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Yan Thomas, Jacques Chiffoleau, “L’istituzione della natura”

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Yan Thomas, Jacques Chiffoleau, L’istituzione della natura. A cura e con un saggio di Michele Spanò. Macerata: Quodlibet, 2020. 124 pp.

Michele Spanò è Maitre de conférences all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Con una formazione aperta tanto alla filosofia politica e sociale quanto al diritto privato, è stato già curatore per Quodlibet dell’edizione italiana di due saggi di Yan Thomas, che della stessa EHESS è stato per una lunghissima stagione direttore: Il valore delle cose (2015) e Fictio legis (2016), accompagnati da saggi, rispettivamente, di Giorgio Agamben e Massimo Vallerani. A lui si deve l’uscita anche di questo libro, il terzo dell’ideale serie. Esso raccoglie due lavori pubblicati originariamente in tempi e sedi distinte, ma legati fra loro: di Yan Thomas, Imago naturae. Note sur l’institutionalité de la nature à Rome (1988); di Jacques Chiffoleau, Contra naturam. Pour une approche casuistique et procédurale de la nature médiévale (1996).

I testi sono il frutto di un dialogo fra i due studiosi che avrebbe dovuto portare a un’opera comune, mai realizzata: una storia giuridica e giudiziaria del concetto di maiestas. È questo il nodo concettuale, una sorta di ponte ideale fra i due saggi. Chiffoleau pone, infatti, il succo del discorso di Thomas (52-53) a basamento della sua argomentazione e di qui si lancia in una parabola diacronica che attraversa trasversalmente tutta l’età medievale. In ragione di questa connessione Spanò ha pensato alla loro congiunta riedizione, facendo seguire in chiusura un suo saggio: «Perché non rendi poi quel che prometti allor?». Tecniche e ideologie della giuridificazione della natura. Esso arricchisce il volume, un denso intreccio che si dipana su molti secoli e più ambiti disciplinari, con un altro angolo di prospettiva, che raggiunge e si proietta oltre l’oggi.

Ciascuno dei due autori si muove nel proprio terreno di elezione. Thomas osserva in maniera sincronica l’opera dei giuristi del II-III secolo. Focalizza lo sguardo sulla posizione e la funzione occupata dalla natura nella concezione di strutture classificatorie del diritto. All’interno della trattazione didattica si costruisce quasi una cosmologia. Su uno stesso piano, dunque in una dimensione a-gerarchica e orizzontale, si dispongono come cerchi concentrici ius naturale, comune a tutti i viventi; ius gentium, comune a tutti gli esseri umani; ius civile, una sorta di proiezione interna e particolarizzazione del secondo, ristretta ai confini della civitas. Questa galassia concettuale ha una storia. La sua definizione procede in negativo: la guerra, e dunque il contrasto, il conflitto, segnano la nascita dei due cerchi interni, frutto del medesimo movimento, creatore di diritto. Ciò avviene dopo, e vieppiù contro il diritto naturale. Thomas ci guida entro un orizzonte di pensiero in cui il diritto non trova il suo fondamento nella natura. L’esempio più immediato è la schiavitù, un’istituzione indiscutibilmente legittima, ma contra naturam.

Seppure costituisca una cornice universale e sia sovrana di un’età dell’oro, utopica e primigenia, la natura ha un ben diverso spazio, invero molto ristretto, entro quello che è il modello di sistemazione fondamentale, che precede la visione sopra esposta: una struttura rigidamente bipartita in ius publicum e ius privatum. Alla natura, inscritta in quest’ultimo, i giuristi assegnano un posto limitato ma originale. Entra in scena in veste quasi di specchio per le istituzioni. Per estendere «la vigenza e la capacità normativa» (109) si finge di credere che il diritto ristabilisca o riproduca una condizione naturale che esso stesso avrebbe fatto scomparire. Per tornare così alla prima immagine, alla genesi di una mitica galassia concettuale, si oltrepassa il confine, ci si spinge oltre e si pesca da ciò che sta al di là, nel cerchio più esterno. La natura è niente meno che un espediente, una fictio: non contribuisce a formulare degli interdetti, piuttosto «è messa al servizio della loro estensione» (22). Tutto ciò si ricava dalla casuistica ed emerge in tre principali ambiti di discettazione riguardo all’applicabilità delle norme: l’appropriazione delle res communes, la manomissione degli schiavi, l’adozione. La natura, insomma, non gode di una superiorità normativa, non precede e istituisce il diritto, ma al contrario è da esso istituita; è priva di qualsiasi dimensione trascendente e ha mero valore strumentale.

Chiffoleau storicizza la riflessione di Thomas. Essa costituisce una sorta di preistoria rispetto a una decisiva saldatura che avviene nell’impero cristiano e si perpetua nel corso del millennio medioevale, variamente plasmata dalle istituzioni, ma comunque utilizzata come meccanismo auto-difensivo. Già chiaramente discernibile nella legislazione giustinianea, due punti fermi di questa parabola sono Agostino, De civitate Dei, e Pier Damiani, De divina omnipotentia. La natura è la creazione; rappresenta concretamente la volontà di Dio, il giusto ordine delle cose. È la prova della sua onnipotenza – l’atto creatore è di per sé contra naturam – e della sua maiestas. Quest’ultima è il modello di riferimento cui si richiamano le potenze terrestri, che si vogliono poste da Dio alla guida delle società.

Compiere azioni contra naturam significa allora scagliarsi contro il «cuore stesso del potere» (61), che tiene in vita e regola il funzionamento del corpo politico e sociale: va contro la sovranità di Dio e dei suoi vicari sulla terra. È un crimen maiestatis; qualcosa di mostruoso, che non rispetta e stravolge le leggi della natura. Alle sfere già tradizionalmente attribuite alla categoria del nefas, trasgressioni rispetto agli interdetti fondamentali – in primo luogo incesto e sodomia – si affianca dal secolo XI e poi si fonde, più compiutamente dal XIV, l’eresia. Minaccia all’integrità, alla salute dell’ecclesia, «insieme politico-teologico fondamentale» (65), l’eresia rappresenta un attacco all’ordine, alla natura e, quindi, all’onnipotenza divina. Per difendere ciò che è intoccabile dall’uomo, si può e si deve allora applicare – lo si teorizza al passaggio fra XII e XIII secolo – uno strumento nuovo e straordinario, l’inquisitio specialis, che ricorre alla tortura per far confessare il mostruoso, l’indicibile, e ripristinare, con la verità piena, l’assoluta sovranità.

Nel saggio tutto è condotto secondo un filo fin troppo chiaro e lineare, fortemente debitore alla grande narrazione della storia europea: nella sua cavalcata Chiffoleau racconta del «passaggio da una società frammentata, feudale, a una società dove lo Stato gioca un ruolo essenziale» (65); dei «poteri principeschi» come «istituzione statale nascente» (75); infine, della «genesi dello stato moderno» (98). Il ricorso a paradigmi esplicativi di larga portata per muoversi sulla lunga diacronia comporta qualche inevitabile forzatura. In contrappunto al saggio si potrebbero utilmente considerare gli studi di Mayke de Jong sulla penitenza, con un approccio critico al risvolto del medesimo racconto: la fine dell’antichità e il tramonto dello stato. Analoga è la sfida ermeneutica: trattare dei crimini più gravi, che perturbano l’ordine pubblico della società, impone gioco forza di mettere a nudo le istituzioni e osservare dappresso i congegni che ne regolano il funzionamento e la salvaguardia.

Qualche parola, infine, sulla post-fazione. Obiettivo critico dell’autore e curatore del volume sono le teorie che vogliono personificare la natura con il proposito di restituirle dignità ontologica e giuridica. Così facendo non si esce da una trappola: l’infrastruttura logica costruita dal diritto soggettivo, che contrappone soggetti e oggetti, persone e cose, attribuendo al binomio una polarizzazione valoriale. Spanò traccia un sentiero. È con il superamento del diritto soggettivo che sarà forse possibile «riconoscere finalmente la natura per quello che (giuridicamente) è: l’evento che si produce ogni volta che il diritto decida di ripararla» (124).