ispirazione cattolica e soluzione fascista ebbero luogo in altri regimi dittatoriali che guardavano con ammirazione all’Italia di Mussolini. Due casi paradigmatici sono rappresentati dal Portogallo di António de Oliveira Salazar e dall’Austria di Engelbert Dollfuss.
In Portogallo, l’avvio di una riforma corporativa dello stato e della legislazione sindacale avvenne nel 1933: la nuova Costituzione e l’Estatuto do Trabalho Nacional fornirono i due architravi del regime corporativo che connotò, sia sul piano ideologico che su quello istituzionale, l’Estado Novo salazarista [35]. La carta sancì il passaggio a un sistema bicamerale di tipo misto, introducendo una camera corporativa con funzioni consultive al fianco dell’Assemblea nazionale, la quale conservava la facoltà legislativa, sebbene in un equilibrio di poteri fortemente sbilanciato a favore del capo di governo [36]. Lo statuto, seguito da una lunga serie di decreti attuativi, disegnò una struttura organizzativa gerarchica e capillare per ogni singola categoria produttiva, con al vertice le Corporazioni nazionali, alle quali spettava il compito di coordinare l’intero apparato di regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Tuttavia, proprio l’istituzione delle Corporazioni procedette a rilento, con un iter che di fatto si concluse soltanto nel 1956. Per lungo tempo, di conseguenza, la struttura corporativa portoghese fu governata da altri due organi: l’Instituto nacional do trabalho e previdência (Intp), ovvero un ente statale inaugurato sempre nel 1933, composto da funzionari pubblici e facente capo al Sottosegretariato di stato delle corporazioni e della previdenza sociale, che nominava i quadri sindacali e rappresentava il supremo garante della disciplina sociale (tanto che i suoi delegati distrettuali agivano anche come informatori per il Ministero dell’interno), e il Conselho corporativo, istituito nel 1934, formato dal capo del governo, da alcuni ministri, dal sottosegretario alle corporazioni e da due docenti universitari [37]. Si delineò quindi un sistema a carattere centralista, dirigista e burocratico, in cui l’idea di un auto-governo delle categorie economiche non era che un “simulacro” dell’azione tentacolare dello stato [38]. Sia da un punto di vista ideologico, sia per quanto concerne questi aspetti normativi e di funzionamento, il corporativismo salazarista presentava indubbie analogie e debiti con la parallela esperienza del fascismo italiano (Pasetti 2016, 230-249). Se la componente cattolica rimase influente all’interno dell’Estado Novo, e avrebbe continuato a legittimare il sistema corporativo anche dopo la Seconda guerra mondiale, fornendo almeno in parte anche i quadri tecnici (Alho 2008), l’ordinamento istituzionale rispondeva a una logica statalista di controllo, coordinamento e regolazione dall’alto della vita economica e sociale.
Come la costituzione portoghese del 1933, anche quella promulgata in Austria il 1° maggio 1934 da Dollfuss introdusse un nuovo sistema di rappresentanza politica, che segnava una netta rottura con l’ordine liberale: lo stato parlamentare nelle sue forme classiche – aveva dichiarato il cancelliere al congresso del Vaterländische Front (Fronte patriottico), l’organizzazione con cui intendeva inquadrare in un’unica struttura i membri del Partito cristiano-sociale e della Heimwehr – era «morto a causa di demagogia e formalismo» e non doveva «mai più tornare» [39]. In sostituzione del vecchio parlamento, esautorato dal marzo 1933, venne previsto infatti un sistema di rappresentanza politica composto da quattro organi, ognuno dotato di potere legislativo su specifiche materie: il Bundeswirtschaftsrat (Consiglio federale dell’economia) a occuparsi di politica sociale ed economica, il Bundeskulturrat (Consiglio federale della cultura) per le questioni di interesse culturale, il Länderrat (Consiglio delle province) per gli affari regionali e lo Staatsrat (Consiglio di stato) per l’alta politica. Formati con criteri differenti, ma che non contemplavano in alcun caso un meccanismo elettivo a suffragio popolare, i primi due di questi consigli avevano natura corporativa, ovvero rappresentavano la popolazione in base alle categorie produttive. I quattro organi inoltre sceglievano i 59 membri del Bundestag (Dieta federale), al quale spettava la produzione legislativa (Wohnout 2003).
Come spiegava a un pubblico inglese Karl Polanyi, sfruttando la sua familiarità con le vicende austriache, si trattava di una riforma istituzionale senza precedenti, ancor più radicale di quelle attuate in Italia o in Germania, che dava al regime di Dollfuss la parvenza di un vero fascismo [40]. Analogamente, per definire il nuovo regime, tra la sinistra socialdemocratica e marxista iniziò a circolare il concetto – tuttora in uso – di «austrofascismo» [41]. Sul versante opposto della scena politica austriaca, Dollfuss e il suo successore Kurt Schuschnigg preferivano invece la definizione di «Christlicher Ständestaat» (“Stato corporativo cristiano”), ponendo l’accento sul carattere corporativo della costituzione e sul retaggio del pensiero cristiano-sociale [42]. Come stava avvenendo in Portogallo, anche in Austria si aprì così una controversia sulla natura del nuovo stato, che poi sarebbe stata reiterata nel dibattito storiografico fino a oggi [43].
In effetti, considerando che per quanto riguardava l’organizzazione degli interessi socioeconomici la nuova costituzione riconosceva un solo sindacato unificato, il regime austriaco rappresentò un avanzato tentativo di istituzionalizzare un ordine corporativo sociale e politico. Esso sembrava realizzare così le aspirazioni da tempo presenti sia tra le forze dell’estrema destra, in particolare nella Heimwehr, sia nelle file del Partito cristiano-sociale: sembrava insomma portare a compimento il disegno antiparlamentare di Seipel, rafforzato da un lato dall’idea di stato autoritario elaborata da Spann e dall’altro dall’influenza della Quadragesimo anno di Pio XI (Botz 2017). A simili premesse teoriche si richiamarono i principali artefici della carta, come il leader della Heimwehr Odo Neustädter-Stürmer, il teologo cattolico Johannes Messner e il giurista e membro del Partito cristiano-sociale Otto Ender (Botz 2014, 135-136). Il carteggio tra Dollfuss e Mussolini rivela pienamente questa convergenza di ipotesi corporative che fu alla base della riforma costituzionale [44]. E proprio per tale combinazione tra ispirazioni fasciste e cristiano-sociali lo stato corporativo austriaco venne recepito fin dall’inizio come un esperimento suggestivo, sebbene ancora in evoluzione, degno di attenzione soprattutto da parte di corporativisti cattolici che – come il prelato belga Albert Muller (1935, 57-59, 132-133) – ammettevano il valore paradigmatico del modello italiano ma non intendevano cedere a Mussolini il monopolio della dottrina.
In tutti i paesi europei che nel corso degli anni Trenta o all’inizio degli anni Quaranta adottarono legislazioni e istituzioni di stampo corporativo (come la Spagna franchista o la Francia di Vichy), si dispiegarono processi di ibridazione tra modello fascista e progetti autoctoni, che in parte cercavano legittimazione richiamandosi alla tradizione corporativa cattolica. Tendenze analoghe si registrarono anche fuori dall’Europa, in particolare nei regimi autoritari dell’America latina, dove la chiesa cattolica conservava una radicata egemonia culturale (Pasetti 2019). In quasi tutti i paesi sudamericani si instaurò infatti una dialettica tra correnti ideologiche di varia ispirazione e suggestioni fasciste, mediate dalla ricerca di una “terza via” corporativa [45]. In Brasile, per esempio, esponenti della destra cattolica e dell’Integralismo guardavano al laboratorio italiano come al più avanzato tentativo di riorganizzazione dei rapporti tra stato, società e mercato, fornendo una base ideologica alla costituzione corporativa promulgata da Getúlio Vargas nel 1937. Non a caso, vista dall’Italia, la dittatura brasiliana veniva presentata come il trionfo del modello fascista (Gianturco 1943, 343-351). Tuttavia, l’architettura giuridica implementata da Rocco in Italia venne trasposta in forme originali nello stato corporativo di Vargas, influenzato nondimeno dall’esempio del Portogallo salazarista e comunque maggiormente disposto a concedere alcune garanzie a un mondo del lavoro in precedenza poco o nulla protetto (Gentile 2013). Nelle esperienze dittatoriali dell’America latina furono proprio le correnti più reazionarie del cattolicesimo a promuovere soluzioni corporative che inauguravano forme di organizzazione degli interessi sociali attraverso un impianto autoritario fascista (Pinto 2020, 110).
In tale quadro, il corporativismo rappresentò allo stesso tempo un fattore di conciliazione e di competizione tra cattolicesimo e fascismo. Da un lato, funzionò come elemento di legittimazione transnazionale dell’opzione fascista in ambienti cattolici, allontanando questi ultimi dalla pregiudiziale antistatalista. Dall’altro, da parte degli stessi ambienti cattolici venne spesso rimarcata la sostanziale differenza della propria soluzione corporativa rispetto al modello affermatosi nell’Italia fascista, anche se in realtà pressoché tutti i laboratori corporativi degli anni Trenta furono connotati da un impianto statocentrico e autoritario. La disfatta bellica del nazifascismo li travolse – con l’eccezione della penisola iberica – ma il retaggio di quelle controverse esperienze ebbe effetti duraturi sulla cultura politica cattolica [46].
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Note
1. È un aspetto messo in luce soprattutto da una nuova stagione di studi storici sul corporativismo, al cui interno si colloca anche Pasetti 2016, dal quale il presente contributo prende le mosse riordinando e approfondendo una serie di spunti inerenti il nodo dei rapporti tra fascismo e cattolicesimo.
2. Sulle origini ottocentesche del corporativismo cattolico, si vedano in particolare: Misner 1991; Boyer 2004 (il quale centra la sua analisi sui casi austriaco, tedesco e francese); Morck e Yeung 2010; Pollard 2017.
3. Fra gli altri Schmitter 1981, 61; Maraffi 1981, 19-21.
4. Sulla nascita e lo sviluppo delle organizzazioni sindacali cattoliche, in una prospettiva comparativa, si veda anche Heerma van Voss, Pasture e De Maeyer 2005.
5. Diamant 1964, 168-79; Pelinka 1988, 53-6.
6. Seipel, Ignaz. 1918. “Das Wesen des demokratischen Staates.” Reichspost, 20 novembre (cit. in Diamant 1964, 175).
7. Diamant 1964, 179-85; Wohnout 2004, 181-2. Sulla figura di Seipel, inoltre, Klemperer 1972.
8. Nonostante i rapporti di Spann con certi ambienti del cattolicesimo italiano (per esempio negli anni Trenta firmò vari articoli sulla Rivista internazionale di scienze sociali dell’Università cattolica del Sacro Cuore), Der wahre Staat è stato tradotto solo negli anni Ottanta, in tre volumi, per iniziativa di una casa editrice neofascista (Spann [1921] 1982-1987). Sulla ricezione di Spann in Italia durante il fascismo, Franchi 2002, 214-21.
9. Per un approfondimento sulla teoria dello stato corporativo di Spann (che rimane, fuori dall’area di lingua tedesca, una figura poco studiata): Diamant 1964, 369-86; Franchi 2002, 183-98.
10. Ex ufficiale dell’esercito, ex accademico ed ex diplomatico, Sidónio Pais prese il potere con un colpo di stato nel dicembre 1917 e lo mantenne fino al 14 dicembre 1918, quando venne ucciso alla stazione di Rossio a Lisbona. Sull’impianto corporativo della riforma costituzionale attuata sotto il suo governo, si vedano: Silva 2006, 51-54; Serapiglia 2011, 96-109.
11. Sulla figura di Valois, si rinvia ai lavori biografici di Guchet 2001 e Douglas 1992. Contributi interessanti sull’itinerario politico di Valois e sulla ricezione all’estero dei suoi scritti sono raccolti in Dard 2011.
12. Entrambi i programmi in De Felice 2001, 17-8 e 91-8.
13. Mussolini, Benito. 1921. “Le linee programmatiche del partito fascista. Chiarimenti.” Popolo d’Italia, 8 ottobre, poi in Mussolini 1955, 176.
14. Si vedano fra gli altri: Parlato 2000; Pasetti 2006; Santomassimo 2006; Gagliardi 2010.
15. Si vedano i testi della legge del 3 aprile 1926 e dei decreti con le norme di attuazione dell’1 e 2 luglio in Aquarone 1965, 442-54.
16. Rocco, Alfredo. 1920. “Crisi dello Stato e sindacati.” In Rocco 1938, 640-642. Sul disegno corporativo di Rocco, si vedano: Ungari 1963, 43-55; Battente 2005, 165-169, 287-300; Simone 2007, 440-445; Stolzi 2018.
17. Oltre al fondamentale saggio comparativo di Maier, per una rilettura che invece attenua l’originalità dell’assetto istituzionale fascista si veda Musso 2018.
18. Anche tra le correnti più vicine al regime, come per esempio tra i clericofascisti del Centro nazionale italiano, sorsero sporadici segni di diffidenza verso la «moda della statolatria»: si veda Baragli 2011, 247-250, che tuttavia non fa riferimento a opinioni in merito alla legge Rocco.
19. Alla pari del fascismo, anche la storia dell’antifascismo è stata oggetto di una recente rilettura in chiave transnazionale; si vedano, ad esempio, i casi di studio raccolti in García, Yusta, Tabet e Clímaco 2016, e inoltre l’introduzione al dossier Transnational Anti-Fascism: Agents, Networks, Circulations: García 2016. Non mi pare, tuttavia, che in questo ambito di studi il tema della circolazione di un discorso anticorporativo abbia ricevuto sufficiente attenzione.
20. Su Zirnheld e la Cftc: Launay 1986.
21. Per un’analisi del dibattito congressuale centrata su questi quattro temi, si rinvia a Parlato 1990, 44-64. Per una contestualizzazione del convegno di Roma in riferimento alla ricezione del corporativismo italiano in Francia, si veda inoltre Poupault 2014, 405-410.
22. Si veda la relazione di Mounier al convegno di Roma, in Parlato 1990, 140-4; ma anche il dialogo sullo stato fascista tra Mounier e Giorgio Diaz de Santillana, un giovane filosofo italiano che tenne i contatti con gli intellettuali francesi nella fase organizzativa del convegno: Mounier, Emmanuel e Diaz de Santillana, Giorgio. 1935. “Dialogue sur l’Ètat fasciste.” Esprit, 1 settembre. Tra l’ampia bibliografia sul filosofo francese, relativamente alla sua fascinazione per il fascismo rimane un riferimento molto discusso Sternhell (1983) 1997, 370-407.
23. Sull’itinerario teorico di Perroux: Mornati 1997, 101-11; Cohen 2006.
24. Come puntualizzava dall’Italia un cattolico sostenitore del corporativismo fascista, va precisato che gli scritti di Coquelle-Viance erano contraddittori nelle loro valutazioni (Sacco 1939, 148-152). Sul suo progressivo avvicinamento al fascismo: Nacci 1986, 11-14. Più in generale sulle controversie in seno alla Jeune droite francese: Dard 2018.
25. Per vari esempi, si veda la documentazione raccolta in Ranfagni 1975.
26. Per una definizione di “cattolicesimo intransigente” si rinvia a Mayeur 1972. Sull’impegno di Vries de Heekelingen nella campagna per il centro transnazionale antiebraico del Welt-Dienst di Erfurt, si veda Galimi 2016, 327.
27. Sul progetto corporativo di Anciaux, Balace 2011.
28. Si vedano: Conway 1996, 201-204; De Wever 2004, 135-139; Gerard 2004, 86. Per ulteriori esempi, si rinvia a Conway 1997, 34-53.
29. Di questa pluralità di posizioni fornì un ulteriore esempio il dibattito che si tenne ad Angers nel 1935 per l’annuale appuntamento delle Semaines sociales de France, l’osservatorio cattolico sulle questioni sociali che in quell’occasione fu dedicato al tema dell’organizzazione corporativa. Tra gli interventi, si vedano in particolare quelli di Eugène Duthoit sull’economia corporativa, di Charles Poisson e André Rouast sulle legislazioni straniere, di Jean Brethe de la Gressaye su funzioni e poteri dell’autorità corporativa, di Jules Zirnheld sulle libertà sindacali, di Marcel Prélot sull’integrazione delle corporazioni nello stato, di Henri Boissard sull’organizzazione economica internazionale: Semaines sociales de France 1935.
30. Si veda, ad esempio, People and Freedom Group 1939, in particolare gli interventi di Luigi Sturzo, Democracy, Authority, and Liberty, e Louis Terrenoire, Corporatism and Democracy.
31. Si vedano per esempio i testi raccolti in De Gasperi 1955. Sull’evoluzione del pensiero politico-sociale di De Gasperi in merito al tema del corporativismo, si rinvia a Cau 2009.
32. Per una messa a punto concettuale della categoria del nazionalcattolicesimo, si rinvia al testo introduttivo di questo dossier: Botti 2019.
33. Aunós Pérez 1928a, 172-4; Id. 1929, 43-4; Id. 1930, 48-60; Id. 1935, 97-121.
34. Sulla rottura dell’alleanza tra chiesa cattolica e regime primoriverista, provocata anche da un crescente malessere nei confronti della politica corporativa, si veda Adagio 2004, 177-187.
35. Tra i vari casi nazionali, quello del corporativismo portoghese è stato uno dei più approfonditi dai recenti studi storici. In italiano, per un’introduzione al tema, si vedano: Torgal 2006; Serapiglia 2011. Uno sguardo d’insieme sulle principali problematiche emerge dai saggi raccolti in Rosas e Garrido 2012. Per un’utile sintesi, si veda anche Garrido 2016.
36. Su funzioni e limiti della camera corporativa nel sistema istituzionale dell’Estado Novo si rimanda a Cardoso e Ferreira 2017, anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
37. Si vedano: Lucena 1976, 222-226; Rosas 2012.
38. Si vedano: Madureira 2002, 95; Cardoso 2014, 114; Garrido 2016, 99-129.
39. Engelbert Dollfuss, discorso a Trabrennplatz (Vienna, 11 settembre 1933), cit. in Wohnout 2004, 184.
40. Polanyi, Karl. 1934. “L’Austria corporativa: una società «funzionale»?.” New Britain, 9 maggio, trad. it. in Polanyi 1993, 247-254.
41. Per un quadro del dibattito storiografico sul concetto di «austrofascismo», si veda Kirk 2003.
42. Anche questa è una definizione tuttora in uso, specialmente tra storici di area conservatrice. Si veda, ad esempio, Binder 2002.
43. Per un punto di vista equilibrato, che sottolinea l’eterogeneità e la graduale evoluzione del regime di Dollfuss e Schuschnigg, si veda in particolare Botz 2014; Id. 2017.
44. Si veda ad esempio la lettera di Dollfuss a Mussolini del 22 luglio 1933, in appendice a Braunthal 1955, 204-209.
45. Per un quadro complessivo dell’influenza fascista sulle esperienze dittatoriali sudamericane degli anni Trenta, si veda ora Pinto 2020.
46. Sul retaggio dei progetti e delle esperienze corporative degli anni tra le due guerre mondiali nell’Europa postbellica, si rinvia a Pasetti 2018.