Premessa
La convivenza con il sisma rappresenta un aspetto che ha profondamente caratterizzato, nei secoli, la storia dell’Italia appenninica. Città come Amatrice, L’Aquila, Norcia hanno conosciuto distruzioni in seguito alle quali sono state più volte ricostruite da architetti e maestranze, sulla base di patrimoni di saperi e acquisizioni che, nel tempo, si sono stratificati (Mantini 2020, 66; D’Antonio 2018, 67-76; Terenzi 2018). Proprio la perdita di questa cultura antisismica, soprattutto nei secoli XIX e XX, ha comportato alterazioni strutturali, interventi di manomissione e costruzione di nuovi edifici all’insegna di crescenti sottovalutazioni del pericolo.
Al di là dell’aspetto connesso al danno, i terremoti hanno rappresentato, nel lungo termine, motori di ripartenza e occasioni (talvolta mancate) di rinascita. Le reazioni al sisma si sono contraddistinte sulla base di fattori di ordine sociale in cui fondamentale è stato il ruolo assunto dalle istituzioni politiche e religiose e dai locali ceti dirigenti (Figliuolo 2010; Placanica 1982; Giuffrè e Piazza 2012; Condorelli 2013).
Questo articolo si sofferma su alcune vicende sismiche che, tra Sei e Settecento, hanno riguardato i territori di frontiera tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli e, quindi, sulle risposte da parte di comunità e istituzioni da un punto di vista sociale, culturale, politico e religioso. Particolare attenzione è rivolta al terremoto del 1639, a quello della primavera del 1646, e alla sequenza sismica che interessò nei primi mesi del 1703 l’area compresa tra Umbria e Abruzzo. Questi avvenimenti, nelle rispettive analogie e differenze, furono caratterizzati da un crescente coinvolgimento istituzionale nella gestione dell’emergenza.
Il riassetto delle comunità colpite dal sisma e la riqualificazione del tessuto urbano, culturale, sociale e religioso, nell’arco di alcuni decenni, riflettono elementi comuni. All’indomani dei terremoti avvenuti tra i secoli XVII e XVIII le istituzioni governative hanno messo in atto provvedimenti che ponevano al centro le questioni di natura fiscale e individuavano nell’esenzione un fondamentale strumento d’intervento in soccorso delle popolazioni (Cecere 2021, 71).
È soprattutto agli inizi del Settecento che si assiste a una stabilizzazione della pratica d’inviare nelle aree terremotate degli ufficiali con ampi poteri, incaricati di raccogliere o verificare le informazioni sui danni e sulle vittime, di coordinare i rifornimenti alimentari e di avviare le ricostruzioni di edifici e infrastrutture pubbliche (Bruno 2021).
Non trascurabile appare il ruolo di grandi aristocrazie e patriziati urbani nelle pratiche concernenti le ricostruzioni. Nel caso di Amatrice si assiste a un diretto intervento da parte degli Orsini, mecenati della rinascita della città, da cui si attendevano ampia visibilità. All’Aquila importante fu il coinvolgimento dei locali ceti dirigenti, che contribuirono a riedificare la città dopo il 1703 tenendo conto di tendenze aggiornate ai linguaggi artistici del barocco romano (Mazzanti 2018). Il terremoto si tradusse, al contempo, nell’ascesa di nuovi attori economici e politici che riuscirono a trarre profitto dalle pratiche speculative legate alla ricostruzione (Colapietra 1978).
Il rito, la celebrazione religiosa, il culto dei santi, le pratiche devozionali e comportamenti ai confini della superstizione sono apparsi le risposte più diffuse di fronte ai bisogni emotivi delle collettività (Palmieri 2008; 2013). Le sollecitazioni attinenti alla sfera spirituale variano sulla base del significato attribuito al terremoto dalla cultura locale (Castelli e Camassi 2004). Ai santi protettori era accordata una capacità di neutralizzare la calamità: nuove figure appositamente individuate furono ritenute responsabili di un’azione preservatrice nei confronti della città (Enea 2020, 318).
1. Amatrice, 1639
Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 1639, lungo il confine settentrionale del Regno di Napoli, si verificò un terremoto di considerevoli proporzioni, che «diroccò palazzi, chiese e case» [1] nei centri di Amatrice e Accumoli.
Si trattò di un evento con conseguenze rilevanti. Con le sue novantasei ville e i suoi 1184 fuochi, Amatrice rappresentava agli inizi del Seicento una delle principali universitates della provincia di Abruzzo Ultra: la sua popolazione era inferiore solamente a quella dell’Aquila, capoluogo del distretto (2.124 fuochi), Leonessa (1.906 fuochi) e Montereale (1.744 fuochi) (Bacco 1618, 171). Nel circondario di Amatrice vi erano comunità di dalmati e albanesi, attratti dalle possibilità lavorative offerte dall’economia locale, che risiedevano nelle cosiddette “ville di schiavoni” preservando i propri tratti culturali e linguistici.
Il sisma scompaginò questo assetto e produsse danni in tutto il circondario: crolli furono attestati nelle ville di Cantone, Conche, Filetta, Forcelle, San Martino e Scai. A distanza di una settimana, una nuova scossa provocò ulteriori devastazioni nella stessa Amatrice e la distruzione quasi completa delle ville di Casale, Collemoresco, Roccasalli, Rocchetta e Torrita.
Gravi conseguenze si verificarono a Campotosto, Poggio Cancelli e Montereale, in particolare nel palazzo dei Ricci, dove erano percepibili le conseguenze di un precedente sisma avvenuto l’11 agosto 1629 [2]. Il bilancio, secondo i dati riportati dalla relazione di Carlo Tiberi, ammontava a circa cinquecento vittime e fu contenuto dal fatto che il 7 ottobre si erano verificate due scosse “premonitrici” in grado di allertare la popolazione (Tiberi 1639a).
L’autore della cronaca, tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del Seicento, si era distinto a Roma come commediografo, drammaturgo, membro dell’Accademia dei Nascosti con il nome di “Disprezzato”, recependo mode e gusti diffusi in ambito aristocratico (Tiberi 1637; 1639b; 1641). Durante il pontificato di Urbano VIII, Tiberi si era avvalso della protezione del principe di Sulmona Marcantonio II Borghese e del principe di Amatrice Alessandro Maria Orsini, pubblicando opere di natura teatrale, in più casi su impulso di Michele Bona, stampatore-libraio attivo a Piazza Navona.
La relazione sul sisma di Amatrice era stata pubblicata, sempre a Piazza Navona, presso la bottega-abitazione dello stampatore Domenico Marciani, sensibile in quegli anni al tema dell’impatto sociale degli eventi di carattere naturale (Panaroli 1642). La cronaca di Tiberi non nasceva con intenti meramente documentari, narrativi e storiografici – e, quindi, per approfondire aspetti di natura sismologica e le conseguenze dell’evento – né si configurava come il resoconto di un funzionario coinvolto in prima persona nella gestione dell’emergenza. In linea con tendenze e artifici della propria epoca ravvisabili nella sua produzione teatrale, Tiberi poneva il dramma del sisma in relazione a esigenze di carattere encomiastico, omaggiando un personaggio di rilievo nella società romana quale il principe Orsini.
Il terremoto provocò danni e vittime in numerosi centri limitrofi; undici morti furono conteggiati nella vicina Accumoli che, con i suoi 463 fuochi, rappresentava un borgo di più ridotte dimensioni ma di fondamentale importanza per il controllo della frontiera con lo Stato papale. Proprio ad Accumoli si verificò anche il crollo della chiesa dei francescani e lo sprofondamento di una loro vigna.
Alle lesioni e ai crolli nelle strutture edilizie, quantificate fino a un milione di scudi, avrebbe ampiamente sopperito, per Tiberi, il principe di Amatrice Alessandro Maria Orsini, nobile romano, signore di Catino e Poggio Catino nella Sabina. L’autore della relazione si soffermava sulla ferita inferta all’economia locale dalla distruzione delle stalle e dalla morte del bestiame, fondamentale voce di introito per gli armentari e gli allevatori, e sulle immagini di desolazione che segnavano il vissuto degli abitanti, confinati in campagna sotto padiglioni [3].
All’indomani del sisma alcune ville di Amatrice furono definitivamente abbandonate, come nel caso di Santo Iorio, descritto nella relazione come «tutto sfracassato». La tendenza prevalente, però, fu quella di procedere con la ricostruzione della città e dei castelli per lo più nei luoghi in cui si trovavano prima del 1639 o comunque negli immediati paraggi.
Il terremoto, nell’Abruzzo Ultra, avveniva un anno dopo un’altra grave emergenza sismica che aveva interessato il Regno di Napoli e, nello specifico, le province calabresi, mentre la monarchia spagnola era alle prese con la Guerra dei Trent’Anni. Oltre a interpretare lo scenario apocalittico come il risultato di una punizione divina, la narrazione di Tiberi evidenziava i meriti del principe Orsini e dei religiosi giunti da Roma, sorvolando sulle opzioni di intervento frammentarie messe in atto da Napoli e Madrid in un territorio di frontiera marginale rispetto ai centri decisionali della Monarquía [4]. Sottolineava come il principe, «con ogni fervenza, personalmente si affaticava per sovvenimento de’ poveri, ordinando provedimento a tutti i bisognosi» (Tiberi 1639 a, 86).
Amatrice e Accumoli ricadevano nella giurisdizione della curia diocesana di Ascoli; nella città marchigiana non erano riportati danni a cose o persone per effetto della presunta intercessione miracolosa attribuita a sant’Emidio (Marcucci 1766, 430). All’indomani del sisma, ad Ascoli, fu fondata la Congregazione dell’Oratorio, che si stabilì negli anni Quaranta del Seicento proprio nel quartiere di Sant’Emidio, non lontano dal duomo: sant’Emidio e san Filippo Neri iniziarono ad accreditarsi nell’immaginario collettivo, ad Ascoli e non solo, spesso congiuntamente, come protettori dai terremoti e responsabili della preservazione dell’umanità.
Tiberi rimarcava come gran parte degli abitanti di Amatrice e del circondario avessero oltrepassato la frontiera cercando fortuna nello Stato papale proprio a Roma e ad Ascoli, dove si profilavano condizioni di maggiore sicurezza. La diminuzione della popolazione, all’indomani del sisma, desumibile dall’elenco dei fuochi di Amatrice (1.001) e Accumoli (336) nel 1669 (Nova situatione 1669, 92) riflette un trend sostanzialmente in linea con tendenze riscontrabili nella maggior parte dei centri dell’Abruzzo interno. L’eventualità di un inesorabile spopolamento del territorio, così come traspariva nella relazione “pontificia”, fu di fatto scongiurata da una lenta e graduale ricostruzione del tessuto collettivo e urbanistico che avanzò, sia pur con incertezze e difficoltà, nonostante il reiterarsi di eventi sismici nell’inverno del 1703 e nella primavera del 1730 (Cerasani 1990).
Una delle necessità che si palesarono ad Amatrice fu quella del recupero di un rapporto tra i cittadini e lo spazio sacro. Il sisma, d’altra parte, si era tradotto anche nella perdita della protezione apotropaica attribuita al corpo di san Giuseppe da Leonessa, grazie a cui «l’Amatrice è ritenuta famosa pe’ miracoli» e beneficiava del «concorso de’ divoti fin da paesi più lontani» [5]. Le reliquie, custodite gelosamente fino a quel momento nella chiesa dei cappuccini, furono trafugate dai leonessani, che approfittarono della circostanza per predisporre una spedizione di cinquanta cittadini armati e riappropriarsene, violando la civitas nella sua dimensione di sacralità [6].
Mentre fu avviato un contenzioso sulla questione del possesso delle reliquie, fu dato impulso al restauro dei principali edifici religiosi nei luoghi in cui si trovavano. A due anni dal sisma fu ampiamente risistemato l’interno della chiesa di San Francesco, già adornato con marmi finissimi dal principe Camillo Orsini (Orologi 1669, 201), con un altare ligneo realizzato dal pratese Marco Gigli (Ghisetti Giavarina 2017, 5-10). Proprio la chiesa dei francescani, una volta risistemata, avrebbe ospitato il sepolcro del principe Alessandro Maria, una volta venuto a mancare nel 1692, in un nesso di congiunzione volutamente riaffermato tra la sua casata e l’ordine francescano.
Un rapido impulso fu dato quindi al cantiere del restauro del palazzo degli Orsini, simbolo della presenza della famiglia nel territorio e del loro potere politico a livello locale. Considerevoli erano stati i danni subiti dalle logge e dalle strutture portanti dell’edificio. Vassallo del re di Spagna e nobile del Seggio di Capuana a Napoli, Alessandro Maria Orsini monitorò in loco i lavori di ricostruzione soggiornando per dei periodi proprio ad Amatrice, dove nel 1648 fu protagonista di un controverso caso di uxoricidio. In seguito all’assassinio della moglie, la duchessa di Assergi Anna Maria Caffarelli, analogamente appartenente a una delle principali famiglie romane, il principe fu processato e arrestato a Roma nelle carceri di Castel Sant’Angelo.
A trent’anni dal sisma, quando la ricostruzione poteva dirsi ultimata, la ristampa della biografia di Camillo Orsini poteva celebrare, insieme al suo avo, la munificenza di una casata sensibile alle problematiche del restauro degli edifici e attenta al governo dello Stato di Amatrice, al di là delle ombre riconducibili alla tormentata vicenda giudiziaria di Alessandro Maria e al successivo contezioso sul possesso del feudo.
2. Il terremoto del 1646
A sette anni dal terremoto avvenuto nei Monti Reatini e nei Monti della Laga, nella primavera del 1646 si registrarono nuovi movimenti della crosta terrestre, dal nord al sud della penisola, di cui si ebbe percezione a Livorno (5 aprile) e nell’area garganica (31 maggio), con risentimenti sporadici fino a Cremona [7]. Questi avvenimenti tellurici, in momenti diversi, causarono un elevato livello di allerta tra le popolazioni dell’Italia centromeridionale [8].
Nella città dell’Aquila si registrarono crolli di comignoli e di coperture degli edifici; in molti fuggirono in campagna, nei giardini o negli spazi pubblici lontani dalle abitazioni, improvvisando ripari di tavole per prevenire le conseguenze di eventuali crolli [9].
Alla metà del Seicento L’Aquila si presentava come una delle principali realtà urbane del Regno di Napoli, capoluogo della provincia di Abruzzo Ultra e sede dal 1641 della regia udienza. Dalla rilevazione dei fuochi del 1631 si poteva evincere che vi dimorassero 5.031 abitanti: di questi, 4.239 erano originari della città, 527 di vari luoghi del contado, 76 erano lombardi (De Matteis 1973, 135). L’infeudamento del vasto contado aquilano a capitani spagnoli e, in un secondo momento, a feudatari romani, napoletani e abruzzesi aveva posto fine, alla metà del XVI secolo, al regime di promiscuità politica ed economica tra la città e il suo comitatus.
Nel 1646, di fronte all’emergenza sismica, la risposta della città da un punto di vista sociale, culturale e religioso si tradusse in un insieme di iniziative in cui centrale fu il ruolo assunto dagli ordini religiosi, dalle congregazioni clericali e dalle confraternite. Nel mese di giugno furono predisposte processioni e manifestazioni pubbliche di una settimana per le strade e le piazze, dietro la guida di Giambattista Magnante, preposito dell’Oratorio di San Filippo Neri (futuro confessore e direttore di coscienza del cardinale Francesco Barberini). Atti di penitenza e mortificazione caratterizzarono il rito di difesa della città minacciata dal pericolo, con l’obiettivo di cancellare le colpe attribuite all’intera collettività.
Gli oratoriani invitarono i giovani e le donne a tagliare radicalmente i capelli e a gettarli «nella metà della piazza in un ampio fuoco» presso cui doveva ardere ogni segno di vita mondana [10]. Le processioni organizzate dai filippini coinvolsero fino a cinquemila persone e, con il loro potere di socializzazione, promossero riconciliazioni tra i cittadini, che l’evento calamitoso e la paura collettiva avevano posto in uno stato di scompiglio, così da “riconquistare” l’alleanza con Dio (Placanica 1985, 148; Pelizzari 1992, 130).
Nel contesto della pietà barocca, le processioni pubbliche oratoriane in Abruzzo sintetizzano elementi comuni con quelle che gli ordini regolari predisponevano, in quello stesso anno, in vari luoghi minacciati dal sisma. In un clima di ansia e tensione che oscillava tra peccato e salvezza, i religiosi scongiurarono il pericolo di ulteriori distruzioni inducendo alla penitenza i cittadini che, oltre a camminare incatenati a piedi nudi e a leccare le strade, si abbandonavano a momenti di fustigazione collettiva. Analogo al caso dell’Aquila appare quello che accadeva in altre aree del Regno: nel 1646 a Bitonto furono i gesuiti a realizzare, in concomitanza con il sisma, grandi manifestazioni pubbliche, dove ad andare in scena erano i simboli della Passione, in una rappresentazione collettiva della morte di Cristo in cui si enfatizzavano immagini di sofferenza. I religiosi, a Bitonto come all’Aquila, indossavano così corone di spine, portavano croci, funi al collo ed esibivano ossa di cadaveri e crani bruciati [11].
Rispetto alla preservazione della città i santi furono ritenuti fondamentali attori di riferimento e il culto fu portato avanti in tutte le possibili manifestazioni: è il caso dell’immagine, ritenuta miracolosa, di sant’Antonio da Padova, «dipinta in muraglia in stanza superiore» nel palazzo della nobile famiglia de Nardis [12]. Nel mese di luglio 1646 fu chiesta la licenza, prontamente accordata da Napoli, per l’edificazione di una nuova chiesa in onore del santo, nel luogo in cui sorgeva l’edicola contenente l’affresco che lo raffigurava con Gesù bambino e il giglio. L’edificio divenne sede dell’oratorio della Confraternita di Sant’Antonio, fondata da diversi esponenti della casata de Nardis, cavalieri dell’ordine di Santo Stefano e di Malta (Boero 2017).
La devozione al santo rappresentava una prerogativa fondamentale per le istituzioni municipali e per l’ordine francescano: il 28 giugno 1646, nel palazzo dei conventuali di San Francesco, il Magistrato si radunò alla presenza del governatore regio Juan de Cordoba; nella seduta consiliare, sant’Antonio di Padova venne nominato protettore dell’Aquila, in ragione del fatto che alla sua intercessione era attribuita la preservazione della città «in tempi così calamitosi, et in evidente pericolo di pubblica, et particolar rovina» [13]. I minori conventuali si impegnarono a concedere al Magistrato una copia delle chiavi della teca in cui custodiva la reliquia del santo, protettore dagli «horribili» e «formidabili» terremoti [14].
La prosecuzione dello sciame indusse il Magistrato, il 17 agosto, a tenere una nuova adunanza pubblica alla presenza del governatore. «Perché si vede che li terremoti che per tanti mesi travagliano questa città e suo contado ancora non cessano», in un’esasperata intensificazione della devozione collettiva, fu stabilito di coinvolgere nuovi attori sul piano sacrale. Nella chiesa di San Francesco di Paola fu fondato un altare questa volta dedicato alla Madonna di Montserrat, nominata in quella seduta come protettrice e avvocata della città [15]. Il culto era stato formalmente introdotto dal preside, il catalano Ramon de Zagarriga, che recava all’Aquila la «gloriosa e miracolosa immagine della Madonna di Monserrato di Spagna»: la devozione, nel pieno delle tensioni provocate dalla Guerra dei Trent’Anni e alla vigilia della rivoluzione del 1647, rifletteva una matrice politica volta ad assicurare la salvaguardia della città sotto la protezione di una Madonna spagnola cui era demandata anche la tutela della Monarquía.
Nella chiesa di San Francesco di Paola fu quindi eretta, in una solenne cerimonia, una confraternita di schiavi e schiave della Madonna di Monserrato, alla presenza del preside, del Magistrato, dei minimi e della principale accademia della città, quella dei Velati.
Il sisma del 1646, nel frattempo, attivava anche altri tipi di risposte che finirono a Roma all’attenzione del Santo Uffizio. Il vicario capitolare dell’Aquila, Filippo Colantonio, faceva presente all’Inquisizione romana come, in risposta alla paura innescata dalle scosse, si erano diffusi «esperimenti sortileghi» e comportamenti diabolici [16]. Si poneva il problema se fosse possibile concedere a due penitenti l’assoluzione, dal momento che entrambi rifiutavano di rivelare ai confessori chi li avesse introdotti agli «experimenta magica» [17].
Di fronte allo scampato pericolo, i sopravvissuti e i testimoni iniziarono ad avvertire il bisogno e il dovere morale di raccontare gli eventi e condividerne la memoria (Kuijpers 2013). Lo sgomento determinato dagli eventi del 1646 induceva il minore osservante Filippo da Secinaro, contemporaneo dei terremoti dell’Aquila e di Amatrice, a dare alle stampe all’Aquila un Trattato universale di tutti li terremoti fino ad allora esistiti (Filippo da Secinaro 1652). Si trattava di una summa su un argomento avvertito come attuale in Abruzzo in quei decenni: la sistematizzazione delle passate e più recenti esperienze trovava nelle narrazioni del disastro un medium di riflessione e di elaborazione, anche alla luce di sensibilità religiose coeve (Stock e Stott 2007).
3. Norcia, 14 gennaio 1703
Nell’Italia centrale, durante la seconda metà del XVII secolo, si verificò un’attività sismica più contenuta; si registrano per lo più danni localizzati, come nel caso del sisma del 1667 che interessò soprattutto l’area spoletina.
Il nuovo secolo, invece, si aprì con una grave emergenza che interessò, in momenti e luoghi diversi, l’area appenninica. Un lungo sciame, iniziato nell’ottobre del 1702, culminò in una scossa di notevole entità che il 14 gennaio del 1703 si abbatté su Norcia e Cascia nello Stato Pontificio. Furono interessati dall’evento anche alcuni abitati situati dall’altra parte della frontiera nel Regno di Napoli, tra cui Montereale, Leonessa e Cittareale, che già avevano gravemente subito gli effetti del sisma del 1639 (Comino 2007, 285-90). Nella relazione pubblicata nel 1704 da Lucantonio Chracas si legge come fossero morte circa ottocento persone nella sola Norcia e seicentottanta a Cascia; danni e vittime erano registrati ad Arquata del Tronto, Cerreto di Spoleto, Preci, Serravalle, Trevi e in altre località (Petrucci, Lapucci e Lapucci 2020, 1339).
In seguito alla scossa del 14 gennaio nel palazzo consolare di Norcia, crollato in buona parte per effetto della scossa, erano rimasti sepolti sotto le macerie cinque signori del Magistrato di una città che, nell’immediato, si trovava così paralizzata anche da un punto di vista politico. La torre, in corrispondenza della Porta de’ Massari, era per «più della metà diroccata, e il rimanente in atto di cadere»; le mura si presentavano tutte «come se fossero state battute da cannone, tutte infrante e atterrate» (Chracas 1704, 9). Numerose abitazioni erano in gran parte «demolite da’ fondamenti»; tra le poche strutture a restare in piedi vi era il palazzo della Castellina, mentre l’oratorio del gonfalone si mostrava «in più parti diruto», così come la sede del monte di pietà (ivi, 10).
La devastazione del monastero femminile di Santa Lucia aveva provocato la morte di cinque consorelle e costretto le monache a trasferirsi provvisoriamente in quello della Pace e a vivere tra le baracche dei secolari, generando inedite problematiche nell’osservazione della clausura [18]. A crollare era anche uno dei simboli di Norcia, la chiesa di San Francesco, il cui soffitto era franato insieme alle pareti. Meno evidenti furono invece i danni subiti dalla basilica di San Benedetto – devastata dal più recente sisma del 30 ottobre 2016 – dove si verificarono rilevanti crepe nelle pareti e il crollo della tribuna (Gigliozzi 2019).
Analogamente ad Amatrice, la città di Norcia aveva un rapporto di forte integrazione politica ed economica con le sue 51 ville e i castelli del circondario. Gli effetti dello spopolamento nella città umbra assunsero proporzioni eclatanti: il numero di abitanti del distretto nursino, che intorno al 1640 si aggirava intorno ai 30.000, nel 1708 si era contratto fino a poco più di 10.000 unità (di cui circa 3.500 abitanti risiedevano nella città e 7.000 nelle ville) (Lattanzi 1994, 530; Boschi 1998, 62).
Il compito di provvedere «al sovvenimento e al riparo» della Prefettura della Montagna fu affidato a monsignor Pietro De Carolis, allora governatore di Terni, a cui la Sacra Consulta conferì da Roma ampi poteri e quattromila scudi per i sussidi iniziali. In Umbria, così come nel terremoto abruzzese dello stesso anno, si assiste a un crescente coinvolgimento dei commissari nelle pratiche concernenti il riassetto delle comunità interessate dall’evento tellurico. Dopo aver visitato tutta la zona disastrata, quantificati i danni e distribuite le elemosine, De Carolis varò provvedimenti volti a evitare la disgregazione dei centri del circondario nursino e, in particolare, il divieto di abbandono dei luoghi di origine (Grassi Fiorentino 1984, 150).
La necessità di mettere la popolazione al riparo si tradusse nella realizzazione di due siti fuori dall’abitato, destinati a ospitare le baracche provvisorie presso cui si trovava «tutto il necessario per il vitto, e mantenimento» (Chracas 1704, 160). Una particolare attenzione fu rivolta a una riorganizzazione delle problematiche cultuali. Furono edificate nuove cappelle e altari in campagna e nel contado e vennero restaurati siti religiosi extra-urbani, come la chiesa della Santissima Annunziata dei padri zoccolanti, non molto distante dalle mura, che potevano assumere un’inedita centralità nella nuova provvisoria geografia insediativa. Si ritenne necessario provvedere a una redistribuzione dei sacerdoti nelle varie aree in cui vi fossero state carenze e si richiedessero particolari necessità nella cura d’anime.
La percezione del disastro era attenuata dal racconto di eventi prodigiosi. All’intercessione di san Filippo Neri veniva attribuita la miracolosa sopravvivenza degli oratoriani di Norcia, rimasti illesi dalla distruzione del loro convento (Relatione d’un miracolo 1703; Narrazione di un miracolo 1703). Proprio gli oratoriani celebrarono una solenne funzione di ringraziamento a Roma, il 25 marzo 1703, nella chiesa nuova di Santa Maria in Vallicella. La paura dei sismi trovava nel culto dei santi, a Norcia, una risposta rassicurante rispetto alle aspettative e alle sensibilità delle popolazioni terremotate.
A Cascia, per motivi di sicurezza, fu disposta la traslazione del corpo della beata Rita dall’altare della sua chiesa, dove era tradizionalmente venerata, nella cappella realizzata nei pressi delle baracche dell’orto delle monache.
La risposta religiosa e rituale al terremoto del 1703 fu monitorata da Roma da Clemente XI. Subito dopo la scossa fu indetta un’indulgenza plenaria per il 16 gennaio e il giorno successivo fu concesso un Giubileo. Queste forme di remissione straordinaria delle pene davano avvio all’attività penitenziale e purificatoria, volta alla «riconciliazione con Iddio», in forme di drammaticità spettacolare (Grassi Fiorentino 1984, 147).
Il terremoto del 14 gennaio lasciò una fortissima impressione a Roma, dove si verificarono danni in alcuni edifici. Il popolo e il senato romano, con il permesso del pontefice, emisero un voto alla Vergine e ai protettori di Roma, gli apostoli Pietro e Paolo, come segno di ringraziamento per la preservazione della città [19]. Il voto prevedeva che quattro ceri di ottanta libbre ciascuno, finemente lavorati in cera veneziana e con l’immagine degli apostoli e l’impresa del pontefice e del popolo, fossero condotti e arsi nella basilica di San Pietro. A seguire, si doveva svolgere una messa cantata nella chiesa dell’Araceli alla presenza dei cardinali e dell’intero corpo municipale. Si stabilì l’obbligo, per il Magistrato, di assistere per un anno intero alle litanie della Vergine nella chiesa di Santa Maria in Campitelli e il divieto per cinque anni di tenere le celebrazioni del carnevale.
Nonostante il crollo del palazzo consiliare e la scomparsa di alcuni funzionari, sia a Norcia che a Cascia le istituzioni municipali riuscirono a mettere in salvo ciò che restava dell’archivio pubblico: si trattava di una problematica considerata di prim’ordine per il riassetto e per la memoria dell’intera comunità. Sempre a Norcia furono recuperati, dalle macerie del palazzo consiliare, i magazzini della pubblica annona e gli argenti della comunità. A Cascia, tra le priorità, fu individuata quella di un pronto rifacimento delle carceri, cui lavorarono ininterrottamente i muratori, dal momento che le strutture detentive non potevano più ospitare i prigionieri.
De Carolis era persuaso anche dell’urgenza di una militarizzazione dell’area. Il potenziamento del numero di birri, suddivisi in pattuglie, appariva necessario a fronte di un incremento di furti di beni mobili trafugati tra le rovine. L’incremento delle ronde mattutine e notturne intorno alle baracche rispondeva, pertanto, alla necessità di un più attento controllo del territorio e all’esigenza di sedare disordini. Per prevenire invasioni di malviventi, in un territorio costantemente esposto ai pericoli del banditismo, furono rafforzati i presidi soldateschi nei pressi del confine di Stato, tra le comunità di Cascia e Leonessa.
La ricostruzione in Umbria interessò i primi due decenni del secolo e subì una momentanea battuta d’arresto in seguito agli eventi sismici che colpirono nuovamente Norcia nel 1730, compromettendo il lavoro fino ad allora svolto (Mannocchi 1859, 8). Una serie di epigrafi, parallelamente, documentava il meticoloso avanzamento dei lavori di riedificazione che interessarono le principali chiese, il palazzo consolare e il campanile medievale della città (Boschi 1998, 257).
4. L’Aquila, 2 febbraio 1703
Le scosse del 14, 15 e 16 gennaio, insieme a quelle delle due settimane successive, furono avvertite nitidamente anche dall’altra parte della frontiera, dove l’evoluzione dello sciame era seguita con moderata apprensione. Il momento gioioso della festa della Candelora e dell’imminente Carnevale, nel mese successivo, si rivelò un inatteso palcoscenico di tragedia: il 2 febbraio del 1703, prima del mezzogiorno e nel pieno delle celebrazioni religiose, un forte terremoto, questa volta all’Aquila, seppellì duemilaquattrocento cittadini sotto le macerie [20]. Numerose chiese rimasero distrutte e danneggiate ed elevatissimo fu il numero dei feriti e dei mutilati [21].
Il marchese della Rocca, Marco Garofalo, inviato da Napoli in qualità di commissario straordinario all’emergenza, intervenne in loco per scoraggiare l’eventualità di un abbandono del capoluogo abruzzese e di un trasferimento definitivo dei suoi abitanti dall’altra parte della frontiera, nello Stato Ecclesiastico (Colapietra 2002, 497 e 512). L’evento del 2 febbraio si collocava nel contesto di una migrazione dell’attività sismica dall’area nursina verso quella aquilana (Guidoboni 2017, 417).
All’Aquila si registrano, nell’immediato, narrazioni di miracoli ed eventi prodigiosi, che ripropongono topoi diffusi e vedono ancora una volta protagonisti i medesimi santi. Nella chiesa di San Filippo Neri, dove morirono trenta persone per il crollo della cupola, fu estratta viva dalle macerie l’ascolana Vittoria Ferretti: il suo salvataggio fu attribuito all’intercessione di sant’Emidio, nominato nel 1732 protettore del clero aquilano. All’indomani di un nuovo sisma, il 6 ottobre 1762, nel duomo fu istituita un’apposita confraternita intitolata proprio a sant’Emidio, con l’intento di rafforzare il culto del vescovo ascolano, cui fu attribuita la preservazione della città [22].
Nel 1703 una rapida attestazione di risposta degli aquilani è rappresentata dalla seduta consiliare del 19 febbraio, svolta senza essere annunciata da campane o trombe, davanti alla baracca del duomo, per ordine del marchese della Rocca. In un consiglio decimato dalla scomparsa del camerlengo Alessandro Cresi e del grassiere Nicola Romanelli [23] si stabilì di fare ripartire il lavoro delle assemblee municipali derogando al principio di ammettere i diretti eletti, accogliendo tutti coloro che avessero inteso presenziare [24].
Nel contesto emergenziale, la città di antico regime si apriva a forme inedite di partecipazione democratica, che andavano a sovvertire equilibri plurisecolari. Nella percezione delle istituzioni municipali, la necessità di deliberare alla presenza di un adeguato numero di persone e di individuare soluzioni di interesse comune rendeva auspicabile di implementare temporaneamente il dialogo tra le varie componenti sociali, «fin’a tanto che la città si ridurrà in miglior stato» [25].
Le delibere dei giorni successivi, custodite nel Libro delle Riformagioni presso l’Archivio di Stato dell’Aquila, si occuparono di molteplici questioni, come quella dello spurgo delle strade e dell’immondizia nella Piazza del Duomo, riempita disordinatamente da baracche e chiese di tavole [26]. Un altro problema che si cercò di risolvere e veniva lamentato era quello relativo alle speculazioni da parte dei maestri fabbricatori nelle pratiche inerenti la ricostruzione, a fronte di arbitrarie pretese di somme esorbitanti. Le riformagioni insistevano anche su altri aspetti, come quello inerente la sicurezza delle strutture provvisorie: nelle baracche non dovevano esserci «fabriche di niuna sorte di pietre, o mattoni, ma di semplici legnami»: il legno, sulla base della cultura antisismica dell’epoca, era considerato materiale più sicuro della pietra [27].
L’area colpita dal terremoto poté beneficiare di un’esenzione dai pagamenti ordinari e straordinari per un periodo di tempo variabile a seconda della gravità dei danni nelle singole comunità che, per L’Aquila, fu stabilito in dieci anni, a partire dal 1703 (Mantini 2016, 44). Iniziarono quindi le riparazioni di edifici e acquedotti mentre proseguivano gli interventi emergenziali (Antonini 2010, 38) fino a quando, gradualmente, «si disimbarazzò la piazza del Duomo, caricata d’infinite baracche» (Raguaglio 1703, 11).
Il terremoto, nel medio termine, determinò anche all’Aquila un declino demografico: ancora nel 1712 la popolazione cittadina era stimata intorno ai 2.684 abitanti; solamente nel 1719 il numero degli abitanti, raggiungendo le 4.201 unità, tornava ad avvicinarsi ai livelli dell’epoca pre-sisma (De Matteis 1973, 172).
Le problematiche di carattere educativo furono appannaggio degli ordini religiosi e, in particolare, del collegio dei gesuiti e dei monasteri femminili. I gesuiti inviarono da Napoli missionari per fornire un supporto alla popolazione terremotata: nel luglio del 1705 giungeva all’Aquila Francesco de Geronimo, futuro santo, su richiesta del vicario capitolare Domenico Benedetti (Sodano 2006, 159-72). La sua predicazione prendeva avvio nella piazza del duomo: le rovine degli edifici sollecitavano nel predicatore argomenti per incitare i fedeli a fare penitenza. Nelle processioni gesuitiche ad andare in scena erano cadaveri estratti dalle macerie ed esibiti solennemente al pubblico; numerosi cittadini recavano in bocca ossa di morti, ripetendo il macabro rituale di leccare le strade per placare la collera divina.
Si segnalò sopra tutti la Congregazione chiamata di S. Marco, di cui alcuni nobili andando in Processione portavano fra le mani un mezzo cadavero scavato dalle rovine della Città: un altro, dal largo dela piazza andò carponi, e strascinando la lingua per terra fin’alla chiesa fatta di tavole, in cui assistevano alla missione le donne (De Bonis 1747, 122).
Fondamentale per i gesuiti e, in particolare, per Francesco de Geronimo, era il controllo su comportamenti giudicati socialmente sconvenienti, considerati tra le possibili cause dei terremoti. Centrale in questo senso era il tema della conversione di “persone scandalose” e, più precisamente, delle meretrici, considerate numerosissime per una città come L’Aquila [28]. Alle prostitute si chiedeva di compiere atti di pietà e di reale pentimento; uno degli obiettivi previsti nella missione gesuitica fu quello della reclusione delle “convertite” in appositi conservatori di educazione (De Bonis 1747, 122).
Il sisma esercitò una fortissima impressione anche nella capitale. Nel marzo di quell’anno, a Napoli si tennero reiterate novene in onore di san Francesco Borgia, del quale si invocava la protezione: le processioni in suo onore ebbero come protagonista la statua, sontuosamente addobbata, in un contesto di severe penitenze e mortificazioni volte a garantire la preservazione della città [29].
Anche all’Aquila, come a Norcia, una delle principali problematiche riguardava il ricovero delle monache, su cui la congregazione dei vescovi e dei regolari scriveva al vicario capitolare, nel timore che fossero abbandonate alle insidie del mondo e dell’inverno. A prevalere fu la loro volontà di restare nelle baracche edificate nei giardini dei monasteri, «essendo tenacissime delle loro abitazioni ed ostinate in voler morire dove hanno professato» (Colapietra 2002, 508).
All’indomani del sisma sono attestati vari esempi di “casa baraccata”, resisi visibili dopo i terremoti del 1703 e del 2009, consoni alla tecnologia settecentesca, con all’interno delle murature una vera e propria armatura lignea. La circolazione della cultura antisismica nell’Europa del Settecento veicolò nuove acquisizioni che misero in contatto molteplici sperimentazioni scientifiche.
Passata la fase dell’emergenza, la ricostruzione fu condotta nel segno di una certa continuità con il passato e nell’ottica di recuperare il recuperabile con accorgimenti innovativi. Se da un lato persiste l’impiego del mattone per costruire sia le volte che le pareti, dall’altro si assiste all’impiego di volte di mattoni in foglio a unico strato: si trattava di soluzioni verosimilmente importate dalla Spagna e diffuse nell’Italia appenninica, in particolare in Umbria e nelle Marche (Fiorani 2010, 256-7).
Il ceto patrizio investì notevoli risorse in una edilizia residenziale di rappresentanza che modificò l’immagine della città, mediante nuove residenze di prestigio oppure, nel caso di edifici impostati su cortili interni, inglobando ambienti e rinnovando i prospetti sulla base di disegni ispirati alle grandi dimore romane (Del Pesco 2013, 88).
La rinascita della città si colloca durante il passaggio istituzionale dalla monarchia spagnola all’impero degli Asburgo d’Austria, ed era ormai a buon punto intorno agli anni Trenta del Settecento. La ricostruzione divenne motivo di attrazione per individui, spesso provenienti dal contado, all’avventurosa ricerca di opportunità lavorative. È in questo contesto che, nei libri delle riformagioni, si moltiplicano le richieste di “cittadinanza aquilana” da parte degli abitanti del circondario che, in seguito all’ottenimento della concessione, si sarebbero impegnati a pagare tutti i pesi dovuti. L’obiettivo, per coloro che presentavano domanda, era di essere “ragguagliati” e “ricevuti” tra i cittadini, stabilizzarsi in loco e intraprendere autonomamente mansioni connesse all’economia della ricostruzione [30]. Il sisma divenne l’occasione per attuare interventi edilizi e urbanistici che stavano prendendo piede in molte città europee [31].
I risultati conseguiti nel processo di ricostruzione furono rilevanti se, nella seconda metà del secolo, Giuseppe Maria Galanti si trovava a celebrare la bellezza di una città nella quale erano spariti i segni del terremoto.
Molti cittadini edificano a Napoli delle case magnifiche, ma esse sono ben lontane dalla semplicità e dall’eleganza. Forse nell’interno non sono comode quanto potrebbero essere. Nell’Aquila, ch’è una città provinciale, io ho trovato molto gusto e grandiosità negli edifizj, e questo deriva perché gli Aquilani seguono più l’esempio di Roma che quello di Napoli (Musi 2016, 268).
Conclusioni
Le operazioni ricostruttive messe in atto ad Amatrice, Norcia, L’Aquila e nelle aree limitrofe, nei decenni successivi agli eventi esaminati, hanno comportato un rifacimento dei rispettivi centri storici che, al di là dei danni provocati da successivi sismi e dei mutamenti urbanistici avvenuti nei secoli XIX e XX, hanno a lungo ampiamente preservato la propria fisionomia fino ai più recenti terremoti del 2009 e del 2016-2018.
Non furono sperimentate soluzioni radicalmente innovative: a differenza della catastrofe del 1693 in Sicilia (Martínez 2019), che indusse a costruire nuovi abitati con differenti planimetrie in altri siti (come nei casi emblematici di Noto e Avola), nell’area appenninica si privilegiò la tendenza al recupero e alla riqualificazione del sito danneggiato e distrutto.
I processi di ricostruzione, nei casi presi in esame, riflettono molteplici punti comuni. Tra Sei e Settecento si assiste a un crescente intervento, da parte degli apparati statali, nelle fasi di gestione dell’emergenza. Il sisma fu, parallelamente, motivo di apprensione nelle città capitali, Napoli e Roma, informate costantemente su quanto accadeva ai confini e nelle periferie colpite dalle catastrofi.
L’attenzione delle istituzioni politiche non si tradusse però in direttive sistematicamente coordinate dal governo centrale che andassero al di là delle necessità individuate localmente dai commissari preposti (Varriale 2021). Le principali forme di intervento furono sporadiche e vennero attivate per lo più in risposta a richieste di pareri e sollecitazioni.
Fino ai primi decenni del XVIII secolo, in altre parole, la via “moderna” nella reazione al disastro risulta per lo più caratterizzata da strategie di contrasto all’emergenza in cui le istituzioni statali mostrano un coinvolgimento effettivamente limitato. Solamente dopo il terremoto di Lisbona (1755) lo Stato iniziò ad assumere un ruolo nevralgico nella gestione delle vicende sismiche, come si evince nel terremoto del 1783 e nelle calamità successive (Mantini et al. 2020).
Nei terremoti di inizio Settecento si assiste, parallelamente, a una crescente delega di poteri da parte del centro nei confronti di funzionari provinciali e ministri locali, incaricati di governare con poteri pieni straordinari le situazioni emergenziali che interessavano l’Italia appenninica, analogamente ad altre aree europee. L’esigenza di conoscere meglio le problematiche e le esigenze del territorio riflette l’esigenza di un maggiore controllo, rintracciabile a partire dalle emergenze che si verificarono a partire dalla seconda metà del XVII secolo (Fusco e Sabatini 2021, 166-7).
Nel rinunciare parzialmente agli introiti fiscali attraverso sgravi in favore della popolazione, lo Stato si disimpegnava, di fatto, rispetto a una più ampia progettualità di spesa. L’onere della riparazione dei danni, quindi, veniva a pesare in gran parte sui singoli proprietari che, al di là di una ristretta fascia di cittadini abbienti, dovevano farvi fronte con risorse economiche esigue. Le risposte ai terremoti distruttivi, generalmente, si risolsero pertanto in più casi in interventi effimeri o di scarsa qualità (Guidoboni e Ferrari 2004, 80-1). A prevalere furono le iniziative privatistiche e l’assenza di un’effettiva programmazione e di un controllo sistematico nelle pratiche concernenti la ricostruzione urbana.
I sismi forniscono spunti di riflessione sul tema delle opzioni messe in atto dagli abitanti anche rispetto a un tema attuale come l’utilizzo degli spazi pubblici. All’Aquila, nel 1703, i cittadini – a differenza di oggi – si adoperarono per mantenere nella piazza il mercato del sabato, nel contesto di un rapporto con il centro storico avvertito come irrinunciabile per il riassetto delle comunità terremotate. Analogamente, dopo il 1639, ad Amatrice fu privilegiata una strategia di ripopolamento del centro storico nell’ottica di un riavvio delle principali attività manifatturiere e commerciali. Attualmente, il centro della città si presenta invece come un cantiere militarizzato, a fronte della nascita di nuovi spazi pubblici nelle periferie: eppure, l’Area Food, in località San Cipriano, non è percepita dagli abitanti come un centro di socialità aggregativo; gli stessi centri commerciali sono vissuti in maniera problematica e divisiva in termini di impatto sulla città del futuro (Sabatini 2018, 112). Persino a Norcia, dove appare attuabile nel centro un restauro filologico dei principali monumenti e il rilancio delle piccole attività produttive e commerciali legate al settore agroalimentare, si registrano incognite e incertezze nella ripartenza del cuore della città e dei suoi spazi pubblici (Brighenti 2021, 33).
Tra le maggiori preoccupazioni individuate dai commissari nelle aree terremotate, tra Sei e Settecento, vi fu quella di un’attenta supervisione su furti e speculazioni, e quella di assicurare un conveniente ricovero agli ordini monastici, in particolare femminili. L’elemento devozionale appare un fondamentale collante per comunità, di cui si cercò con successo di disincentivare lo spopolamento e l’abbandono, in particolare verso i territori situati dall’altra parte della frontiera. Al binomio sant’Emidio-san Filippo Neri fu attribuita fiduciosamente la possibile miracolosa preservazione della città da nuovi più grandi danni che compromettessero future rinascite. Gli interventi di tipo assistenziale condotti nei contesti presi in esame dalle confraternite laicali, per certi versi, creano lontane premesse rispetto al corposo associazionismo che si è sviluppato nei più recenti sismi.
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- — 2011. “Da Carlo I d’Angiò a Guido Bertolaso. Una lunga storia di cantieri e distruzioni.” In Il terremoto dell’Aquila. Analisi e riflessioni sull’emergenza, a cura dell’Osservatorio sul terremoto dell’Università degli Studi dell’Aquila, 63-73. L’Aquila: L’Una.
- Relazione de’ danni fatti dall’innondazione e terremoto nella città dell’Aquila ed in altri luoghi circonvicini dalli 14 del mese di gennaro fino alli 8 del mese di febraro 1703. 1703. Roma-Jesi: Alessandro Serafini.
- Relazione, o vero itinerario fatto dall’auditore D. Alfonso Uria de Llanos per riconoscere li danni causati dalli passati terremoti seguiti li 14 gennaro, e 2 febraro 1703 nella provincia dell’Aquila, e tutti li luoghi circonvicini per darne di essi distinta notizia al signor viceré di Napoli. 1703. Roma: Gaetano Zenobj.
- Sabatini, Francesca. 2018. “Lo spazio pubblico nel post-sisma 2016-2017: mercificazione turistica e tentativi di riappropriazione dei luoghi nel caso di Amatrice.” Geotema 62: 109-18.
- Saggio delle cose ascolane e de’ vescovi di Ascoli nel Piceno dalla fondazione della città sino al corrente secolo decimottavo. Publicato da un abate ascolano. 1766. Teramo: Consorti e Felcini.
- Sodano, Giulio. 2006. “Francesco de Geronimo: motivi e contesto di un successo devozionale.” In Nelle Indie di quaggiù: San Francesco de Geronimo e i processi di evangelizzazione nel Mezzogiorno moderno, atti del convegno di studio (Grottaglie, 6-7 maggio 2005), a cura di Mario Spedicato, 159-72. Galatina: Panico.
- Stock, Angela, e Cornelia Stott, a cura di. 2007. Representing the Unimaginable. Narratives of Disaster. Frankfurt am Main: Peter Lang.
- Terenzi, Pierluigi. 2018. “Earthquakes, Society and Politics in L’Aquila in the Fourteenth and Fifteenth Centuries.” In Disaster narratives in early modern Naples: politics, communication and culture, a cura di Domenico Cecere, Chiara De Caprio, Lorenza Gianfrancesco e Pasquale Palmieri, 93-108. Roma: Viella.
- Tiberi, Carlo. 1637. Li tre amanti burlati comedia nova. Del sig. Carlo Tiberi romano il Disprezzato Accademico Nascosto. Terni: Maurizio Bona.
- — 1639a. Nuova, e vera relatione del terribile, e spaventoso terremoto successo nella città della Matrice, e suo Stato, con patimento ancora di Accumulo, e luoghi circonvicini, sotto li 7 del presente mese di Ottobre 1639. Con la morte compassionevole di molte persone, la perdita di bestiami d’ogni sorte, e con tutto il danno seguito fino al corrente giorno. Roma: Domenico Marciani.
- — 1639b. Efcharistumerotos overo i contenti d’amore. Comedia nuova del signor Carlo Tiberi romano. Il Disprezzato Accademico Nascosto. Roma: Stamperia di Antonio Landini in piazza Navona, all’insegna della Palla d’oro.
- — 1641. Hoggi corre quest’usanza: comedia nuova, e ridicolosa del sig. Carlo Tiberi romano. Dedicata all’illustrissimo ed eccellentissimo Signore, il principe di Sulmona. Ronciglione-Roma: Maurizio Bona libraro al Morion d’Oro in piazza Navona.
- Varriale, Gennaro. 2021. “L’informazione sui terremoti nella Monarchia ispanica (secoli XVI-XVII).” Mediterranea. Ricerche storiche 18: 151-80.
Note
1. Biblioteca “Salvatore Tommasi” dell’Aquila (da ora BST), Ms. Antin. 39, A.L. Antinori, Annali degli Abruzzi, vol. XXII/1, c. 450.
2. L’11 agosto 1629 un violento sisma colpì il circondario di Montereale, nello Stato Farnesiano di Abruzzo. Nella città si verificò la distruzione della torre di Sant’Agostino e di parte della chiesa; nella vicina villa di Mascioni, invece, i crolli provocarono un imprecisato numero di vittime.
3. BST, A.L. Antinori, Annali degli Abruzzi, vol. XXII/1, c. 450. Cecere 2017; Galadini e Galli 2007.
4. Sulle relazioni e sulle scritture del disastro, De Caprio 2018; Gianfrancesco 2018; Montuori 2018.
5. BST, A. L. Antinori, Annali degli Abruzzi, vol. XXII/1, c. 448.
6. Ibidem.
7. La citazione è in BST, Ms. 48, F. Ciurci, Familiari ragionamenti delli Commentarii et Annali dell’Aquila, c. 263v. Per le distruzioni avvenute nel 1646 in Puglia in seguito alla scossa del 31 maggio 1646, Campanelli 2013.
8. Sugli epicentri degli eventi del 1646, Boschi 1998, 276-277 e 504.
9. BST, Ms. Antin. 40, A. L. Antinori, Annali degli Abruzzi, vol. XXII, t. 2, cc. 617-619.
10. F. Ciurci, Familiari ragionamenti, c. 265r.
11. Si rammentava come «importa molto, per augumentar la devotione, che non sia molto familiare il discoprir l’imagine di nostra Signora di Monserrato, onde si haverà da osservare di non scoprirsi, se non quando da’ fratelli si faranno le sovramentionate funtioni, et essercitij spirituali, overo quando andarà a visitarla l’Illustrissimo Signor Preside, et Signora Donna Giovanna sua consorte, overo dopo l’absenza di lui, ch’altri nominarà in suo loco». Archivio di Stato dell’Aquila (da ora ASAq), Notarile, Giovanni Vespetti, b. 787, vol. XIX, c. 62r-v.
12. Archivio di Stato di Napoli, Cappellano Maggiore, Statuti e Congregazioni, b. 1183, fasc. 33, L’Aquila, 2 luglio 1646.
13. ASAq, Archivio Civico Aquilano (da ora ACA), Liber reformationum, T 32, seduta del 28 giugno 1646, c. 283r.
14. Ibidem.
15. ASAq, ACA, Liber reformationum, T 32, c. 283r.
16. Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (da ora ACDF), St. st., LL 3 e, Lettera del vicario capitolare Filippo Colantonio, L’Aquila, 6 luglio 1646.
17. ACDF, St. st., LL 3 e, Lettera del vicario capitolare Filippo Colantonio, L’Aquila, 30 novembre 1646.
18. I danni successivi al sisma si evincono anche in Archivio Storico Diocesano di Spoleto, Visite Pastorali, Visita Pastorale di Carlo Giacinto Lascaris, v. 1 (1713) e nella successiva visita tenuta da Pier Carlo de Benedictis, v. 3 (1729).
19. Biblioteca Apostolica Vaticana (da ora BAV), Urb. Lat. 1699, cc. 66v-67r.
20. Colapietra 2013; Ciranna e Vaquero Pineiro 2003; Casti 1890; Cappa 1871.
21. BAV, Urb. lat. 1699, ff. 187r-204r. Durante le celebrazioni della Purificazione nella sola San Domenico rimasero sepolte intorno alle seicento persone (Raguaglio 1703, 11; Relazione de’ danni 1703, Relazione, o vero itinerario 1703).
22. ASAq, Prefettura, Serie Opere Pie, Circondario di Aquila, fasc. 1 (4), Confraternita di S. Emidio. Ciascun mercoledì, in segno di devozione, i confratelli partecipavano alla cerimonia di esposizione della reliquia del santo inviata da Ascoli e ogni anno intervenivano nelle processioni di ringraziamento in suo onore, individuando nel rito uno strumento di preservazione della civitas.
23. Figura di nomina regia ed espressione del locale ceto dirigente, il grassiere, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, era chiamato nelle universitates del Regno a occuparsi di questioni concernenti l’approvvigionamento annonario e il rifornimento del grano; gradualmente le sue mansioni si estesero fino al punto che, «di mano in mano s’intromise a tutto il negotio pubblico, né può farsi cosa alcuna tra gli Eletti in cose concernenti l’amministratione, che non ne sia consapevole il Grassiero». Capaccio 1634, 639.
24. ASAq, ACA, Liber Reformagionum, T 37, 1703-1710, c. 2r-v.
25. Ivi, c. 2v.
26. Ivi, cc. 5r-6r.
27. Ivi, c. 8r.
28. Archivum Historicum Societatis Iesu, Neap. 76, 1705, Litterae Provinciae Neapolitanae, Conversiones, c. 354r.
29. ARSI, Neap. 76, 1703, Copia di lettera del P. Michele Oronoz Rettor del Collegio di S. Saverio di Napoli scritta in data de 3 marzo 1703 al P. Generale tradotta dalla lingua spagnola nell’Italiana, c. 341r.
30. ASAq, ACA, Liber Reformationum, T 37, 1703-1710, anno 1709, c. 134.
31. Redi 2008, 109-14; Del Pesco 2009, 125-35; Redi 2011, 63-73; Mantini 2016, 224-49.