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Silvano Montaldo, “Donne delinquenti"

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Silvano Montaldo, Donne delinquenti. Il genere e la nascita della criminologia. Carocci: Roma, 2019. 356 pp.

La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, nato dalla collaborazione tra Cesare Lombroso, Guglielmo Ferrero e la figlia dello stesso Lombroso, Gina, è un testo rimasto spesso ai margini della storiografia, che ha dedicato gradi diversi di attenzione alla «questione di genere» nell’opera del padre dell’antropologia criminale. Con il suo libro, Silvano Montaldo tratta invece tale questione come criterio di lettura di un processo che dagli anni Trenta dell’Ottocento alla fine del secolo porta alla definizione e istituzionalizzazione di una specifica scienza sociale del crimine. Il risultato è un lavoro di ampio respiro, che analizza una vasta mole di materiali facendo costantemente attenzione alla dimensione internazionale del dibattito scientifico, alla sua relazione con i profili dottrinari e le trasformazioni del diritto, al suo inevitabile rapporto con la formalizzazione delle discipline e con il movimento sociale. Nella polemica interna alle scienze del crimine come discipline del sociale, la posizione delle donne occupa un ruolo centrale, soprattutto nel momento in cui sono loro stesse a contestare quella posizione rivendicando l’uguaglianza e mettendo in tensione le gerarchie sessuali che organizzano la società.

Significativamente sono proprio le donne che aprono l’itinerario storico di Montaldo, che non tratta l’opera di Lombroso come un fatto intellettuale isolato, ma la colloca in un processo di mutamento scientifico e istituzionale che affonda le radici alla fine del XVIII secolo e all’inizio dell’Ottocento vede il problema della criminalità femminile farsi strada nei progetti riformatori di Elizabeth Fry in Gran Bretagna ed Eliza Farnham negli Stati Uniti o, in modo diverso, di Juliette Colbert in Italia. La promiscuità delle carceri, gestite da funzionari e secondini di sesso maschile, comincia a essere messa in questione di fronte alla diffusione di notizie relative agli stupri subiti dalle detenute. La proposta di creare spazi detentivi per le donne e gestiti da donne comporta una domanda sulle possibilità della loro correzione morale, e innesca un processo che – mentre determina l’apertura di nuovi ambiti professionali per le donne e migliora concretamente la vita delle prigioniere – di fatto rinsalda quel discorso moralistico che, come avrebbe sottolineato Emma Goldman all’inizio del Novecento, era esso stesso responsabile della subordinazione sociale delle donne che passavano dalla povertà alla prostituzione al carcere.

La figura di Adolphe Quetelet ‒ cui Montaldo riconosce un ruolo centrale nel tracciare la via lungo la quale Lombroso avrebbe mosso i suoi passi ‒ segna uno spartiacque nella fondazione scientifica del discorso sul crimine, sugli uomini e sulle donne criminali. Applicando la statistica ai fatti sociali, l’astronomo belga registra una minore propensione a delinquere delle donne rispetto agli uomini, dovuta sia al loro senso del pudore – riconosciuto dalla medicina del tempo come carattere tipicamente femminile – sia ai costumi e al minor grado di libertà del quale godevano. Solo due sono le eccezioni a questa regola. Aborti e infanticidi, infatti, facevano emergere le condizioni politiche e sociali di produzione del crimine e, in particolare, gli effetti del Code Napoleon, che vietava la ricerca del padre naturale e quindi portava spesso le madri di figli illegittimi a liberarsene per evitare la stigmatizzazione e la subalternità prodotte da una maternità extraconiugale. Come osserva Montaldo, dietro al progetto di usare la statistica per fondare una scienza predittiva dei comportamenti portato avanti da Quetelet ci sono un diritto e una pratica giudiziaria ‒ quella che ruotava attorno all’infirmitas sexus, riconoscendo alle donne le attenuanti per i loro comportamenti delittuosi – che riflettono il rapporto di potere tra i sessi.

Anche se stabilisce alcune coordinate del dibattito successivo in merito all’incidenza della differenza sessuale sulla propensione al crimine, la statistica morale di Quetelet è superata dagli studi sulla riforma penitenziaria e i bassifondi che mutano la concezione della delinquenza femminile, sempre più strettamente intrecciata alle trasformazioni della società industriale. Con la nascita delle classes dangereuses, ovvero con la crescente criminalizzazione della povertà e dei comportamenti che minacciavano la stabilità dell’ordine proprietario, l’idea queteletiana di una superiorità morale delle donne è sorpassata non solo dall’effettivo aumento della loro partecipazione al crimine, ma anche dal tentativo di condannare il movimento della loro emancipazione, considerando ad esempio l’accesso massiccio al lavoro salariato come una delle forze motrici della delinquenza. In questa cornice occupa un ruolo sempre più rilevante lo studio della prostituzione: essa non è solo una forma tipicamente femminile di crimine orientata alla sussistenza, come il furto per gli uomini; alla luce della diffusione delle teorie organicistiche e degenerazionistiche, come pure dell’igienismo, la prostituzione viene percepita anche come specifico veicolo di trasmissione del crimine nella società e tra le generazioni. Anche grazie alla militanza abolizionista di donne come Josephine Butler in Gran Bretagna e a livello internazionale, nel dibattito sulla prostituzione il determinismo biologico – che fonda le propensioni delle donne sulla loro anatomia, sui suoi effetti psichiatrici (l’isterismo) e su quelli intellettivi ‒ si confronta con la ricerca delle cause sociali, aprendo un campo di tensione tanto rilevante dal punto di vista dello scontro tra le diverse discipline sociali del crimine, quanto politicamente significativo, perché la posta in gioco è la legittimazione dei rapporti sessuali e sociali esistenti o la possibilità di contestarli.

Pubblicato nel 1876 (e recentemente ripubblicato dalla casa editrice Il Mulino nella collana XX secolo), L’uomo delinquente di Cesare Lombroso è tanto innovativo (come sottolinea Montaldo, non segna l’inizio della criminologia ma certamente inaugura un nuovo campo del sapere ed esprime la pretesa di istituzionalizzarlo) quanto politicamente conservatore, se non propriamente reazionario. Dalla lettura che ne offre l’Autore, l’antropologia criminale è una scienza rassicurante: sostenuta dall’antropometria, la teoria dell’atavismo permette di considerare la criminalità come fatto indipendente dalla società e dalle sue istituzioni, di arginare le crescenti pretese di uguaglianza civile e politica delle donne, di criminalizzare la lotta operaia che agita in quegli anni la Torino di Lombroso e non solo. L’equiparazione tra criminale e selvaggio ‒ che fa del razzismo un fattore costitutivo della scienza del crimine lombrosiana – è anticipata da Lombroso nella Nota sull’eziologia del delitto del 1873 con riferimento alla prostituta, che già è per lui una sorta di ossessione onnipresente, impegnato com’è a dimostrare che si tratta non solo di una forma di crimine tipicamente femminile, ma di una specifica forma di atavismo criminale. Già prima della pubblicazione di La donna delinquente, la posizione di Lombroso è quindi chiara e saldamente ancorata non solo a tutti i principali topoi misogini in merito all’inferiorità morale e intellettuale delle donne e all’ereditarietà del crimine (che metteva in stato d’accusa le madri di figli illegittimi), ma anche a un nuovo campo disciplinare, l’antropologia criminale appunto, che permette di «trasformare una pratica sociale in una condizione antropologica», come puntualmente osserva Montaldo. In questo modo, anche se Lombroso è pressoché indifferente al dibattito sulla responsabilità civile delle donne, i suoi studi legittimano posizioni radicalmente antiegualitarie. D’altra parte, allineandosi a chi considera la prostituzione una pratica necessaria a tutelare la stabilità della famiglia, Lombroso propone di farne un rimedio per i reati a sfondo sessuale. Mentre il crimine viene chiaramente trattato come il puntello della norma che lo produce, l’antropologia criminale si presenta come una scienza dell’ordine sociale che prescrive la subordinazione delle donne – prostitute e normali – come necessario fattore di stabilità. Qualcosa che peraltro Lombroso avrebbe replicato nel suo studio sul Delitto politico e le rivoluzioni, facendo delle lotte operaie un disordinato e dunque criminoso movimento di rivolta. Non è quindi un caso – e la ricostruzione di Montaldo conferisce all’episodio un grande valore – che il più duro colpo all’antropologia criminale venga dalla sociologia e, in particolare, da Gabriel Tarde, che porta alla luce lo scarto tra la statica del tipo criminale e la dinamica della società, resa peraltro evidente proprio dal fatto che il crimine è esso stesso un prodotto sociale che muta con le leggi, i costumi, le opinioni. A riprendere questi termini nella sua Sociologia criminale è Napoleone Colajanni, che però – rileva Montaldo – finiva per convergere con le posizioni antiegualitarie di Lombroso. Il campo polemico delle scienze sociali del crimine è in definitiva saldato da una stabile costante patriarcale.

La donna delinquente è – dice Montaldo – un «trattato per risorgere», una risposta agli attacchi provenienti dalle concorrenti scienze del crimine, che ne mettevano in questione la rilevanza disciplinare e quindi accademica, e una grande e pianificata operazione di mercato. Lo spazio dedicato dall’Autore alla ricostruzione della genesi dell’opera – il ruolo di Ferrero e Gina Lombroso, le sue fonti, la sua vicenda editoriale condotta a buon fine da Luigi Roux, un borghese spaventato dalle insorgenze femministe e operaie – danno un senso sociale e politico a questa operazione. Essa non aggiunge molto alle posizioni già espresse, se non in quanto ridimensiona il ruolo dell’antropometria e insiste sulla dimensione della sessualità femminile, inclusa quella lesbica, rompendo di fatto un tabù radicato. La più decisa identificazione della prostituta come «delinquente nata» è tuttavia un estremo tentativo di ancorare la subordinazione delle donne alla natura. Perciò, la ricostruzione della ricezione dell’opera in Italia e nel mondo, cui Montaldo dedica l’ultimo capitolo del libro, è rilevante per due ordini di ragioni. In primo luogo, essa porta in primo piano una politica della scienza impegnata a rimodellare le proprie discipline alla luce dei movimenti e degli antagonismi che solcano la società, affinando gli strumenti di cui il sapere dispone per giustificare e riprodurre le gerarchie che ne garantiscono la stabilità. Dalla frenologia all’antropometria all’eugenetica novecentesca il passo è breve. In secondo luogo, i cenni al contributo dell’americana Frances Keller e all’inserzione del femminismo nella criminologia indicano la presenza di un movimento di contestazione che piega gli strumenti offerti dalle discipline del sociale e da quelle mediche (inclusa l’eugenetica, con la quale il femminismo ha intrattenuto un controverso rapporto all’inizio del Novecento) per criticare la società presente il che significa, nel caso di Keller, spingersi fino a contestare il razzismo e l’eredità violenta della schiavitù.

In Italia, gli strascichi di Donna delinquente arrivano fino al dibattito sulla legge Merlin, rendendo evidente l’antagonismo sessuato che divideva il fronte socialista. Prima di quel momento, è la risposta della novellista e poetessa Anna Radius Zuccari che Montaldo valorizza per la sua chiarezza. Neera – questo lo pseudonimo di Zuccari ‒ a Lombroso risponde che «uomini e donne non sono maschio e femmina». In questa distinzione, in questa dicotomia tra natura e cultura, Montaldo trova certamente conferma delle proprie premesse, ovvero della possibilità di usare il «genere» come categoria di analisi storica, di analizzare come egli fa la costruzione culturale del sesso nel percorso genetico della criminologia anche se, nel periodo storico trattato, la categoria di «genere» non esiste. Problematizzando questo anacronismo, tuttavia, si può osservare che i materiali analizzati da Montaldo permetterebbero proprio di mettere in questione la distinzione tra natura e cultura che sta alla base della categoria di genere, verso una radicale storicizzazione del sesso. Misurato, soppesato, classificato, il corpo delle donne non ha nessuna stabilità anatomica, ma è oggetto e soggetto di contesa in un dibattito scientifico che, proprio perché si preoccupa di tutelare l’ordine sociale dal movimento che lo attraversa e lo minaccia, è eminentemente politico. L’aggettivo delinquente è uno dei segni del carattere storico del nome a cui è affiancato: senza ricorrere alla categoria di genere, anche in questo tratto della sua storia «donna» si rivela un concetto politico, reso continuamente instabile dal conflitto tra chi ha preteso di definire le donne per fissarne la subalternità sociale, e le donne che quella definizione e questa subalternità, da posizioni diverse, le hanno contestate.