La traduzione in italiano del volume di Irme Schaber, Gerta Taro. Fotoreportererin im spanischen Bürgerkrieg. Eine Biografie (Marburg, Jonas Verlag, 1994), va senz’altro accolta con
entusiasmo per svariati motivi, ma soprattutto per la ricchezza dei temi trattati, sempre con attenzione e profondità. Nel ricostruire questa biografia, infatti, l’autrice affronta una serie di
nodi centrali della storia del Novecento, sui quali offre elementi di riflessione, a partire dall’intreccio e dalla tensione tra storia individuale e storia generale. Grazie a un utilizzo sapiente
dell’approccio biografico, Schaber ci mostra come la storia di vita di una donna possa divenire una lente particolare, tramite la quale prendere in esame una serie di questioni divenute visibili
grazie alla scelta di quella prospettiva.
Dal volume si evincono le innumerevoli difficoltà incontrate nel ricostruire un’esistenza femminile, le cui tracce vengono cancellate dalla storia in modo assai più netto di quanto non avvenga per
le vite degli uomini. Questo vale a maggior ragione per le donne vissute in esilio, che per la precarietà delle loro esistenze, ma a volte anche per motivi di sicurezza, difficilmente conservavano
lettere e documenti. Al tempo stesso la biografia di Gerda Taro dimostra come, attraverso un impegno metodico e tenace l’impresa non sia impossibile. Grazie a un enorme lavoro di scavo, Schaber è
riuscita a ricomporre, attraverso piccoli frammenti, un mosaico dal quale, oltre le vicende di Gerda Taro, sono emersi elementi essenziali per comprendere i drammi ma anche gli entusiasmi di
un’epoca dominata dalle tensioni e dagli stravolgimenti destinati a condurre alla tragedia della seconda guerra mondiale.
Le pagine del volume restituiscono il senso di un dialogo intenso e mai scontato dell’autrice con le fonti, nel quale i documenti vengono interrogati utilizzando approcci diversi, senza mai
accontentarsi di risposte univoche. In tal modo è stato possibile ridonare spessore alla vita di una donna, la cui storia e la cui produzione fotografica erano state oscurate, come spesso accade,
dalla figura del suo compagno, il noto fotografo Robert Capa, a causa di una serie di dinamiche che non riguardano solo la tendenza a inglobare i percorsi femminili in quelli di uomini noti, ma
anche, come evidenzia Schaber, gli interessi commerciali perseguiti delle agenzie fotografiche nell’attribuire gli scatti di Taro all’assai più quotato Capa.
I temi che si incrociano con la vita di Gerda Taro sono tanti. Le sue vicende, infatti, gettano luce sulla storia di una parte del mondo ebraico che al principio del Novecento era emigrato in
Germania e sulla diffusione nella società tedesca, specie dopo gli esiti della Grande guerra, di sentimenti antisemiti volti a condizionare sempre più il clima politico e culturale. Ripercorrendo
l’adolescenza di Gerda, Schaber rende possibile assistere al modo in cui la giovane aveva vissuto i pregiudizi e l’esclusione di cui erano oggetto gli ebrei, elaborando una strategia che puntava
all’assimilazione nella società tedesca, facendo un uso calcolato delle proprie capacità, ma anche del proprio fascino e della propria eleganza. Una soluzione che non poteva reggere alle derive dei
primi anni ’30, quando a Lipsia Gerda si trovò a vivere in un contesto politico ulteriormente esacerbato, di cui erano viva espressione le violenze contro gli ebrei. Si tratta di un passaggio
importante, perché mentre il nazionalsocialismo mieteva consensi, Gerda, allora ventenne, cominciò a gravitare nell’orbita della gioventù socialista, sviluppando, senza adeguarsi a forme canoniche
di militanza, sentimenti antifascisti. Attraverso queste vicende Schaber riesce a illuminare un ampio spaccato del mondo giovanile ebraico che, impegnato nella pressante esigenza di difendersi, si
apprestava a ridefinire la propria identità e i propri ideali, elaborando strategie di sopravvivenza coincidenti con progetti politici.
Gerda Taro, che nei mesi seguenti la presa del potere da parte di Hitler si era occupata di attività illegali, era stata costretta, come tanti altri a emigrare a Parigi. Ricostruendo queste vicende
l’autrice ci mostra da una prospettiva particolare un segmento dell’emigrazione antifascista tedesca, indagandone i contesti e puntando l’attenzione sulle dinamiche che regolavano i rapporti tra
uomini e donne. La biografia di Gerda, costretta ad adattarsi, come la maggioranza degli esuli, a soluzioni abitative misere e a lavori improvvisati, permette di comprendere gli stimoli che
animavano una generazioni di antifascisti molto giovani, per i quali l’esilio, sollecitato da motivazioni politiche, poteva rappresentare l’opportunità di proseguire o dare inizio a un percorso o
una carriera professionali. Una generazione per la quale l’emigrazione politica, pur nei durissimi anni ’30, poteva trasformarsi in un’avventura e in un’esperienza conoscitiva che, come nel caso di
Gerda Taro, non mancò di suscitare entusiasmo.
In tutto questo giocò un ruolo importante l’ambito fluido nel quale Gerda poté inserirsi, che l’autrice ha il pregio di mettere puntualmente a fuoco. Un contesto il cui centro erano i caffè
parigini, nei quali scrittori, intellettuali e artisti animavano un mondo composto da giovani e meno giovani, accomunati da un antifascismo non rigidamente definito, che si incontravano e
discutevano di politica, dando vita a trame di rapporti ispirate al cosmopolitismo e all’internazionalismo. In quegli ambiti potevano nascere iniziative comuni, collaborazioni o amicizie dagli
sviluppi imprevedibili. Specie negli anni del Fronte popolare, il fervore politico e culturale doveva infatti agevolare forme proficue di contaminazioni, saldando ancor più vigorosamente l’impegno
politico a quello artistico o intellettuale. Nodi che affrontati ponendo l’accento sulle relazioni di genere, fanno affiorare un mondo femminile a lungo ignorato, ora per disinteresse, ora per
l’incapacità di interpretarne l’agire o gli stessi silenzi. A questo proposito appare efficace la riflessione dell’autrice, che riferendosi all’abitudine delle donne di tacere nel corso delle
riunioni politiche afferma:
«La “compagna moderna” risultava essere una copia sbiadita del compagno di partito, un ruolo tagliato su misura, che non andava bene né a Gerda, né alle sue amiche. Non volevano saperne di questo vestito stretto, lo portavano più che altro come una copertura sotto la quale sperimentavano, con la quale civettavano e che a volte mettevano semplicemente da parte. Il silenzio delle donne rivela non soltanto una partecipazione acritica, come segretarie piene di dedizione e bestie da soma del movimento, ma è un indice, pieno di tensioni, del rifiuto cosciente o incosciente del ruolo assegnato, di un atteggiamento di difesa e, in assoluto, della ricerca portata avanti in una sfera dominata dagli uomini[1]».
Schaber conferma la parte essenziale avuta dalle donne nel conferire stabilità al mondo dell’esilio, tanto segnato dalla miseria e dal senso di precarietà. Ci mostra come grazie alla loro
duttilità, le emigrate sapessero evitare il senso di fallimento provato generalmente dagli uomini quando dovevano adeguarsi a mestieri diversi da quelli svolti nel loro paese. Una capacità di
adattamento che, se poteva condurre molte ad accettare lavori duri per supportare economicamente anche i propri compagni, nel caso di Gerda Taro si tradusse nell’ingresso in ambiti maschili, come
quello della fotografia, nel quale riuscì a inserirsi, apprendendo la tecnica, le regole commerciali e sviluppando sensibilità particolari. La scintilla di questa passione fu in buona parte il
rapporto amoroso con André Friedmann, che, con lo pseudonimo di Robert Capa, sarebbe diventato uno dei più famosi fotoreporter dell’epoca. Gerda, però, non interpretò il proprio ruolo come quello
di gregaria, ma, al contrario, utilizzò le competenze acquisite, da un lato, per promuovere la produzione del compagno, e dall’altro per emanciparsi dalla sua guida al fine di non rimanerne
intrappolata. Un itinerario che nella sua eccezionalità suggerisce la presenza di un universo femminile rimasto invisibile, o imprigionato nel cliché di moglie o compagna, i cui spazi di
autonomia, se fatti emergere, possono fornire elementi importanti per ridefinire il contesto dell’emigrazione antifascista.
Questo aspetto affiora anche nel periodo successivo allo scoppio della Guerra civile in Spagna. Uno snodo importante affrontato tramite le vicende di Gerda Taro, restituendo il fervore di quella
parte dell’emigrazione antifascista distante sia dalla dirigenza politica sia da coloro che avevano consacrato la propria vita alla militanza. La minaccia del progressivo estendersi del fascismo in
Europa sollecitò uomini e donne a cambiare repentinamente le proprie vite, per prendere parte attiva a una guerra nella quale il mondo dell’esilio si sentiva parte in causa. Si trattava di un
internazionalismo che, come evidenzia Schaber, non esigeva solide basi ideologiche poiché era divenuto parte integrante del bagaglio personale oltre che politico degli esuli. Nel caso di Gerda
Taro, la guerra sollecitò l’abbandono del proprio impiego per andare in Spagna con Robert Capa, con il quale alla produzione fotografica unì il dovere di testimoniare e di esprimere con la
fotografia una vicinanza fisica e ideale con i combattenti.
Come rileva Schaber, si trattava di un’esperienza eccezionale poiché in tal modo Taro faceva ingresso in contesti sostanzialmente maschili: quello bellico e quello dei fotoreporter, normalmente
riservato agli uomini. Attraverso le pagine del volume è possibile seguire, da un lato l’evolversi dell’atteggiamento di Gerda nei confronti della guerra, sulla cui vittoria regnava sempre più
incertezza, e dall’altro l’itinerario personale e professionale di una donna che, determinata ad affrancarsi dal suo compagno, decideva di siglare i suoi scatti con un proprio marchio, in
sostituzione della sigla Capa & Taro, usata in precedenza. Le testimonianze raccolte da Schaber vertono sul ricordo di Gerda che, immersa in un lavoro frenetico e incurante dei pericoli della
guerra, aveva raggiunto una certa popolarità anche, e forse soprattutto, per la figura alquanto inedita di fotoreporter donna da lei incarnata. Proprio svolgendo quel ruolo, tra impegno politico,
passione e ambizioni personali, nel luglio 1937, poco dopo che le truppe di Franco ebbero conquistato Brunete, Taro perdette la vita.
Nel ricostruire l’esistenza di questa donna in parte dimenticata e in parte oggetto di strumentalizzazioni, Schaber ha il merito di dimostrare quanto sia importante superare gli steccati di una
storia politica che tende a inglobare i singoli cancellandone le soggettività, per mettere a fuoco degli aspetti, ignorando i quali ogni epoca storica rischia di perdere la propria anima.
Note
[1] I. Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, trad. dal tedesco di Elena Doria, Pref. di Elisabetta Bini, Roma, DeriveApprodi, 2007, 92.