Il rapporto tra migrazioni e mondo del lavoro è stato, nel corso degli ultimi decenni, declinato secondo le sensibilità dei diversi interpreti (storici, antropologi, sociologi) che si sono occupati
degli spostamenti delle popolazioni. Dopo molti anni nei quali a dominare era stata la cosiddetta teoria del push and pull, l’idea secondo la quale esisterebbero zone del mondo
interdipendenti che espellerebbero manodopera da un lato e la richiederebbero dall’altro, l’intervento degli studiosi delle scienze sociali ha determinato un netto mutamento di posizioni. Gli
spostamenti delle popolazioni sono oggi principalmente studiati attraverso l’analisi delle cosiddette reti migratorie, network transnazionali di persone provenienti dallo stesso luogo
d’origine e residenti temporaneamente o definitivamente in più regioni del pianeta. Le nuove correnti storiografiche hanno, così, analizzato le migrazioni nel lungo periodo, senza porre enfasi
eccessiva sulle congiunture demografiche, ma considerando la mobilità elemento talora imprescindibile per lo svolgimento di alcune professioni. Tale approccio sembra restituire ai migranti una
maggiore soggettività, considerando le storie di vita e le vicende familiari come parte fondamentale della storia delle migrazioni[1].
L’accentuazione posta sulle reti e sulla cultura della mobilità, nelle migrazioni italiane come in altre, porta in sé, tuttavia, il rischio di un passaggio da un’impostazione vagamente
determinista, la teoria del push and pull, ad una valutazione impressionistica, fondata su una pluralità di esperienze individuali, nelle quali rischiano di essere trascurate le enormi
trasformazioni strutturali che l’allargamento dei mercati e le rivoluzioni industriali hanno comportato e comportano nelle società, nelle culture e nelle mentalità dei soggetti coinvolti. E’ per
questo ancora necessario interrogarsi sulle ragioni di fondo delle partenze, avendo cura di considerare le scelte dei migranti come opzioni non calate in un contenitore vuoto, nel quale le
strategie si sarebbero semplicemente dipanate secondo le volontà degli individui, ma inserite all’interno delle maglie talora imposte dalle modificazioni dell’economia alle classi rurali,
artigiane, operaie ed oggi anche ai nuovi migranti intellettuali. Un’interpretazione di questo tipo rende possibile un confronto tra le migrazioni storiche e quelle contemporanee, che evidenzi
tanto la continuità di alcuni spostamenti, quanto le profonde modificazioni legate alla globalizzazione dei mercati[2].
In un’analisi dei rapporti tra migrazioni e lavoro, una particolare attenzione deve, certamente, essere prestata al tema, particolarmente attuale, della riduzione della differenza tra mobilità
spontanee e volontarie e trasferimenti coatti e involontari. La difficile gestione delle migrazioni da parte degli Stati nazionali, ancora oggi quasi esclusivi gestori del potere in questo settore,
ha riportato, infatti, all’ordine del giorno forme di coercizione che hanno spesso fatto parlare di una nuova tratta degli schiavi, gestita dalle centrali della criminalità organizzata. Forme di
migrazioni che potrebbero essere definite coatte (dagli spostamenti degli schiavi in età classica alla famigerata tratta atlantica sino ai movimenti dei coolies asiatici tra il XIX ed il
XX secolo) hanno in realtà accompagnato quelle volontarie in ogni periodo storico, pur differenziandosi nelle modalità, nelle forme e nelle percezioni che di esse si aveva nelle diverse epoche.
Il tema del rapporto tra migrazioni e lavoro può essere analizzato anche dal punto di vista delle società d’arrivo dei migranti. L’afflusso di lavoratori stranieri ha, infatti, profondamente
condizionato le economie di numerosi paesi, mantenendo in vita mestieri ed attività tradizionali altrimenti destinati a sparire, nell’agricoltura come nel terziario, ma anche fungendo da volano per
processi di industrializzazione che, senza la presenza immigrata, non avrebbero potuto realizzarsi o lo avrebbero fatto in maniera decisamente differente. L’importanza dei flussi migratori nello
sviluppo dei mercati e nel mantenimento degli standard produttivi ha fortemente influenzato l’atteggiamento nei confronti dei migranti, negli stati europei come in quelli extraeuropei. I governi
hanno mantenuto, in molti casi, una politica di sostanziale laissez faire nei confronti delle correnti migratorie. In talune circostanze storiche, tuttavia, specialmente nel corso del
secolo XX, si è assistito ad un processo di legiferazione sulla materia migratoria, segnale di una volontà regolatrice da parte degli stati, spesso dettata dalle congiunture economiche. La volontà
di controllare le migrazioni, spinta talora fino all’utopica e populista idea di paesi-fortezza nei quali l’accesso ai lavoratori stranieri sarebbe interdetto, ha accompagnato ed accompagna ancora
oggi gli spostamenti di popolazioni. Appare dunque necessario continuare ad interrogarsi sulle ragioni di un interventismo statale che appare in crescita, persino in una fase, come quella odierna,
da molti considerata come l’epoca della fine degli Stati nazionali. Accanto ad una lettura più classica, secondo la quale l’atteggiamento degli stati sembrerebbe rispondere ad un protezionismo
della manodopera nazionale, per motivi politici ed elettorali, quando non per ragioni di aperta xenofobia, altre ipotesi possono essere avanzate. I processi migratori, infatti, sembrano per la loro
stessa natura rimettere in discussione l’autorità ed il potere dello Stato-nazione. La capacità dei migranti di attraversare le frontiere, talora definitivamente, ma spesso anche per periodi brevi
quando non addirittura con forme di pendolarismo, e la loro difficile assimilazione alle culture nazionali rappresentano per lo Stato-nazione una continua sfida alla quale le uniche risposte
possibili sembrano essere tentativi di regolamentazione e controllo di difficile attuazione[3].
La presenza dei migranti nelle società d’arrivo non può tuttavia essere considerata solamente alla luce del loro rapporto con gli stati. Particolare rilievo ha assunto, in numerosi studi, l’analisi
del rapporto tra i lavoratori autoctoni e la manodopera immigrata: la gamma delle reazioni dei primi è apparsa ampia e diversificata, con oscillazioni assai significative tra solidarietà,
diffidenza e aperta xenofobia. Fenomeni di violenza nei confronti degli stranieri, quando non veri e propri pogrom, hanno attraversato la storia di molti paesi europei ed extraeuropei,
talora anticipando o accompagnando le persecuzioni di minoranze nazionali e politiche. Nello stesso tempo, in tutti i paesi coinvolti nei processi migratori, sì è assistito a momenti di
socializzazione nei luoghi di lavoro e in luoghi informali (osterie, bar, piste sportive), dove la coscienza di classe o la semplice solidarietà umana hanno avuto il sopravvento sulle differenze
nazionali. A partire dal secolo XIX, un ruolo sempre maggiore nella complessa gestione dei rapporti tra lavoratori è stato assunto, in molti paesi, dalle organizzazioni sindacali, che si sono
attribuite il compito di regolare il conflitto interno alle classi sociali coinvolte e di integrare, attraverso il lavoro, i migranti alle società dei paesi d’arrivo. Gli stessi lavoratori
stranieri hanno interpretato la propria sindacalizzazione in maniera duplice: come strumento di difesa nei confronti della classe imprenditoriale, ma anche come processo che nel lungo periodo
avrebbe potuto favorire la loro integrazione.
Le nuove interpretazioni storiografiche hanno prodotto, nel corso degli ultimi anni, anche un differente orientamento nei confronti delle fonti utilizzate. Fonti orali, lettere, canzoni, fotografie
sono divenute sempre più oggetto dell’attenzione degli studiosi, mentre strumenti più tradizionali, come le statistiche, sono stati talora messi in discussione per la loro evidente difficoltà ad
inquadrare il fenomeno da un punto di vista qualitativo e per il rischio di imprecisione dal punto di vista quantitativo. La proliferazione delle fonti soggettive, che meglio possono descrivere
l’atteggiamento dei migranti, ha rappresentato un significativo passo avanti nell’analisi dei fenomeni migratori. Le fonti archivistiche tradizionali e le stesse statistiche rimangono, tuttavia,
strumenti imprescindibili nell’analisi dell’atteggiamento delle istituzioni politiche, economiche e sociali nei confronti dei migranti. Una riflessione sulle fonti da utilizzare nell’analisi dei
movimenti migratori sembra, quindi, ancora necessaria, nella convinzione che nessuno strumento d’indagine debba essere escluso aprioristicamente[4].
Il rapporto migrazioni/lavoro può, infine, essere analizzato anche dal punto di vista della propria rappresentazione. Numerose sono, infatti, le forme attraverso le quali, in Italia come nel resto
del mondo, le migrazioni storiche e le migrazioni contemporanee sono narrate ed interpretate. Dal cinema alla televisione, dalla letteratura alla musica, i migranti sembrano avere conquistato un
importante spazio nell’immaginario collettivo, come protagonisti o, più spesso, come semplici interpreti. Accanto alle celebrazioni da parte dei migranti delle proprie vicende individuali o
collettive, la società contemporanea osserva una moltiplicazione di scritti, film e produzioni artistiche varie delle cosiddette seconde generazioni, attente a raccontare con minore enfasi e con
maggiore criticità, ma non per questo necessariamente con maggiore oggettività, le vicende della propria famiglia o della propria comunità all’estero. Non sono solamente i migranti e i loro eredi,
tuttavia, a rappresentare la propria storia. In molti paesi si è assistito, in parte proprio per la presenza di un pubblico di seconde e terze generazioni, alla creazione di un vero e proprio
spazio di mercato per i prodotti legati alle migrazioni. A favorire tale fenomeno è, principalmente, la sempre crescente rilevanza della questione migratoria nell’agone politico tanto delle società
d’arrivo, quanto di quelle di partenza. Si tratta di un uso dell’immaginario collettivo che merita un’attenzione particolare, poiché esso conduce ad un uso pubblico della storia, particolarmente
insidioso nel caso delle migrazioni. Così, nel dibattito pubblico, tanto tra i sostenitori dell’integrazione degli stranieri, quanto tra i propugnatori della chiusura dei confini nazionali, si
assiste sempre più alla riduzione della figura del migrante a quella di lavoratore, quasi si trattasse di un individuo ad una sola dimensione. Tale rappresentazione, funzionale alle necessità delle
economie dei paesi di arrivo, sembra tuttavia insufficiente ed è spesso mal tollerata dagli stessi migranti che, correttamente, aspirano ad assegnare al lavoro un ruolo centrale ma non esaustivo
nella definizione della propria identità[5].
E’ intenzione di questo dossier affrontare ciascuno di questi argomenti con saggi introduttivi e di approfondimento, con interviste e testimonianze, attraverso interventi di studiosi di diversi
periodi storici e di differenti materie, nella convinzione, ormai largamente condivisa, che solo in questo modo sia possibile rendere conto della complessità del fenomeno migratorio e del suo
rapporto con il mondo del lavoro.
Note
[1] Numerose sono state le analisi storiche che hanno affrontato alcuni casi migratori secondo tale chiave di lettura. Per una sintesi complessiva sulla storia dei movimenti migratori cfr. P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2003. Per una discussione su alcune recenti indicazioni storiografiche sulle migrazioni italiane cfr. anche M. Tirabassi (ed.), Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, 2005.
[2] Cfr. G. Gozzini, Le migrazioni di ieri e di oggi. Una storia comparata, Milano, Bruno Mondadori, 2005.
[3] Riflessioni particolarmente significative sulla crescita del ruolo dello Stato-nazione nel processo migratorio sono quelle di Gérard Noiriel, cfr. G. Noiriel, État, nation et immigration. Vers une histoire du pouvoir, Paris, Gallimard, 2001.
[4] Alcuni saggi concernenti l’analisi delle nuove fonti per lo studio delle migrazioni italiane e sulla storia dell’utilizzo della statistica da parte dello Stato italiano per misurare i movimenti migratori sono in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (eds.), Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli, 2001.
[5] Un capitolo sulle rappresentazioni delle migrazioni italiane, particolarmente ricco e di grande spessore, si trova in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (eds.), Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, 613-752. Particolarmente originali e significative sull’immaginario dei migranti appaiono le riflessioni di Abdelmalek Sayad. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002.