Antonio Trampus (ed.), Venezia dopo Venezia. Città-porto, reti commerciali e circolazione delle notizie nel bacino portuale veneziano tra Settecento e Novecento (Trieste, Fiume, Pola e l’area istriano-dalmata). Trieste: Mosetti, 2019. 127 pp.
Le città-porto sono definite da Antonio Trampus, il curatore del volume qui in oggetto, come «le città nelle quali soprattutto nel corso dell’età moderna si è verificato un elevato livello di compenetrazione tra lo spazio portuale e lo spazio urbano dal punto di vista […] sociale, urbanistico, istituzionale e culturale, tale da realizzare un’effettiva integrazione tra città e porto e tra i rispettivi attori, capaci di attivare specifiche strategie di trasferimento e produzione delle conoscenze, nuove dinamiche nella gestione della comunicazione e dell’informazione, nuove esperienze di cittadinanza e di governo dello spazio urbano» (14).
Venezia dopo Venezia non si limita però a studiare le città adriatiche come esemplari “città-porto”, ma i porti franchi quali caso particolare, caratterizzati da un ulteriore e più avanzato livello di sperimentazione. Questa ricerca rappresenta il contributo italiano, coordinato dal curatore del volume, professore di storia moderna presso l’università di Venezia Ca’ Foscari, a un’indagine più ampia che coinvolge le università di Helsinki, Rotterdam, Sorbona e Science Po. Dall’Introduzione (7-9) e dal primo articolo (Città-porto, porti franchi, e governo delle città nella storia europea, 11-26), entrambi a firma di Trampus, risulta subito chiaro come il fenomeno dei porti franchi non sia riducibile solo a questioni di natura fiscale, che sono quelle analizzate in maniera preponderante nella letteratura preesistente. I porti franchi sono piuttosto trattati come laboratori «dove la storia subisce un’accelerazione», dove si tenta empiricamente una sistematica «rimozione degli ostacoli alla circolazione delle persone e dei saperi»: sono insomma, oltre che antenati delle zone di libero scambio, spazi ibridi, luoghi di costante contrattazione tra diversi soggetti politici, economici e culturali, di rapporto tra innovazione spaziale e sociale, di circolazione di tecniche, saperi e norme giuridiche. L’intreccio di numerose polarità (città marina, città urbana, porto franco) si fa più complesso rispetto a un’indagine che coinvolga porti “classici”, considerando la molteplicità degli agenti coinvolti: repubbliche, imperi, nascenti stati-nazione, individui (funzionari, politici, commercianti, intellettuali…) e gruppi (produttori industriali, compagnie assicurative…) che si muovono di necessità trasversalmente.
Seppure i primi porti franchi abbiano fatto la loro comparsa nel Mediterraneo a fine XVI secolo, il vero punto di svolta, che imprime una spinta “globalizzatrice”, è il Settecento. Nei primi decenni di quel secolo la dichiarazione di alcuni porti (ad esempio Trieste e Udine) come franchi, con le relative agevolazioni fiscali, ha rimescolato gli equilibri interni all’area alto adriatica, caratterizzati già dalla predominanza di Venezia e da una serie di complesse dinamiche di concorrenza tra i porti franchi già esistenti (tra cui Fiume) per il predominio delle rotte commerciali. Attraverso la lente del porto franco emerge con forza come l’alto Adriatico nella fase finale di vita della Repubblica di Venezia e in quella immediatamente successiva, nonostante la frammentazione politica, sia stato uno spazio sovranazionale caratterizzato da forte omogeneità, di cui sopravvivono ancora oggi tracce nei numerosi legami culturali tra molte delle città che vi si affacciano (non a caso il volume è anticipato da una Presentazione di Franco Degrassi, Presidente dell’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata).
Il secondo articolo del libro, di David do Paço (Una storia adriatica globale nel Settecento: Antonio Rossetti da Scander e il rosolio di Trieste tra Fiume, Venezia e New York, 27-38), s’inserisce in una fortunata tradizione storiografica che prende in considerazione la storia culturale degli alimenti e ricostruisce la vicenda di un marchio pre-industriale, il rosolio di Trieste. Gli archivi privati della famiglia Rossetti da Scander si prestano bene a una storia trans-imperiale, che aiuta a comprendere meglio «le trasformazioni delle città adriatiche in seguito agli sconvolgimenti geopolitici causati dal trattato di Passarowitz» (36): il porto franco di Trieste era infatti controllato direttamente dalla monarchia asburgica ed era in rapporti con gli altri porti dell’Adriatico. Questa storia è però anche “globale”, considerando che Trieste costituiva solo una tappa di una rotta che passava per l’Africa, l’impero ottomano e l’America. La vicenda è significativa anche dal punto di vista della storia urbana (per come la fabbrica concorse alla riconfigurazione degli spazi cittadini e all’espansione urbana di Trieste), economica (per l’aspetto relativo a dazi, investimenti, prezzi) e materiale (per l’affascinante storia dell’etichetta della bevanda).
Il rosolio, simboleggiando il successo dell’Austria nel Mediterraneo, collegava la dimensione del porto franco a quella propagandistica. Come questo aspetto ruotasse attorno ai porti franchi è approfondito nel contributo di Giulia Delogu, Venezia “dopo Venezia”: funzioni e immagini delle città porto tra età napoleonica e austriaca (39-50). Da questo articolo emerge bene la scelta felice di considerare nel libro i porti franchi dell’alto Adriatico nella loro evoluzione politica, dal periodo di poco antecedente alla caduta della Repubblica di Venezia all’avvicendarsi dei poteri stranieri tra fine Settecento e primo Ottocento. La creazione del porto franco di Venezia sotto Napoleone avvia un tentativo francese di controllo politico del Mediterraneo che fa leva anche sull’immaginario, attraverso una ricca simbologia celebrativa e progetti di riqualificazione urbanistica. Si trova eco della costruzione “a tavolino” di questo aspetto, che ha costituito uno degli elementi di continuità tra dominazione napoleonica e austriaca, anche nelle pubblicazioni in lingua italiana stampate in Istria e Dalmazia, nel costante confronto tra Trieste e Venezia e nella consapevole strategia di contrapporre la decadenza di Venezia (che invece conserva un ruolo centrale anche nel sistema dei porti austriaci) alla dinamicità e modernità di Trieste.
Lo sfondo dell’articolo di Fabio d’Angelo, Circolazione e trasmissione dei saperi e delle tecniche geo-militari (51-65), è lo sfruttamento più intensivo dei giacimenti minerari iniziato nel Settecento per lo più a scopo bellico e che sfociò, nell’Ottocento, in un nuovo modo d’intendere l’archeologia e la tecnica estrattiva. L’“antiquario-naturalista” padovano Vitaliano Donati compì tra il 1743 e il 1750 numerosi viaggi tra Savoia, Piemonte, Istria, Dalmazia e Balcani per conto del governo sabaudo (uno di questi fu con Gianrinaldo Carli) per ricerche geo-mineralogiche che sfociarono in analisi incrociate tra archeologia e mineralogia. L’affinamento delle tecniche estrattive di piombo e altri minerali era indirettamente parte della dinamica di trasmissione di conoscenze (in questo caso metallurgiche, minerarie e archeologiche) di cui i porti franchi erano protagonisti.
Concludono il volume le 60 pagine di tavole a cura di Giulia Delogu: un “prototipo” di Atlante storico, che visualizza in forma di mappe, sia organizzate con moderni programmi informatici sia ricavate da carte storiche, rotte, viaggi e scambi tra porti franchi e tra città e porti franchi. I contributi di Venezia dopo Venezia, parte di un progetto ancora in divenire, sono già un significativo contributo per gli studi di storia del Mediterraneo e, metodologicamente, per una riconsiderazione delle “città-porto” a cavallo tra Settecento e Ottocento alla luce delle più recenti metodologie storiografiche. La cornice in cui il progetto veneziano si colloca è inoltre propizia per un’ampia ricezione dei suoi risultati nella comunità scientifica internazionale, per cui le ricerche sulla ex Repubblica di Venezia si identificano troppo spesso con la sua capitale politica, trascurando il complesso dell’area alto adriatica.