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Emilia Michelazzi, “Roma e il misterioso popolo della seta”

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Emilia Michelazzi, Roma e il misterioso popolo della seta. Bologna: Pàtron Editore, 2018. 130 pp.

Dall’attuale sguardo occidentale nei confronti della Cina contemporanea, presentata attraverso le parole dello storico inglese Joseph Needham come ispiratrice di «the deepest love and the profoundest desire to learn» e in quelle decisamente meno lusinghiere del giornalista italiano Federico Rampini che definisce la Cina come «laboratorio di modernità», ma anche come «buco nero dei diritti umani» (7), Emilia Michelazzi in Roma e il misterioso popolo della seta stabilisce un dialogo tra passato e presente, destinando questo breve ma al contempo stimolante saggio alla percezione che gli antichi Romani nutrivano nei confronti dei lontani Cinesi.

Scopo primario dell’A., specializzata negli studi sulle relazioni sino-romane, è quello di realizzare una ricostruzione storica destinata a fornire «strumenti di riflessione e approfondimento sulla realtà odierna, in un continuo dialogo tra passato e presente» (9). Tale ricostruzione, esposta in modo cronologico, dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., coinvolge l’opinione degli autori antichi attraverso lo studio delle fonti scritte che rientrano nel medesimo ambito d’interesse, ossia tutto ciò che riguarda il misterioso popolo della seta e il prestigioso materiale ad essi correlato.

La seta cinese, sericum / sericae vestes, è l’indiscussa protagonista degli itinerari commerciali che viaggiatori e mercanti intraprendono a partire dal I secolo a.C. Nella varietà di prodotti trasportati attraverso l’immensa estensione territoriale, che dalla Cina attraversava i porti dell’India e dell’Asia occidentale fino a giungere alle rive del Mediterraneo, la seta rivestiva un ruolo di primaria importanza. Tale status derivava dalle sue caratteristiche materiali e dalla segretezza avvolta attorno alla sua produzione che contribuiva a rendere il tessuto cinese forse più attraente tra tanti altri prodotti.

Il viaggio inaugurale di questi percorsi, nonché il punto partenza del volume recensito, è la missione diplomatica dell’ufficiale di corte Zhang Qian (II secolo a.C.), considerato dall’annalistica cinese come il primo viaggio lungo gli itinerari della Via della Seta (Cap. 1). Il tessuto cinese inizia così ad entrare nell’immaginario degli autori antichi dell’Occidente attraverso “insegne scintillanti” come testimonia Anneo Floro nell’Epitomae de Tito Livio (I, 46) descrivendo la disfatta romana a Carre contro i Parti, frequenti acquirenti dei prodotti cinesi, o come misterioso derivato vegetale cardato e filato come la lana, ma raccolto dagli alberi. Dalla menzione di Virgilio nelle Georgiche (II, 121) a quella di Brunetto Latini nel Tresor, l’erronea convinzione dell’origine vegetale della seta graverà sul tessuto cinese per diversi secoli (Cap. 2).

Altrettanti dubbi vi erano sulla collocazione geografica degli allevatori del baco da seta. La Serica, così era chiamata la terra dei Seres, etnonimo con il quale il popolo della seta ( in cinese) viene comunemente identificato nelle fonti classiche, è genericamente localizzata dagli autori antichi agli estremi orientali del mondo conosciuto. Se l’anonimo autore del Periplo del Mar Eritreo pone la terra dei Seres, differentemente titolata come Thina, vicino alla palude Meotide (nel Mar d’Azov), Tolemeo, al quale si deve il termine Serica, colloca la terra cinese tra la Scizia (il Turkestan), l’India transgangetica e «terre sconosciute» (Capp. 3 e 4).

Nonostante le perplessità derivate da una misteriosa origine e da un’imprecisa collocazione geografica di chi la produceva, la seta a partire dal I secolo d.C. inizia ad essere ben conosciuta nel mondo romano. Il tessuto dei Seres divide l’opinione pubblica tra biasimo e moda: dall’insana passione per le trasparenze rivelatorie e le variopinte nuances dei drappi orientali, alla severa critica espressa da Seneca e da Plinio il Vecchio che sconsigliano caldamente l’utilizzo del tessuto cinese poiché considerato pericoloso luxus orientale e inutile sperpero di denaro per l’intera società. La seta, vituperata o amata che sia, entra così nel costume comune dell’Impero romano. Indossata da giovani e vecchi, donne e uomini, signore di malaffare della Suburra e imperatori, la sua popolarità, oltre a essere dovuta alle qualità intrinseche del materiale, è altresì favorita dallo sviluppo delle tratte commerciali che a partire dal II secolo d.C. si intensificarono incoraggiando i primi tentativi di incontro tra le parti.

Tra questi tentativi ha un particolare rilievo quello avvenuto nel 166 d.C. a seguito dell’ambasceria inviata dal sovrano di Da Qin (lett. “La Grande Cina”, il nome assegnato nelle fonti cinesi all’Impero romano) An Tun alla corte dell’imperatore cinese Huan. Tale vicenda rimane comunque fortemente incerta. Pur non negando una possibile origine occidentale della delegazione descritta, più che di un’ambasceria di natura ufficiale forse, si può parlare di un gruppo di mercanti giunti in Cina in cerca di fortuna. In aggiunta, come suggerisce l’A., l’assenza di tracce nella tradizione greco-romana di tale evento lascia presupporre, assieme ad altri elementi, l’improbabilità dell’episodio, piuttosto adoperato come strumento di celebrazione dell’imperatore celeste (67).

A partire dalla fine del III secolo d.C. la commercializzazione del prezioso tessuto cinese subisce una battuta d’arresto dovuta alla profonda crisi che interessò entrambe le civiltà. Gli altissimi prezzi raggiunti dal costoso tessuto cinese e la scoperta della sericoltura da parte dell’Occidente, avvenuta nel VI secolo d.C., contribuiranno inevitabilmente al rarefarsi del prodotto serico nei mercati dell’impero, allontanando nuovamente il misterioso popolo della seta dall’universo romano (Capp. 5 e 6).

La conoscenza del popolo cinese da parte dei Romani, che guarda ai Seres attraverso una lente opaca – «throught a glass darkly» (115) – oscurata dall’estrema lontananza della Serica e da un incontro tra le due potenze probabilmente mai avvenuto, lascia spazio a una serie di fantasie e proiezioni, topoi e mezze verità che si alternano ripetutamente nel saggio della Michelazzi. Attraverso un’attenta disamina di un ricco corpus di fonti scritte, l’A. avanza nuove riflessioni sugli interrogativi cruciali delle relazioni sino-romane, consegnando uno studio su un tema solitamente trascurato dalla produzione scientifica italiana, ma che affronta in modo agile e chiaro una materia ricca e complessa, offrendo un eccellente punto di partenza per ulteriori approfondimenti.