Sulla scorta della vasta bibliografia inglese e francese dedicate alle celebrazioni dei caduti e al significato dei riti loro dedicati, Guri Schwarz intraprende una «analisi dei processi di elaborazione del lutto» in Italia dalla Resistenza al secondo dopoguerra. I suoi obiettivi sono «da un lato […] tenere conto degli elementi di novità […] nelle relazioni tra stato e società civile, dall’altro […] valutare quanto tali novità andassero a collocarsi in un quadro retorico e rituale profondamente innervato dai segni della tradizione» (XI). Con l’ambizione di ricostruire l’interazione «tra la costruzione “dall’alto” […] di un discorso pubblico sul fascismo, sulla guerra e sulla resistenza, e le spinte, i bisogni, i sentimenti che emanavano “dal basso”, dalle famiglie in lutto e dal pulviscolo associazionistico che si formò in relazione a quei vissuti» (XIV). Già nel corso stesso della Resistenza il carattere disumanizzante della guerra civile, lo spregio e la violazione del corpo dei caduti nemici, avevano imposto alla Resistenza il «compito» non «soltanto [di] lottare contro i fascisti ma anche [di] compiere un’opera costante di riconsacrazione» (24), secondo quanto auspicavano in sedi diverse Franco Fortini o Roberto Battaglia. Negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto questo processo di elaborazione del lutto (o dei lutti, corregge Schwarz) fu parte di un’opera indirizzata «a ripristinare l’ordine e a consacrare il nuovo sistema gerarchico» dei valori sociali e politici (35). Fu anche la cancellazione delle «parate orchestrate dall’alto» con cui il fascismo aveva ossessivamente celebrato i riti patriottici nel quadro dell’esaltazione del regime. Un processo tuttavia complesso: esso si avvia già nel corso della lotta antifascista, si caratterizza nell’Italia liberata, a Roma, con la partecipazione dei partigiani a fianco degli esponenti istituzionali; ma fin dai primi momenti è percorso anche da motivi che sono in continuità con la cultura nazionalista e fascista, di cui è esemplificativo il tema della nazione intesa come comunità di vivi e di morti; da cui si genera l’ossessionante e lugubre invito ad obbedire al «comandamento» dei defunti. Ma la ricerca di Schwarz non è – non è solo – analisi culturale e ideologica, è anche studio delle forme associative che esprimono le esigenze consolatorie, i dolori, «la sofferenza della comunità dei portatori del lutto» (81). Nel dopoguerra la tenzone tra le diverse memorie si inasprisce, in forza dell’impegno dei «diversi blocchi politico-culturali» a «elaborare e a diffondere il proprio messaggio»; mentre «la tutela e il patrocinio di una simbologia comune» tendevano «a cadere in secondo piano» (111). Qui si rivela la debolezza della cultura di governo, nascente dall’incapacità di creare quei punti di riferimento comuni e dall’indecisione in merito alla formulazione di un «calendario liturgico nazionale» (110). Per quanto in alcuni passaggi Schwarz non sfugga alla tentazione di inserire tutto ciò nel clima della guerra fredda, che a tratti e per fortuna solo episodicamente sembra diventare la chiave di volta del racconto, resta chiaro il nucleo della sua analisi, la quale mostra come vengano da lontano i solchi che dividono tra loro le componenti della memoria nazionale, articolata attorno al culto dei morti. Viceversa l’attenzione posta a quest’ultimo tema permette di individuare bene il ruolo della gerarchia cattolica e dei settori più ortodossi del mondo democristiano: che sfocia nella graduale legittimazione delle memorie del fascismo, sotto lo scudo del rispetto per i caduti di tutti gli schieramenti e più in generale di tutte le guerre. È un nodo essenziale perché svela un presupposto di tutte le celebrazioni dedicate indistintamente a tutti i caduti: l’autoassoluzione del popolo italiano rispetto al fascismo, di cui l’Italia viene rappresentata quale vittima incolpevole. Tuttavia, ribadisce Schwarz, il bisogno di ricordare e onorare i caduti non è solo strumento di politiche della memoria; è anche un’esigenza diffusa e spontanea, una necessità per i vivi. Si tratta non solo di sentimenti privati: c’è una componente comunitaria espressa nell’esigenza di riconsacrare il territorio, di confermare modelli di vita e di morale, e in ultima istanza di diffondere messaggi politici non contingenti attraverso l’erezione di sacrari diffusi in ogni città e paese (213). Altro è viceversa il carattere dei monumenti e delle cerimonie dedicati ai caduti militari dove dominano in continuità riti tradizionali e retoriche patriottiche che, possiamo aggiungere, hanno dilagato fino a contagiare le cerimonie ufficiali che intendevano ravvivare la memoria della Resistenza. Negli ultimi capitoli – e in particolare nel V – Schwarz torna sul tema della «viva presenza dei caduti» (220). A differenza della lettura nazionalistica (e fascista) che ne aveva tratto incitamenti guerreschi, nel dopoguerra l’immagine prende a essere interpretata come «patriottismo espiativo, un sistema retorico in cui al centro […] non sono eroismo e ardimento bensì i dolori e le disgrazie della nazione, trasfigurati sino ad apparire come il prezzo da pagare per riscattarsi dalla colpa collettiva rappresentata dal fascismo» (252). Attorno a questo motivo Schwarz raccoglie e analizza l’emergere di nuove sensibilità: dal ripudio della guerra al riconoscimento del ruolo della donna, alla sua celebrazione nei monumenti commemorativi, pur sempre entro i confini di una retorica tradizionalista. Sono capitoli interessanti, quelli finali in cui il discorso si cimenta anche con le arti figurative e con la narrativa. Il lavoro, pur dominato spesso in modo eccessivo da analisi teoriche che si rifanno a modelli antropologici, è molto articolato e fondato su una documentazione archivistica e letteraria assai vasta. Non un piccolo merito per un lavoro ambizioso e coraggioso, su alcuni esiti del quale sarà anche possibile siano avanzate riserve o rilievi; ma che sarà bene non sia passato sotto silenzio.
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