Gabriella Gribaudi, La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento. Roma: Viella, 2020. 312 pp.
Nelle parole del premio Nobel colombiano per la letteratura Gabriel García Márquez è la memoria, più che ciò che è realmente accaduto, a dare un’impronta alla vita («La vida no es la que uno vivió, sino la que uno recuerda y cómo la recuerda para contarla», frase posta a epigrafe di Márquez, Vivir para contarla, Barcelona, Mondadori, 2002). Questo aperçu potrebbe fare da cornice anche allo studio di Gabriella Gribaudi qui in discussione. L’a. però, in questa sua pubblicazione, va ben oltre il realismo magico. Il libro può essere interpretato come un intervento per rivendicare maggiore spazio e importanza ai memory e trauma studies, alla storia orale e alla collocazione generale della memoria individuale nel discorso storiografico. Dal punto di vista empirico si presenta come una sorta di sintesi del lavoro della storica, soprattutto per quanto riguarda le sue pubblicazioni sulla Seconda guerra mondiale e – più recentemente – sui disastri naturali. Il filo conduttore è lo studio del modo in cui alcuni eventi decisivi relativi a questi campi di indagine vengono ricordati. L’a. elabora le sue ipotesi di fondo avvalendosi di diverse aree tematiche. Il suo sguardo si sposta, fra l’altro, dalla Shoah alle deportazioni, per proseguire con i bombardamenti, il ruolo e la memoria del lavoro delle formazioni partigiane e delle donne nella società in guerra, il carattere di cesura delle catastrofi naturali, le dicotomie tra nord e sud in Italia e, più generale, la ricostruzione non solo dei luoghi fisicamente distrutti, ma anche della memoria delle “mappe mentali” perdute. Tutti i temi scelti ruotano intorno alla giustapposizione di memoria individuale e collettiva, spesso in contrasto tra loro, e su quale forma della memoria possa essere considerata degna di essere ricordata, a fronte di quella che l’a. definisce “metanarrazione nazionale”, cioè il ricordo canonizzato al livello nazionale.
Il primo capitolo fornisce la base teorica e metodologica per quelli successivi, tematici. I capitoli 2 e 3 trattano della memoria della guerra, il quarto dell’approccio delle culture della memoria rispetto alle calamità naturali. Gribaudi sottolinea in queste sezioni il valore dell’esperienza e della memoria individuale, che non va delineata solo in tensione con altre memorie – differenti, per quanto talvolta sviluppate nello stesso luogo e nella stessa comunità, a seconda del vissuto personale legato ai bombardamenti – ma anche nel suo potenziale euristico. Il tutto si traduce in un vivace appello per l’utilizzo della storia orale, che occupa un posto importante nei memory studies, anche se naturalmente i due approcci non sono coincidenti, né in termini analitici né metodologici. Nei capitoli empirici l’a. fa ricorso alle sue basi teoriche. In questa parte del lavoro le riflessioni sulla guerra occupano molto più spazio di quelle sui disastri naturali. Una comparazione tra i casi studio presentati sul piano delle modalità del ricordo, della loro elaborazione e del loro utilizzo per il discorso politico è quindi difficile da effettuare, eccezione fatta per l’osservazione generale che sia i conflitti che i disastri naturali possono essere considerati esperienze drastiche – e così vengono ricordati – che dividono le biografie delle persone in un “prima” e un “dopo”. Ciò dimostra anche che c’è ancora molto potenziale di ricerca per un lavoro storiografico sulle calamità naturali, aspetto che Gribaudi sottolinea con enfasi. A fianco di questi campi tematici, l’a. sottolinea con forza l’importanza dell’utilizzo della “cassetta degli attrezzi” metodologica dell’oral history negli studi sulla memoria.
Tocca qui questioni fondamentali per gli studi storici, ma anche per la “storia” intesa in generale, interpretata come la memoria di ciò che è accaduto. Ad esempio le “zone grigie” della memoria che spesso si articolano solo nelle seconde generazioni, che rendono difficile una categorizzazione tra vittime, carnefici e attori di altra natura in termini di cultura della memoria, e implicano spesso dichiarazioni politiche (per esempio, nel caso dei bombardamenti degli Alleati “liberatori”, o del nesso tra le azioni partigiane e i crimini di guerra tedeschi). “Dimenticare”, o meglio: “tacere” diventano allora strategie che, in ultima istanza, aprono a un altro campo di ricerca, quello dei trauma studies. Il trauma si radica anche nella memoria, poiché difficilmente può essere elaborato, e tanto meno articolato, anche perché, tra le altre cose, dinamiche locali come la convivenza in uno stesso villaggio, o un canone nazionale della memoria, lo sopprimono o lo fanno apparire politicamente inopportuno.
In questo senso, la memoria individuale non solo fornisce informazioni sugli individui, ma è anche un indicatore degli sviluppi sociali e politici. A questo riguardo, Gribaudi sottolinea ripetutamente l’importanza del 1989 e il ruolo del crollo del comunismo nell’aprire nuove strade a ricordi fino ad allora soppressi. Queste riflessioni nascono anche dalla combinazione feconda dei memory studies con la Alltagsgeschichte (storia del quotidiano) e con una storia politica orientata verso le grandi cesure. Questo perché certe narrazioni possono emergere, o riemergere, solo quando le condizioni del quadro politico – a livello nazionale e locale – lo rendono possibile, e nuovi “regimi di memoria” diventano plausibili e narrabili (Si vedano, per il concetto di “regimi di memoria”, Johann Michel, Devenir descendant d’esclave. Enquête sur les régimes mémoriels, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2015 e François Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Paris, Le Seuil, 2003). In relazione a ciò, emergono interessanti domande sulla dimensione temporale di queste esperienze riferite all’“io”. In altre parole, è importante rispettare l’elaborazione individuale dell’esperienza nei confronti dei contemporanei, ma lo è anche – e questo vale, metodologicamente, per la storia orale come per qualsiasi altra forma di fonte scritta e materiale – contestualizzarla storicamente e metterla in relazione con le altre. Un’assolutizzazione delle esperienze individuali offrirebbe solo un pezzo del mosaico. Tuttavia, se si considera la mutevole relazione di queste esperienze con i discorsi, le narrazioni e le commemorazioni ritualizzate – giornata della memoria, festa della Liberazione, ecc. – emerge per la ricerca storica un quadro spesso in contrasto con le grandi narrazioni canonizzate al livello nazionale. È il caso dei ricordi e delle narrazioni dell’occupazione Alleata, della nascita della Repubblica, delle migrazioni forzate in Italia o della Resistenza, per citarne solo alcuni. Fondamentalmente la questione è: a partire da quando, e in quali contesti, diventa possibile ricordare un particolare evento? È una questione di principio che la storiografia deve inevitabilmente porsi, e Gribaudi lo sottolinea a più riprese, e in modo molto convincente, a proposito delle memorie di guerra.
Tuttavia, è chiaro anche che una tale narrazione problematizzante della memoria del passato non può e non deve essere lineare. Piuttosto, serve a disturbare un quadro troppo netto della storia, disegnando sfumature laddove le culture nazionali della memoria offrono spiegazioni spesso frettolose e superficiali. In questo senso, lo studio di Gribaudi è un efficace appello alla multidimensionalità della storia, se ci si fa coinvolgere da una riconsiderazione delle esperienze passate e delle memorie individuali, specialmente nelle loro interazioni locali.
Volendo fare una piccola critica, o piuttosto esprimere un desiderio in vista di future ricerche, sarebbe stato forse opportuno radicalizzare ulteriormente questo approccio. I molti passaggi empirici, ripetitivi in alcune parti, soprattutto nei capitoli sulla Seconda guerra mondiale, sono efficaci nel mostrare il frequente contrasto con le commemorazioni ufficiali. Tuttavia, avrebbero potuto essere ulteriormente aggregati e riassunti, attraverso una maggiore astrazione delle categorie di memoria e trauma.
Un fattore che avrebbe potuto essere sottolineato maggiormente qui, anche come aspetto indipendente, è quello del linguaggio e di come esso forgia la realtà, anche e soprattutto nella memoria. La tesi di Gribaudi sulla ricostruzione dei luoghi dopo la loro distruzione a causa di calamità naturali – ovvero che una ricostruzione fisica è talvolta possibile, ma dal punto di vista psicologico il villaggio distrutto rimane sempre un luogo di nostalgia – avrebbe potuto essere analizzata anche in questo modo. Risuonano qui le questioni dell’identità, della “patria” (Heimat) e della sua perdita, ma anche della dimensione temporale che costituisce i ricordi. Topoi e metafore, come Gribaudi mostra in alcuni casi relativi alla scelta delle parole per narrare la guerra e le catastrofi naturali, avrebbero potuto avere in questi casi un peso maggiore nell’analisi.
Il contributo di Gribaudi, al di là di tutti i meriti empirici, costituisce una lettura intellettualmente stimolante, che spicca per l’esortazione a non sottovalutare il valore della memoria individuale e collettiva, così come le loro interazioni talvolta difficili, e ad esplorare costruttivamente le questioni della storia, della memoria e del ricordo. I campi di indagine scelti mostrano in maniera convincente le modalità di ibridazione di storia, memorie ufficiali e ricordi privati, soprattutto sul piano locale.