La «Monteforno acciaierie e laminatoi S.A.» nacque a Giornico, Canton Ticino, nel dicembre 1946, all'imbocco di uno degli assi di comunicazione
Nord-Sud più importanti d'Europa, quello del Gottardo. La fabbrica iniziò il suo lungo cammino, che si concluse con una drammatica chiusura nel 1994, in un Ticino risparmiato dai bombardamenti e
dalle peggiori crudeltà della guerra, ma il cui tessuto economico presentava carenze strutturali notevoli: isolamento, arretratezza, squilibrio tra popolazione attiva e possibilità di occupazione
(ciò che portava all’emigrazione), agricoltura poco organizzata e scarsamente produttiva, strutture industriali evanescenti o deboli, reddito per abitante molto inferiore alla media
svizzera[1]. Un cammino che portò la Monteforno a toccare negli anni '70 la cifra di oltre 1000 lavoratori e numerosi record produttivi
che la proiettarono nell'Olimpo delle acciaierie mondiali: la fabbrica di Giornico fu una delle prime a scendere sotto l'ora per ottenere una colata di acciaio. Tutto questo grazie a notevoli
investimenti tecnologici, ma soprattutto alla straordinaria bravura della sua manodopera, composta nella stragrande maggioranza di lavoratori immigrati dall'Italia.
Una vicenda, quella della Monteforno, che ha un'importanza tutta particolare nel contesto produttivo di un Cantone – il Ticino – tutto sommato periferico dal punto di vista economico rispetto ai
grandi centri produttivi della Svizzera interna per la grandezza e l'importanza acquisita nel contesto europeo e per la vicenda umana che ne ha accompagnato lo sviluppo. Ad alternarsi nel gran
caldo dei forni a siviera, che faceva sudare così tanto i lavoratori da lasciare bianchi i loro vestiti, almeno due generazioni di lavoratori italiani.
I primi arrivarono in Ticino seguendo Aldo Alliata, proprietario fin dagli anni ’30 della «Società metallurgica Cobianchi»[2] di Omegna
(in Piemonte), che diede avvio alla nuova impresa industriale in Svizzera sostenuto dall’ingegner Luigi Giussani, il commerciante che comprava in Svizzera i prodotti della Cobianchi. Si trattava di
operai esperti, che lavorarono a Giornico nel periodo eroico della Monteforno, aiutati da manodopera che cominciò ad arrivare dal Nord Italia, dal bresciano e dal bergamasco, sostituiti
poi, a partire dalla fine degli anni '50, da una nuova ondata di immigrati, questa volta provenienti dal Sud Italia.
Furono questi ultimi, giovani e scapoli, sensibili alla discriminazione con la quale ogni giorno dovevano confrontarsi, a dare vita a un ciclo di lotte che negli anni '70 portò la Monteforno alla
ribalta della cronaca ticinese e svizzera, rinnovando il sindacato e mettendo in discussione con nuova radicalità la cosiddetta pace del lavoro, che fin dal lontano 1937 aveva legato le
mani alle rivendicazioni del movimento operaio svizzero.
Lavoratori e immigrati, immigrati in quanto lavoratori: il lavoro era l'unica giustificazione alla loro presenza per buona parte della società svizzera, che a partire dagli anni '60 divenne sempre
più sensibile alle sirene dei partiti xenofobi. Gli stessi sindacati riuscirono con fatica a sganciarsi da una visione economicista dell'immigrazione italiana, la stessa che guidò gran parte delle
politiche migratorie della Confederazione nel secondo dopoguerra. Gli italiani erano braccia, una variabile dipendente dello sviluppo economico, manodopera che, come era arrivata in fase di alta
congiuntura, poteva essere rimandata a casa nei momenti di crisi.
Dopo una prima fase più liberale nella gestione dei flussi migratori, a partire dai primi anni '60 le politiche svizzere in materia cambiarono significativamente e insieme al riconoscimento della
non temporaneità della presenza italiana nel Paese, si cominciò a controllare i flussi di manodopera in entrata, anche sulla spinta di un crescente sentimento xenofobo della popolazione locale,
preoccupata da un supposto rischio di «überfremdung» o «inforestierimento». Poi arrivò la crisi della metà degli anni '70, che ben più di qualsiasi legge portò alla diminuzione dell'immigrazione italiana in Svizzera.
I lavoratori immigrati della Monteforno hanno vissuto tutto questo e ne sono testimoni straordinari: hanno superato grandi difficoltà, hanno lavorato duro per una vita, hanno affrontato il
pregiudizio a testa alta, hanno fatto cambiare la gente intorno a loro e sono cambiati a loro volta, hanno lottato, hanno vinto e hanno perso. Volevo che tutto questo venisse raccontato: ho avuto
l'occasione di farlo grazie a un finanziamento del Cantone Ticino, con il quale ho potuto dare avvio a una campagna di raccolta di interviste di storia orale, di cui in questo articolo cercherò di
dare alcuni esempi, per mostrare quanto esse possano essere utili allo studio della storia delle migrazioni italiane in Svizzera.
Fonti orali e nuova storia delle migrazioni
L’interesse per l'utilizzo delle fonti orali nel campo della ricerca storiografica sulle migrazioni è andato crescendo insieme a un più vasto rinnovamento di questo settore degli studi storici,
indotto anche dai risultati ottenuti in discipline diverse ma complementari, come la sociologia, l'antropologia e l'economia. Parallelamente alla progressiva rimessa in discussione di modelli
esplicativi sull'origine delle correnti migratorie basati su teorie di stampo neoclassico, sono andate sviluppandosi nuove direzioni di studio, le quali hanno posto l'accento su motivazioni di
carattere relazionale che coinvolgono collettività e individui, sia nei paesi di partenza che in quelli di arrivo, influenzando le scelte migratorie dei soggetti coinvolti.
L’attenzione a fattori come le reti sociali (familiari, amicali, etniche) nel determinare le scelte dei migranti e nello strutturare le loro strategie di sopravvivenza nelle società di accoglienza,
è ben espresso dalla popolarità assunta dal concetto di network. Secondo Michael P. Hanagan i recenti lavori di storici e sociologi rafforzano la nostra conoscenza su come
«[…] social networks both facilitate and constrain the migrant flow and how migrant networks themselves are linked to lager social structures. Networks themselves are only a part, though an important part, of the social structures in wich labor markets are “embedded”»[3].
La recente attenzione a queste reti sociali ha portato inoltre antropologi e storici a rigettare
«[…] the whole array of dichotomies that posit a choice between assimilation and retention of a primordial ethnic identity. Ongoing transnational ties among migrants and changing relations within migrant communities provide migrants with more creative and flexible options for asserting identity»[4].
affrontando le questioni legate all’identità migrante con maggiore attenzione per le sfumature: tra assimilazione o rigetto completo della nuova cultura del Paese d’accoglienza esistono
numerose altre opzioni, che i migranti scelgono dinamicamente a seconda delle imposizioni esterne, delle proprie risorse soggettive e del sostegno delle reti sociali all’interno delle quali sono
collocati.
In questa nuova stagione di studi sui fenomeni migratori, che tra l’altro «ha visto l’adozione di un lessico e di categorie per molti versi affatto nuovi come transnazionalismo e diaspora»[5], il ricorso alle fonti orali assume un’importanza tutta particolare:
«[...] personal testimony reveals the complex weave of factors and influences wich contribute to migration and the processes of information exchange and negotiation within families and social networks. [...] In migrant narratives social networks are shown to be crucial aspect of the migration experience»[6].
Le storie di vita e il racconto diretto dell’esperienza migratoria ci aiutano, oltre che a sensibilizzare l’opinione pubblica sui suoi aspetti drammatici o a ricostruire una memoria
pubblica di vicende legate all’emigrazione, a capire alcune delle caratteristiche più significative di questo fenomeno. La testimonianza diretta diventa quindi uno strumento imprescindibile
per studiarne i contorni dall’interno, là dove le fonti scritte sono assenti o insufficienti, in particolare per quanto riguarda i temi che sono al centro dell'attenzione di questa nuova
stagione di studi sulle migrazioni.
Nel suo classico sull'utilizzo delle fonti orali in campo storico, The Voice Of The Past, Paul Thompson spiega quanto le testimonianze individuali possano aiutare a gettare luce su
innumerevoli aspetti dell'esperienza migratoria, dalla ricerca del lavoro all'assistenza prestata a familiari e conoscenti, dalla costruzione di istituzioni comunitarie allo sviluppo di identità
miste, dalla discriminazione ai problemi di tensione razziale:
«In particular, oral evidence can explore the images of another country, the local tips and stories, and the receiving network at the other end of journey, which explain why people do not move randomly, but follow particular migratory paths. [...] It can show how importantly the migration experiences of man and women differ, and how this can be crucial in deciding whether or not to return home. And especially it can explore the role of the web of family connections in migration [...]»[7].
Storia orale al lavoro.
Significativamente uno dei primi campi storiografici in cui si è sviluppato l'utilizzo delle fonti orali è stato quello dello studio del movimento operaio, come risposta alla necessità di «dare
voce ai senza voce» la cui urgenza nasceva dall’avanzata nel secondo dopoguerra del movimento dei lavoratori e dal processo di decolonizzazione nei Paesi del terzo mondo. Una spinta
politica che ha portato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 allo sviluppo, anche in Italia[8], della storia
orale e che non solo ha contribuito ad allargare l’orizzonte di ciò che viene considerato degno di interesse storiografico, ma che ha anche fornito agli studiosi nuovi strumenti di analisi, dando
un apporto scientifico notevole allo sviluppo della storiografia.
Spiega Paul Thompson:
«Finally, oral evidence has a special value to labour historian concerned with the work process itself – not merely its technology [...] but the experience of work, and the social relationship and culture which follow from it»[9].
L’esperienza migratoria e lavorativa degli operai dell’acciaieria Monteforno si è strutturata principalmente attraverso l’oralità: si tratta di una constatazione importante che non deve però portare a indebite generalizzazioni. Gli operai di origine italiana che hanno lavorato nell'acciaieria ticinese non sono certo dei primitivi immersi in una specie di «oralità primaria»[10], dal momento che hanno frequenti rapporti con la scrittura. Ma, come nota Alessandro Portelli,
«[...] le classi popolari hanno ricevuto l’accesso non a tutta la scrittura, ma solo a una sua parte: hanno imparato a leggere ma ci si è preoccupati meno di porle in grado di scrivere»[11].
L'obiettivo della mia ricerca è stato quello di ricostruire, grazie alle testimonianze, lo sviluppo di questa particolare comunità di lavoratori, dalla nascita dell'impresa – nel 1947 – alla sua
chiusura definitiva nel 1995. Il suo interesse sta nel carattere di caso di studio assunto dalla vicenda dell'acciaieria ticinese, dal
momento che in essa si intrecciano due temi importanti per la storiografia del secondo dopoguerra: quello delle migrazioni da lavoro e quello dello sviluppo del movimento operaio e del suo
rapporto, nei paesi d'accoglienza, con la manodopera immigrata.
Il punto di vista adottato è stato quello dei protagonisti stessi della vicenda Monteforno, lavoratori e immigrati, nel solco di quanto scrive Portelli nell'introduzione al suo volume Biografia
di una città:
«[...] quello che segue non è tanto la ricostruzione di un secolo e mezzo di storia di una città attraverso la nascita, il fulgore e la crisi della civiltà industriale, quanto una ricerca sul rapporto della gente con questa storia»[12].
Un lavoro di questo genere è utile prima di tutto perché permette di rovesciare la prospettiva della ricerca storica sull'immigrazione e sui suoi rapporti con il movimento operaio in Svizzera,
paese nel quale il fenomeno di migrazione in entrata ha assunto un'ampiezza paragonabile a quella di Stati Uniti e Germania: tra il 1949 e il 2001, 3.454.034 lavoratori stranieri hanno raggiunto la
Svizzera con un permesso di soggiorno o di residenza, in media 65.000 ogni anno. Nel 1970, alla vigilia della crisi economica, il censimento federale contò più di un milione di stranieri nel Paese,
cioè il 17% dei residenti, di cui circa 500.000 erano di origine italiana[13].
In questo contesto intervistare i lavoratori della Monteforno non significa, ingenuamente, proporsi di «dare la parola agli ultimi», ma essere coscienti del fatto che attraverso la voce di questi
immigrati si possono verificare nella quotidianità dell'esperienza migratoria le ipotesi e i risultati ai quali la ricerca è giunta negli ultimi anni.
La mia ricerca si è sviluppata nell'arco di due anni e ha portato alla raccolta di circa 30 ore di testimonianze orali (registrate con l'ausilio della videocamera) con un folto gruppo di operai
immigrati che hanno lavorato alla Monteforno e che sono rimasti in Svizzera italiana anche in seguito alla chiusura dell'acciaieria.
A farmi da guida le osservazioni del sociologo Pierre Bourdieu, che ha definito l’intervista come una forma di «esercizio spirituale», volto a ottenere, attraverso l’oblio di sé (da parte del
ricercatore), una vera e propria «conversione dello sguardo» che portiamo sugli altri nella vita quotidiana e a produrre un «discorso straordinario»:
«En lui offrant une situation de communication tout à fait exceptionnelle, affranchie des contraintes, notamment temporelles, qui pèsent sur la plupart des échanges quotidiens, et en lui ouvrant des alternatives qui l’incitent ou l’autorisent à exprimer des malaises, des manques ou des demandes qu’il découvre en les exprimant, l’enquêteur contribue à créer les conditions de l’apparition d’un discours extraordinaire, qui aurait pu ne jamais être tenu, et qui, pourtant, était déjà là, attendant ses conditions d’actualisation»[14].
Racconti migranti
Il racconto di A. D., ex operaiodella Monteforno (classe 1944), di origine sarda è di grande interesse perché ci restituisce, attraverso una narrazione vivida e ricca di particolari, il mito
delle origini sull'arrivo nell'acciaieria di una nutrita comunità di lavoratori dell'isola, chiamati in Ticino attraverso un'attiva politica di reclutamento compiuta dalla direzione della
fabbrica.
I sardi della Monteforno hanno una storia a sé: il loro approdo in Ticino si inserì nella nuova fase dell'emigrazione da lavoro che si sviluppò a partire dalla fine degli anni '50, quando cessarono
le migrazioni tradizionali dall’Italia settentrionale verso l’estero.
Con lo sviluppo del boom economico che investì soprattutto l'Italia del Nord, ad arrivare furono soprattutto lavoratori meridionali. È utile ricordare che il 1956 fu l’anno centrale
dell’emigrazione italiana verso i paesi europei; due terzi dei 200 mila espatriati dalla vicina Penisola giunsero in Svizzera: nel 1960 i residenti di nazionalità italiana in Ticino erano ben
32.130.
«Le racconto come sono arrivati i primi sardi alla Monteforno. Il primo è stato mio fratello. E’ arrivato da Tula. E’ partito tutto dal 1960, poi i sardi hanno cominciato nel ‘61 ad arrivare qua. Nel ‘60 avevo due sorelle che lavoravano all’ospedale distrettuale di Faido [una località ticinese]. La grande Mariangelica, la seconda Giuseppina e tra le tante degenze è capitata la moglie del signor Carlo Franscini [allora capo del personale alla Monteforno]. Io avevo qua due fratelli che lavoravano. Le due sorelle erano venute qua per lavorare. Il primo fratello che è venuto a Faido è venuto nel ‘58 ed era partito dalla Sardegna per andare in Francia, è andato in Francia con altri tre amici, dopo 6-7 mesi non gli andava più, anche per lo stipendio, lavorava come contadino, poi ha sentito che in Svizzera cercassero lavoratori. E allora sono venuti a Faido.
A Faido ha iniziato a lavorare con un’impresa di pittura. Dopo un po' è venuto anche mio zio e l’altro mio fratello, il grande, che adesso è in Sardegna. Mio zio lavorava alla galvanica, che adesso è a Biasca [una località ticinese]. La moglie ne parlò con Franscini e Nicola ha cominciato alla Monteforno, nel 1960, e qui è cominciata la storia dei sardi alla Monteforno.
Ha cominciato mio fratello e subito dopo mio zio. Inizio primavera del ‘61 alla Monteforno cercavano manodopera. Normalmente prima arrivavano i bergamaschi, i bresciani e anche i napoletani. Quando il direttore [della Monteforno] ingegner Morini ha saputo che c’erano due sardi alla Monteforno, durante la guerra lui comandava una brigata, era tenente, e sotto i suoi ordini aveva diversi sardi. E disse al Franscini: “Carlo tu devi andare in Sardegna, i sardi sono operosi, obbedienti, è gente onesta”, anche se non sempre è vero, intendiamoci [ride].
Morale: il signor Franscini parla con mio fratello e in primavera, mese di aprile del ‘61 è arrivato al mio paese, a Tula, era prima di Pasqua. Da Tula poi ha fatto una riunione, poi sono andati ad Oscheri [intende Oschiri], che è il paese che ha dato più manodopera alla Monteforno. E da li poi c’e stato tutto l’insieme: Tula, Oscheri, Telti, Pattada.
Quando sono partiti, quel giorno, io facevo l’apprendistato all’Inapli, sono passati a salutarmi e ho sempre presente le parole del Franscini. Siccome da lì a pochi mesi avevo gli esami finali, mi disse: “Antonio, quando hai finito, voglio che tu sia dei nostri alla Monteforno”. Io ho finito gli esami. Quando li finii ero andato a Porto Torres alla petrolchimica perchè avevano chiesto quattro diplomati, solo che né a me né a un altro non ci hanno presi perchè eravamo troppo giovani. Avevo neanche 17 anni. Finito le elementari avevo fatto tre anni di apprendistato alle professionali.
Finiti gli esami, il 15 settembre sono partito dalla Sardegna. Venne mio fratello a Genova a prendermi, il 16 sono arrivato, il pomeriggio ho visitato la Monteforno, mi sono presentato a Franscini e il 17 settembre ho iniziato alla Monteforno».
In questo spezzone di un'intervista durata più di due ore si intrecciano molti motivi narrativi, in un'alternanza continua tra il piano informativo e quello dell'interpretazione soggettiva, tra
racconto dei fatti e racconto di una vicenda rivista in luce quasi mitica.
Da una parte troviamo la precisa ricostruzione dello sviluppo di una catena migratoria che ha come anello terminale la Monteforno: le sorelle – già in Svizzera, impegnate in un lavoro di cura
presso un ospedale – incontrano casualmente la moglie del capo del personale che inserisce uno dei fratelli, Nicola, alla Monteforno. L'avvio del movimento in direzione dell'acciaieria inizia –
nella ricostruzione di A. D. – in ambito familiare, ma poi da lì si propaga all'esterno, fino a coinvolgere, più in generale, i sardi, che vengono ingaggiati attraverso vere e proprie
campagne di reclutamento nell'isola da parte del capo del personale dell'acciaieria.
La spiegazione dell'avvio di questa particolare ondata migratoria si basa sulle conseguenze di un incontro fortuito, ma come può il caso giustificare i sacrifici imposti da una vita di emigrazione?
Ecco allora entrare in campo il «mito fondativo» che in qualche modo orienta il racconto di A. D., dandogli una direzione, un senso. Il direttore della fabbrica, l'ingegner Morini, italiano di
origine, ha comandato una brigata di sardi nell'esercito, ne conosce l'operosità, il valore: così la presenza di Nicola, primo sardo a lavorare alla Monteforno e fratello dell'intervistato, diviene
lo spunto per ingaggiare altri abitanti dell'isola.
Difficile pensare che lo sviluppo straordinario della comunità sarda della Monteforno, giunta a contare circa 300 operai su un migliaio di lavoratori in totale, sia legato solamente a una
preferenza sentimentale del direttore, ma è certo che questo mito fondativo (tra l'altro largamente diffuso tra i lavoratori sardi intervistati e ripreso anche da molti ex dirigenti della
fabbrica) funziona come elemento esplicativo, dando in qualche modo senso anche alla scelta di partire per la Svizzera dello stesso A. D..
Una scelta difficile, una ferita che può essere in parte lenita presupponendo qualche forma di predestinazione all'opera, che avrebbe di fatto reso impossibile qualsiasi altra scelta, un
destino che guida i passi di A. D., ancora giovanissimo e appena uscito dalla scuola professionale. È il senso della frase che Carlo Franscini, durante il suo soggiorno sull'isola, gli avrebbe
detto: «voglio che tu sia dei nostri alla Monteforno», una volontà alla quale non ci si può opporre, soprattutto se la propria famiglia è quasi tutta già emigrata in Svizzera.
E’ in fabbrica, in mezzo a lavoratori per lo più di origine italiana, che ci si sente meno stranieri, o almeno ci si sente parte di qualcosa. Di
fronte ai frequenti episodi di intolleranza nei confronti degli immigrati italiani (non erano rare – secondo gli stessi racconti degli intervistati – le risse nei locali) si mette avanti il lavoro,
il proprio essere «utili» alla creazione della ricchezza del Paese ospitante, reclamando in questo modo un pezzetto almeno di legittimità. È quanto emerge dal racconto di C. R., un altro dei
lavoratori intervistati, nato nel 1944 ad Aquilonia, in provincia di Avellino, alla Monteforno per 34 anni:
«[...] perché la Svizzera deve pensare che l'abbiamo fatta noi, che i svizzeri tengano in considerazione gli italiani, che siamo venuti qua, che li abbiamo fatti cambiare. Perché se tu adesso vai per Biasca il vero svizzero dice “dobbiamo dire grazie agli italiani”. E c'è quelli che ci guarda ancora male, che po' allora adesso stanno guardando gli emigranti che stanno arrivando dopo di noi e noi. Questi li devono mantenere, noi siamo venuti qui con il contratto di lavoro perché la frontiera non passavi senza contratto».
È ancora più esplicito D. D., lavoratore di origini campane, per 30 anni in acciaieria, che rispondendo alla domanda «che cos'era la Monteforno per lei» spiega:
«È stata tutto per me, l'inizio della mia seconda patria[15], lì sono cresciuto, sono diventato uomo, mi ha dato e ho dato, magari se potevi lavoravi anche la domenica... Dopo il primo impatto non averi lasciato per nessun motivo, ti entra nel sangue, sarei stato lì a lavorare».
Il lavoro rappresenta per gli operai immigrati della Monteforno, il centro della propria vita: dal punto di vista materiale, visto che in acciaieria a
volte ci stavano per sedici ore di fila (si lavorava anche la notte su tre turni), ma anche in un'accezione più generale. Sul lavoro si tessevano reti sociali tra colleghi che condividevano lo
stesso destino, la fabbrica era una specie di piccola patria all'estero, più accogliente del Paese d'immigrazione e ognuno identificava il proprio destino con il futuro della fabbrica.
A questa dichiarazione d'amore per l'acciaieria fa da contraltare la sensazione di tradimento indotta dalla sua chiusura, che rivela a D. D. quanto gli svizzeri considerino i lavoratori italiani
sempre degli «stranieri», nonostante i lunghi anni passati in Ticino e il ruolo avuto nel suo sviluppo economico:
«E un'altra cosa che sono rimasto [male] dopo la chiusura della Monteforno è stata un po’ la freddezza proprio, quasi del cantone in sé.
[…]
E un altro shock l'ho ricevuto dall'autorità. Quando Dick Marty [allora a capo del Consiglio di Stato ticinese] che ha fatto una riunione, che ha detto: “Guarda, eh, ormai cosa volete? Il 95% [dei lavoratori Monteforno] sono stranieri...”, come dire “vanno via gli stranieri, per gli svizzeri c'é posto...”. Da una persona di governo non... Lì è stato veramente uno shock. Ho subìto qualcosa, dico, “mah”, non l'avrei aspettato.
Si è sentito tradito sia dalla gente che viveva qui... Un po’ sì, perché a pensare a quello che si è dato in questa valle, in questi paesi dove veramente come dicevo prima, tutte le persone scappano...»
Dopo la chiusura della fabbrica, avvenuta ufficialmente il 31 dicembre 1994, la situazione dei quasi 300 operai che erano sopravvissuti ai
licenziamenti degli anni '80 è difficile: il Canton Ticino diede vita a un progetto di ricollocamento professionale, ma molti lavoratori – l'età media in fabbrica era allora tra i 40 e i 50 anni –
ebbero molte difficoltà a trovare nuove strade: erano degli straordinari specialisti nel proprio campo, ma questa bravura era anche la loro debolezza, dal momento che in Ticino non vi erano
acciaierie delle dimensioni della Monteforno.
Dopo un periodo di depressione seguito alla perdita del lavoro, C. R. decise di accettare l'offerta di una ditta della zona, anche se guadagnava meno di prima:
«Sono stato contento andare piuttosto a lavorare, mi sono tenuto nel campo del lavoro ancora, senza arrivare... anche se il guadagno era quello che era, però sono contento».
Una contentezza mitigata da uno sguardo retrospettivo sulla propria vita che lascia aperta la porta al rimpianto, espresso in questo dialogo soltanto immaginato con l'uomo della strada, colpito dalle paghe, piuttosto alte per i tempi, ricevute dai lavoratori Monteforno, spesso oggetto di discussioni da bar:
«“Ma tu devi pensare che – dico – io ho fatto 35 anni alle nove e mezza andare a lavorare, eh, alla sera, eh! Certamente che ho pigliato più di te, ma tu devi anche guardare la vita che ho fatto io. [...] Ma lì però bisogna vedere che facevamo più noi che l'orologio le ore lì. Quello poi non lo guardate voi?”. Io guardavo su di me, io non ho avuto la mia giovinezza, il divertimento, io ho fatto una vita dentro lì, nel fumo, nella polvere...»
Alla domanda sulle motivazioni che lo hanno spinto all'emigrazione, C. R. ci offre uno spunto di riflessione importante, perché accanto alla spiegazione economica – che si potrebbe definire classica – l'ex operaio introduce un elemento ulteriore di comprensione:
«Come ha deciso di partire per la Svizzera? Mah, praticamente noi quel periodo lì ci siamo tirati dietro un po' uno con l'altro, no, tra amici, così, perché io avrei anche potuto star lì, per esempio avevamo un'azienda agricola, non è che avevamo proprio bisogno di venire qua.
Guadagno con l'agricoltura c'era pochissimo... Stavamo bene, c'avevamo tutto, però... la vita dell'agricoltura era quella, era dura. Io volevo che... vedere un altro sistema di lavoro, che si guadagnava qualcosa in più, che lì non ci mancava niente, però come giovane, non c'era possibilità di divertimento, si lavorava... si sa bene l'agricoltura com'era».
Si parte anche perché si è giovani, spinti dalla ventata del boom economico che fa intravedere nuove possibilità e più agiatezza; poi c'è lo spirito di avventura e, in qualche modo, il rigetto
degli stili di vita dei genitori, ancora legati alla terra.
La vicenda dell'arrivo di C. R. alla Monteforno nel 1961 è interessante, perché, ancora una volta, ci permette di cogliere lo sviluppo di una catena migratoria, di cui lo stesso lavoratore è stato
l'iniziatore:
«Io era partito dal mio paese con contratto di lavoro che doveva andare a Losanna. [...] Sono sceso a Milano, ho trovato due del paese, così, amici. Dice: “Noi andiamo a Bodio”, Bodio non sapeva neanche dov'era [ride] e là dovevamo prendere il treno per Losanna assieme a un altro.»
L'emigrante aveva già in mano un contratto per lavorare nel campo dell'agricoltura in Svizzera francese, procuratogli da un amico e il viaggio era stato pagato dalla Camera del Lavoro di Avellino. Ma a Losanna, C. R. non ci arrivò mai.
«“E così – dice – fermatevi a Bodio – dice – eh, ce ne sono tanti del nostro paese lì!”. [...] E per dire, mi sono fermato qui la sera, quando sono arrivato qui mi sono un po' spaventato, ero in mezzo alle montagne [ride]. “Caspita, veramente – ho detto – ma qui dove sono?”»
Il giorno dopo C. R. e il suo compagno di viaggio sono davanti ai cancelli della Monteforno a chiedere di poter lavorare: in quel periodo di grande espansione produttiva l'acciaieria aveva bisogno di lavoratori, anche perché il turn over era altissimo, dal momento che tantissimi lavoratori non resistevano più di qualche mese, alcuni addirittura non più di qualche giorno, a causa della pesantezza del lavoro.
«Però loro [i dirigenti], visto che noi eravamo della bassa Italia, non conoscendo le fabbriche e tutte quelle cose lì, non è che ci pigliavano volentieri a lavorare. Erano i primi che arrivavamo qua negli anni '60 dalla bassa Italia».
Ma i due insistono e finalmente riescono a ottenere un posto in acciaieria e a quel punto si pone il problema di fare arrivare in Ticino il resto della famiglia. La prima ad arrivare, nel 1962, è una sorella non ancora maggiorenne:
«Non era sposato. Mi sono portato una sorella che aveva 14-15 anni a dire “almeno mi prepara un piatto di pasta asciutta”, perché allora non è che potevi andare in un ristorante...»
Qualche mese dopo la sorella trova lavoro in un'impresa di abbigliamento della zona e C. R. propone ai suoi genitori di lasciare l'azienda agricola al paese e di raggiungerlo in Svizzera, ciò che avviene nel 1963. In Italia, affidati ai nonni, restano due fratelli piccoli ancora in età scolastica che si ricongiungeranno con il resto della famiglia qualche tempo dopo. Il lavoratore della Monteforno diventa il vertice di una catena migratoria che si allarga anche ai cugini:
«Tutti poi li ho portati qua. E mi ricordo quando siamo partiti dal paese amo fatto un pullman solo dalla nostra famiglia, dal paese alla stazione, eravamo 20 persone, tutte della stessa famiglia»
Ma il ruolo di capofamiglia assunto da C. R. non sempre viene riconosciuto dai fratelli ai quali ha aperto la strada dell'emigrazione:
«Qualcuno può anche non, come si dice, non tiene neanche in considerazione questo perché adesso le cose vanno troppo bene, capito, e allora... “Mica dobbiamo tenerti obblighi a te perché ci hai fatto...”, […]. Però io gli faccio sempre la battuta. “Eh – dice – se non erano qua erano lì”, loro dicono così, però Celentano dice: “Sono qua ma sono lì” [ride]. “Però siete qua adesso, perché se non venivo io qua, non eravate qua”. E siamo tanti, tanti, tanti».
L'arrivo dei fratelli piccoli di C. R. dà luogo a uno spiacevole episodio, che da solo rende bene l'atmosfera di rifiuto in cui gli immigrati italiani erano costretti a vivere.
«E così ho portato qui la mia famiglia che poi i miei fratelli e le mie sorelle, quando sono andato a prenderli non potevano stare qua perchè mio papà non aveva ancora raggiunto il momento di poter tenere qua la famiglia. Però allora sai era tutto... Però se pescavano che uno teneva la famiglia, ti mandavano via...
[…]
Neanche a farlo apposta uno che abitava in casa dove ero io, conosceva tutte la mia situazione perchè lavorava in ufficio lì alla Monteforno... Sai, non ci potevano tanto vedere, perchè noi allora eravamo un po' mal visti dagli svizzeri qua, questo era uno svizzero... Ha rapportato alla polizia, la polizia è venuta a controllare, tutte queste storie qua e mio fratello, mia sorella e mia mamma dovevano andarsene via. E’ stata una tragedia un po'. Allora dopo io alla fine cosa ho fatto: mi sono messo in mezzo il prete di Bodio, che conoscevo, era bravissimo, Don Emilio... veramente abbiamo fatto figurare che noi tutta la famiglia eravamo qua, mio fratello, mia sorella e mia mamma, qui abbiamo fatto una lista di tutti perchè poi allora era già cominciato a venire mio zio, arrivava qui tanti, abbiamo fatto una lista di tutti questi parenti e amici, che mio fratello non potevano stare in Italia, abbiamo fatto una domanda direttamente alla polizia, al comando di polizia di Lugano, sempre tramite questo Don Emilio, e così ci hanno concesso un permesso speciale... cioè, poi sono venuti a vedere anche le condizioni dove si abitava, perchè poi questo qua gli aveva raccontato un po' a modo suo le cose, così, sai, per venire un po' incontro a noi, perchè a noi ci guardavano male queste persone, sai quei patrizi patrizi... nei paesi qui allora era così».
Costantemente nel mirino della popolazione locale che non vedeva di buon occhio gli stranieri, sotto esame perfino in fabbrica (in questo caso il delatore è un impiegato ticinese della Monteforno) gli immigrati italiani gettano però generalmente uno sguardo retrospettivo pieno di comprensione sul Paese che li ha accolti e sono molto restii a parlare decisamente di xenofobia e discriminazione nei loro confronti. Per questo la testimonianza di C. R. è interessante e apre a una spiegazione quantomeno inaspettata dei motivi di questa ostilità:
«Ci guardavano male proprio anche perchè eravamo dalla bassa Italia, loro ci guardavano un po' come adesso guardano gli albanesi. Qui, specialmente nel Canton Ticino, ma dappertutto, perchè se guardi indietro allora alla Svizzera tedesca, Zurigo, hanno fatto le votazioni per cacciare gli stranieri.
Allora sai, ci guardavano un po' male... Io ricordo che noi andavamo a Malvaglia a ballare. Noi dall'Italia si vestiva cravatta, vestitino, sai, bene, ci si presentava lì, le ragazze ballavano con noi, non con loro che andavano con gli zoccoli di legno, che cazzo vuoi ballare? E lì le botte... E lì non ci potevano vedere perchè loro non potevano arrivare, no perchè erano più intelligenti [intende qui "meno intelligenti"] era un sistema di vita, quello è. Noi alla domenica andavamo al ristorante, ma vestiti. Loro la tuta - come la chiamano? [chiede alla moglie] – Salopette [risponde lei] – quella era la domenica, quella era il giorno di Natale e quella era in settimana».
E la battaglia per le donne con i maschi locali è un tema sotterraneo che spesso ritorna nei racconti dei lavoratori Monteforno, una spiegazione dell'ostilità nei loro confronti e degli
altri immigrati certamente da prendere in considerazione.
Giovani, scapoli, lontani da casa e soli: i lavoratori italiani della Monteforno agli occhi dei giovani locali rappresentavano anche una fastidiosa concorrenza in campo sessuale[16] e le feste da ballo – numerose a quei tempi secondo tutte le testimonianze raccolte – non potevano certo essere chiuse agli immigrati. Non c'è
quindi da stupirsi se proprio questi luoghi diventassero scenario di incontri ma anche di scontri. E questa energia repressa non è probabilmente estranea allo scoppio dell'ondata di lotte che
travolse, a partire dal 1970, anche la Monteforno: secondo Diego Giachetti, che ha studiato le dinamiche all'origine dell'autunno caldo a Torino (i cui principali protagonisti sono giovani operai
meridionali), per molto tempo si è cercato di spiegare questo periodo di intense lotte operaie soltanto prendendo in considerazione la fabbrica, dimenticando il contesto sociale nel quale questi
lavoratori erano inseriti.
A partire dalla metà degli anni '60 in Svizzera la presa dei movimenti xenofobi era diventata forte ed era culminata, nel 1970, nell'iniziativa popolare di James Schwarzenbach contro
l'überfremdung o inforestierimento, che chiedeva di ridurre in tutti i cantoni della confederazione il numero massimo degli immigrati al di sotto del 10% della popolazione totale,
cosa che avrebbe significato l'espulsione dalla Svizzera di circa 300.000 stranieri. Il 7 giugno del 1970 la maggioranza dei cantoni e il 54% dei votanti respinsero l’iniziativa, una
percentuale che dimostra quanto la consultazione sia stata sul filo del rasoio e quanto gli immigrati fossero soltanto tollerati nel Paese.
Ecco allora che fattori quali la voglia di vivere una sessualità più libera e la discriminazione vissuta ogni giorno sulla propria pelle diventarono altrettante spinte all'azione, alla
rivendicazione di maggiori diritti nella fabbrica e anche all'esterno e il conflitto divenne una forma di risposta a una situazione di disagio[17].
Con la stessa naturalezza con la quale ci parla della bravura e dell'umanità dei dirigenti dell'azienda, A. D. ci spiega come negli anni '70 abbia partecipato da protagonista alle battaglie
sindacali per l'ottenimento di condizioni economiche più dignitose.
«[...] poi nel '70 ero supplente alla commissione di fabbrica, per cui ho partecipato a tutte quelle trattative, quando ci fu la richiesta di un franco di aumento, primo sciopero alla Monteforno. E lì fummo proprio noi sardi che si fece un incontro [...], perchè bisogna fare qualcosa, la differenza tra Svizzera interna e qua era del 35-40% in certi lavori come il nostro. Noi non è che... per il tipo di lavoro e il pericolo non eravamo retribuiti come si deve. Mi ricordo sempre che avevamo convocato i due sindacalisti Naldo Pedroni Ocst e Alfredo Bernasconi della Fomo allora, e in più ci furono una trentina di dipendenti. Fu fatta questa proposta di un franco d'aumento. Perchè ai tempi, quando si parlava di aumenti, si parlava di adeguamenti di 2-3, quando era molto 5 centesimi all'ora, questo nel '70. Ci fu la prima proposta, ma non è che subito si fece lo sciopero. Si fece quando rifiutarono la proposta, e ci offrirono 40 franchi al mese e allora ci fu la serrata, ci siamo fermati, tutti indistintamente, fu una cosa spontanea».
Quei sardi che per il direttore dell'azienda, tra le tante qualità, avevano soprattutto quella di essere «obbedienti», si trovarono alla testa di un movimento di protesta che fece tanto più
discutere in quanto fin dal 1937 in Svizzera vigeva la pace del lavoro che vietava il ricorso allo sciopero come strumento di lotta dei lavoratori. Con questa battaglia, terminata con una
vittoria dei lavoratori, l'acciaieria si inserì in un ciclo di lotte operaie nel settore industriale che si stava aprendo in tutta la Svizzera. Probabilmente alla Monteforno arrivarono, anche se
mitigati dalla diversa tradizione sindacale svizzera, le influenze dell'autunno caldo italiano. Anche il Ticino aveva avuto il suo '68: la ventata di contestazione aveva fatto nascere a sinistra
del Partito socialista numerose formazioni radicali che cercarono di entrare in contatto con i lavoratori più coscienti dell'acciaieria di Bodio, alcuni dei quali avevano mantenuto legami con il
Pci, al quale erano iscritti prima di arrivare in Svizzera.
A detta degli stessi lavoratori l'ondata di lotte apertasi in acciaieria, oltre a rappresentare la ripresa delle lotte operaie in Ticino, portò a un sostanziale rinnovamento dei sindacati e del
loro modo di operare. Curiosamente gli operai più impegnati sindacalmente in fabbrica, tra cui c'erano naturalmente i sardi, decisero di aderire all'Ocst, il sindacato di ispirazione cattolica,
considerando la Fomo, parte dell'Unione sindacale svizzera, vicina al Partito socialista svizzero, non abbastanza radicale. Una scelta che si spiega probabilmente con il diverso atteggiamento
assunto, a partire dalla metà degli anni '60, dal sindacato di matrice cattolica nei confronti dei lavoratori immigrati, con la decisione di sostenerne le rivendicazioni[18]. La Fomo, invece, dimostrò minore apertura e, anzi, mantenne un atteggiamento di forte diffidenza nei confronti della manodopera straniera,
mostrando tutta l'ambiguità della sua posizione proprio nel 1970, in occasione dell'iniziativa Schwarzenbach: allora la presa di posizione per il «no» dell'Unione sindacale svizzera giunse tardiva
e priva della necessaria convinzione.
Altro aspetto curioso di questo periodo di lotte sindacali accese in fabbrica è il ruolo riconosciuto unanimemente alla comunità sarda: non a caso oggi uno dei protagonisti di quel periodo alla
Monteforno è divenuto vicesegretario cantonale dell'Ocst. Il protagonismo di questi lavoratori viene spesso spiegato attraverso il ricorso a caratteristiche particolari del carattere del sardo,
come fa anche A. D.:
«[...] il sardo - è risaputo - è incline ad ambientarsi, ad assuefarsi. Non vuol dire che piega la testa, anzi: il sardo di per sé è testardo. Però è capace di valutare quando ha ragione e quando ha torto. Se ha ragione, si fa spaccare la testa, ma porta avanti la sua idea».
Una definizione della sardità ambivalente: il sardo da una parte sarebbe facile ad «assuefarsi», ma dall'altra sempre pronto alla ribellione contro l'ingiustizia. Siamo di fronte, in questo caso, a un meccanismo di appropriazione da parte del soggetto del luogo comune di cui spesso è egli stesso vittima. Luogo comune che può avere funzione conservativa (il sardo operoso e obbediente amato dal direttore della fabbrica) o fare da sostegno, al contrario, a un atteggiamento battagliero e conflittuale. Al di là di queste interpretazioni basate su elementi caratteriali supposti come innati, che sono interessanti da studiare perché assumono evidentemente un ruolo nella costruzione dell'identità migrante, le motivazioni del protagonismo della comunità sarda sono probabilmente da collegare alla reale condizione materiale nella quale questi giovani operai, scapoli, discriminati e molto lontani da casa, vivevano. Ma d'altra parte l'idea di sé veicolata da questo tipo di luoghi comuni può aver avuto un ruolo nel sostenere una lotta difficile in un contesto ostile, dandole tra l'altro caratteristiche di insolita durezza.
Note
[1] Sullo sviluppo economico del Canton Ticino nel secondo dopoguerra cfr. S. Toppi, La crescita economica (1945-1975): la ricerca di aperture e l’avvento del terziario, in: Ceschi R. (ed.), Storia del Cantone Ticino. Il Novecento, Bellinzona, Stato del Cantone Ticino, 1998, 615-640.
[2] Sulla storia della Cobianchi esiste un bel libro basato interamente sulle testimonianze dei lavoratori: F. Colombara, Uomini di ferriera. Esperienze operaie alla Cobianchi di Omegna, Omegna, Comunità montana Cusio Mottarone, 1999.
[3] M. Hanagan, Labor history and the new migration history: a review essay, «International labor and working-class history», 54 (1998), 59.
[4] ibid.
[5] M. Tirabassi, Transnazionalismo, diaspora, generazioni e migrazioni italiane, in: M. Tirabassi (ed.), Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, 2005, 3.
[6] A. Thomson, Moving stories: oral history and migration studies, «Oral History», Spring (1999), 27.
[7] P. Thompson, The voice of the past: oral history, Oxford, Oxford University Press, Third Edition, 2000, 115.
[8] Sullo sviluppo della storia orale in Italia cfr. C. Bermani, Le origini e il presente. Fonti orali e ricerca storica in Italia», in: C. Bermani (ed.), Introduzione alla storia orale, Roma, Odradek, Vol. I, 1999.
[9] Thompson, The voice of the past: oral history, cit., 91.
[10] Espressione coniata da Walter J. Ong per descrivere i popoli che non hanno conosciuto la scrittura. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 2004.
[11] A. Portelli, Biografia di una città, Torino, Einaudi, 1985, 5.
[12] Ivi, 18.
[13] I dati aggiornati e commentati sull’immigrazione in Svizzera nel secondo dopoguerra si possono trovare in: E. Piguet, L’immigration en Suisse depuis 1948: une analyse des flux migratoires, Zürich, Seismo, 2005.
[14] P. Bourdieu, Comprendre, in: P. Bourdieu (ed.), La misère du monde, Paris, Editions du Seuil, 1993, 1407.
[15] Il corsivo è mio.
[16] La concorrenza pare essere stata – secondo le testimonianze – minore in campo lavorativo, dal momento che i giovani del posto non andavano volentieri a lavorare in acciaieria (situazione che cambierà con la crisi economica degli anni '70). Nonostante questo, il tema propagandistico classico «gli italiani ci rubano il lavoro» alla base del messaggio politico xenofobo era piuttosto diffuso anche in Ticino.
[17] Queste riflessioni mi sono giunte dallo stesso Diego Giachetti in risposta a una mia domanda posta durante il convegno «Protesta sociale e violenza politica in Italia e nella Germania federale negli anni '60 e '70 del Novecento», Convegno italo-tedesco organizzato dal Centro per gli studi italo-germanici di Trento, svoltosi l'8-9 maggio 2008 a Trento. Sull'argomento cfr. D. Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, BFS Edizioni, 2002.
[18] Su questo cfr. M. Bartolo, Renitenti, sindacalisti o sovversivi? Gli immigrati italiani nel Canton Ticino (1945-1970), Friborgo, Università di Friborgo, Facoltà di lettere, 2004.