Storicamente. Laboratorio di storia

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Anselm Schubert, “Pasto divino”

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Anselm Schubert, Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia. Roma: Carocci, 2019. 222 pp.

Affrontare la storia dell’eucaristia dal punto di vista degli alimenti utilizzati e della loro preparazione rappresenta la novità principale del volume di Anselm Schubert, originariamente pubblicato in tedesco (Gott essen, München, C.H. Beck oHG, 2018). Il volume si pone nel ricco filone storiografico della recente storia dell’alimentazione, applicandola però alla storia dell’eucaristia, che in questo modo non emerge più, o non solo, come una storia di dottrine teologiche, ma come un complesso di pratiche di simbolizzazione di un atto culinario, con tutto ciò che questa prospettiva sembra implicare.

Nonostante una certa tensione verso l’istituzionalizzazione, che nella storia dei gruppi di seguaci di Gesù appare con una certa nitidezza alla fine del IV secolo, quando il concilio di Laodicea (363-364 e.v.) cerca di formulare la netta distinzione tra eucaristia e pasto comune, il focus chiarisce la varietà delle pratiche di ritualizzazione presenti nel frastagliato universo cristiano, a partire dai gruppi di giudei credenti in Gesù del I-II sec. e.v. (cap. 1), passando per quelli bollati come eretici da alcuni Padri della Chiesa del III-IV sec. – che in molti casi continuano a celebrare i loro riti imbandendo cibi vari (gli artotiriti menzionati da Epifanio di Salamina, nel IV sec., ad esempio consumano pane e formaggio) –, fino alle definizioni teologico-dottrinali di Agostino (cap. 2), e alle divaricazioni che distinguono sempre più l’Oriente e l’Occidente tra tardoantico e medioevo (cap. 3). Il medioevo sancisce anche quella che, di fatto, emerge come una vera e propria “clericalizzazione delle sostanze” (cap. 4), sia in Oriente (dalla “nuova Roma” alla chiesa russa) che in Occidente, con cibi e modalità di ritualizzazione del mangiare comune che appaiono sempre più come specchi identitari paralleli al consolidarsi dei vari cristianesimi come strumenti di auto-definizione “proto-nazionale”: «L’introduzione nella Chiesa franca della liturgia romana [scil. l’uso di orazioni da recitare durante l’eucaristia, che ormai è chiaramente definita come pasto rituale amministrato interamente da personale altamente specializzato e che prevede il consumo comunitario di pane e vino “purissimi”] determinò un cambiamento, in tutto l’Occidente latino, decisivo per il futuro del cristianesimo. Se all’inizio l’eucaristia era intesa ancora come un ringraziamento da parte della comunità, o come rievocazione del sacrificio espiatorio di Cristo, da quel momento divenne un atto sacro, con cui il sacerdote richiamava la divinità in terra sotto gli occhi dei fedeli» (51). Tra il 1050 e il 1525 la chiesa soprattutto latina vede inoltre una vera e propria esplosione di teologie e religiosità eucaristiche, che raggiungono il loro pieno sviluppo all’inizio del XIII secolo. Emergono soprattutto le ostie consacrate e il calice di vino, che diventeranno, per secoli, almeno in Occidente, «il vero e proprio centro religioso e culturale della cristianità. Nella trasformazione soprannaturale che la loro materia subisce, l’unità tra Dio e l’uomo si rende percepibile, sperimentabile, palpabile, commestibile» (65).

Una notevole attenzione Schubert la pone anche su quella che lui definisce come “la disputa sul corpo di Dio”, un ricco ambito interconnesso di problemi e questioni che attraversano la storia dei cristianesimi soprattutto occidentali tra il 1525 e il 1830 (cap. 6). Le varie scissioni e i multiformi gruppi soprattutto europei dibattono e si dividono anche per quanto concerne l’effettiva presenza di Cristo nella comunione e su quale fosse il significato di questa presenza più o meno “reale” per i fedeli. La luterana centralità della Bibbia come unica cartina al tornasole attraverso cui misurare l’aderenza all’originario messaggio di Gesù, mostra tutti i suoi riverberi anche per quanto concerne le pratiche di ritualizzazione della “comunione” all’interno delle varie forme di protestantesimo succedute alla esegesi e alla riflessione teologica di Lutero. Lutero, come già Hus, raccomanda di reintrodurre il vino della comunione anche per i laici, nonostante la forte propensione per l’acqua pura, mentre Calvino mostra una fondamentale apertura verso alimenti diversi oltre al pane e al vino, dato che non sono gli ingredienti terreni del pasto ritualizzato a contenere il Cristo celeste, rinviando, in quanto nutrimento corporeo, al nutrimento spirituale dell’anima che si realizza durante il pasto comunitario. Questa apertura a cibi diversi, d’altronde, si riscontra inevitabilmente anche nel cattolicesimo “mondiale” del XVI secolo che, nonostante il tentativo dichiarato di un ritorno esclusivo alla “tradizione” (con tutta le problematicità che questo termine implica e pone), mostra di avere coscienza di un dilemma rispetto alle chiese extraeuropee quando prescrive che le ostie siano fatte «perlomeno per la maggior parte di frumento» (111).

La disamina di Schubert prosegue con le dinamiche legate alle pratiche eucaristiche nell’epoca della riproducibilità industriale (1830-1970), che evidenziano alcune delle questioni connesse, da un lato, alla diffidenza soprattutto protestante nei confronti del pane industriale, che non si sapeva esattamente di cosa fosse fatto, e, dall’altro, alle critiche nei confronti del vino, a loro modo figlie delle istanze proprie dei movimenti di opposizione nei confronti dell’alcolismo (cap. 7). Per quanto concerne il mondo protestante, comunque, si sottolinea anche come a partire dagli anni Settanta del Novecento si verifichi un mutamento per quanto riguarda il dibattito sulla forma e sugli ingredienti dell’eucaristia, allora ripreso con una intensità che non si vedeva almeno dal Seicento, a fronte della maggiore uniformità propria nel mondo cattolico, nonostante alcune delle posizioni espresse nella Sacrosanctum Concilium del 1963 (cap. 8).

Il volume di Schubert, che si raccomanda per la chiarezza espositiva e la ricchezza di dettagli, evidenzia con particolare attenzione quanto le pratiche di ritualizzazione del pasto eucaristico nella storia dei cristianesimi siano, proprio in una prospettiva di lunga durata, strettamente intrecciate all’utilizzo di particolari alimenti e bevande o di specifiche modalità di preparazione dei cibi. Ne deriva un affresco per nulla omogeneo, che mostra quanto i processi di ritualizzazione – stando alla prospettiva inaugurata, tra gli altri, da C. Bell (di cui si veda almeno Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, Oxford University Press, 1992) – siano il frutto di dinamiche culturali mai totalmente definibili in maniera precostituita o predeterminata. In sostanza, dalla rigidità del concetto di “rito”, il volume invita a porsi nella prospettiva dei processi di ritualizzazione, con tutte le complessità diacroniche e diatopiche che tale prospettiva inevitabilmente implica.