Intervista a Cristiana Facchini*: il rito del ricordo, la didattica per le nuove generazioni, la memoria della Shoah e la nascita di Israele
dal sito della Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna, www.iger.org
Professoressa Facchini, qual è oggi il senso del rito, della liturgia di questa giornata della memoria dedicata alla commemorazione delle vittime del nazismo, del fascismo e dell’Olocausto?
Con l’approvazione delle legge n. 221 del 2000 l’Italia istituiva la celebrazione del “Giorno della Memoria". La legge stabilisce, all’articolo 1, che «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Ogni società – arcaica o moderna che sia – sviluppa peculiari modi di ricordare, commemorare o dimenticare e rimuovere il passato. Le società “ricordano e dimenticano”, selezionano storie, eventi e li trasformano nel loro tessuto sociale, conferendo significati pregnanti da trasmettere alle generazioni future. I termini che lei utilizza – “rito”, “liturgia” e “commemorazione” – hanno valenze di carattere religioso e i grandi intellettuali del primo Novecento non a caso avevano riflettuto profondamente sulle forme dei “riti commemorativi”, sulle modalità di funzionamento della “memoria collettiva”. In particolar modo Emile Durkheim, ebreo francese, socialista e padre della sociologia moderna, scriveva che i “riti commemorativi” costituiscono un’imprescindibile elemento delle società, dalle più elementari alle più complesse. I riti commemorativi nelle società tradizionali cosi come in quelle moderne hanno come fine quello di “rievocare il passato e renderlo presente per mezzo di una vera e propria rappresentazione drammatica”. Per la precisione il “Giorno della Memoria” può ben dirsi una forma moderna di “culto dei morti”, una sorta di rito periodico, se così lo vogliamo chiamare, che tiene legati i vivi ai morti, che connette il presente al passato, un passato traumatico e di violenza, dove sono stati distrutti e massacrati cittadini e popoli inermi nonché disarmati (ebrei e Rom).
Commemorare i morti della Shoah, della persecuzione razziale e dell’odio politico significa, per lo meno dal punto prospettico di una collettività, mantenere forte e vivo, attraverso i riti commemorativi, una viva pietas verso coloro che sono stati massacrati e una legame con gli ideali politici e culturali sorti dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Ovviamente, nelle società complesse, percorse da conflitti culturali e politici, la condivisione di un luogo del passato drammatico come quello delle persecuzioni razziali e dello sterminio costituisce uno degli unici trait d’union tra coloro che, indipendentemente da ideologie politiche, fedi religiose e appartenenze etniche, condividono la vecchia lingua dei diritti dell’uomo. Per questo motivo – oltre molteplici altri – il Giorno della Memoria, istituito ben 45 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, è memento che ci permette di connetterci e stare legati, anche solo per un giorno, alle vittime del nostro passato collettivo. Come ogni forma di commemorazione anche questa ovviamente rischia di fossilizzarsi e svuotarsi del suo significato principale. Le critiche e le resistenze provenienti da molti settori della società europea sono segno – a mio parere – del disagio verso questo passato scomodo e della labile coscienza democratica che percorre l’Europa unita.
Come si può trasmettere alle generazioni più giovani e ignare il senso e la densità di questa giornata che richiama simbolicamente il 27 gennaio 1945 (giorno in cui le truppe sovietiche scoprono il campo di concentramento di Auschwitz)?
Ci sono molti modi per farlo. In quanto docente penso che una seria didattica su questi temi sia ancora una modalità efficace per sensibilizzare i giovani verso questo argomento – sterminio, Shoah e persecuzioni razziali. Per i giovani, in genere, queste vicende sono lontane se non lontanissime, a meno che essi non provengano da gruppi o famiglie che sono state toccate dal disastro dello sterminio e della guerra. La percezione di quel passato è vaga, imprecisa, spesso distorta. Ora sono disponibili molti materiali di vario tipo – testi critici di storia, letteratura, materiali visivi e audiovisivi, documentari, film, narrativa, fumetti – utili a introdurre e spiegare la storia della Shoah e delle persecuzioni razziali. Alcuni di questi materiali sono di alto livello culturale – si tratta cioè di testi e/o immagini non manichee, capaci di fare comprendere e riflettere, ossia capaci di trasformare le coscienze dei giovani e sensibilizzarle a questi problemi. Oltre a questi materiali – certo non tutti di livello pregiato – non sottovaluterei quelli che sono i viaggi verso i cosiddetti “luoghi della memoria”, come i campi di concentramento. Personalmente è un tipo di attività da cui sono sempre rifuggita, ma sono sicura che se adeguatamente preparato, il viaggio in forma di “pellegrinaggio civile”, possa costituire una sorta di esperienza unica, di parziale reenactment capace di creare immedesimazione con la sofferenza e la tristezza dei luoghi.
Qualcuno ha già gridato allo scandalo dello “Shoah business” e alla possibilità di generare una reazione contraria, di indifferenza e stanchezza a questi argomenti, oltre che alla inevitabile banalizzazione di questi temi. Su questo però dovrebbero pronunciarsi soprattutto gli eredi delle vittime – cioè ebrei e altri gruppi di perseguitati – perché in Europa la loro voce è stata troppo spesso rimossa, se non cancellata.
Vorrei inoltre concludere dicendo che accanto alla storia della Shoah e delle vicende ad essa connesse, io ritengo di assoluta e prioritaria rilevanza non relegare la conoscenza di questi temi all’evento in sé. Mi spiego. Molto spesso chi viene introdotto alle problematiche delle persecuzioni razziali e dello sterminio non sa nulla della storia e della cultura – spesso avvincente – delle popolazioni che le hanno hanno subite. Ossia, in genere i giovani e i meno giovani sono del tutto ignari della millenaria storia ebraica europea, per non parlare delle popolazioni gitane (i cosiddetti Zingari) o di quelle delle colonie. Non sanno che una parte della cultura di cui sono figli sarebbe stata distrutta nei campi di concentramento. Non riescono a collocare le vittime di tale offesa in una immagine di fondo ricca e complessa, non riescono a raffigurarsele, perché queste culture non esistono nei libri di storia. Da questo punto di vista c’è ancora molto da fare, in quanto studiosi ed insegnanti, e solo allora forse costruire potremmo riuscire a costruire una collettività che, nelle sue differenze, possa sentirsi in sintonia coi suoi morti e portare loro il rispetto dovuto.
Questa ricorrenza, legata a fatti specifici e ad uno determinato contesto storico, può oggi correre dei rischi quali l’oblio, l’indifferenza, la mistificazione, l’appropriazione?
Questi rischi – “oblio”, “indifferenza” “mistificazione” e “appropriazione” – sono possibili e forse anche inevitabili. “Oblio” e “indifferenza” potranno verificarsi se si abbassano i livelli di cultura democratica in Europa. Scomparsi i testimoni di questa tragica vicenda, la Shoah diventerà definitivamente storia e passato. Il ricordo anche tra i figli e i nipoti delle vittime tenderà ad affievolirsi. Inoltre, a causa della rimozioni europea di questi eventi, e per le peculiari vicende della nascita e costituzione dello stato d’Israele i rischi di “appropriazione” e “mistificazione” sono già in corso.
Non so se ho capito bene la domanda ma i termini che lei utilizza mi permettono di svolgere alcune considerazioni a margine. In un libro coraggioso la studiosa israeliana Idith Zertal ha sostenuto che la nascita del moderno stato di Israele è stata ancorata alla costruzione di un culto della memoria centrato sulla Shoah. Da un punto di vista storico bisogna dipingersi la situazione post-bellica nel seguente modo: mentre il movimento sionista cercava di costruirsi un rifugio nazionale in Palestina, all’indomani della seconda guerra mondiale, per la precisione del 1948, lo stato d’Israele riconosciuto dalla risoluzione ONU, si trovava trasformato da yishuv in stato moderno ma “senza popolo”, il quale era in gran parte scomparso nella tragedia europea. E’ quindi comprensibile che, mentre da un alto le vittime della Shoah furono dimenticate e rimosse per decenni dalla coscienza europea, esse divennero onnipresenti nella quotidianità politica di Israele. Decontestualizzato e trasformato in male assoluto nel discorso pubblico israeliano, l’evento tragico della Shoah rischia di sortire l’effetto contrario, cioè di essere banalizzato.
In questo caso la questione è resa più complessa dal fatto che, pur essendo patrimonio della storia ebraica (di Israele e della sua diaspora) la Shoah è soprattutto problema della coscienza europea e del suo passato. L’indiscriminato uso politico della Shoah non solo ne banalizza il significato ma rende possibile anche un altro pericoloso fenomeno che è sotto gli occhi di tutti. Si osserva nei giornali italiani, ma soprattutto nella stampa araba, un processo di “capovolgimento dei ruoli” – laddove il conflitto israelo-palestinese viene sovente letto nei termini di nazismo-Shoah, con gli israeliani divenuti nazisti e i palestinesi ebrei. Non posso dilungarmi su questa questione ma voglio sottolineare che anche questa modalità di affrontare il conflitto israelo-plaestinese non fa che rimuovere ancora una volta il problema della Shoah dal suo vero contesto, la storia e la memoria d’Europa.
* Cristiana Facchini è docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l'Università degli Studi di Bologna