Marina Caffiero, “Il grande mediatore. Tranquillo Vita Corcos, un rabbino nella Roma dei papi”, Roma, Carocci editore, 2019, 155 pp.
Quest’ultima e recentissima monografia di Marina Caffiero sceglie di presentare la vicenda biografica e culturale del rabbino Tranquillo Vita Corcos (1660-1730) inserita in una riflessione di più ampio respiro sul ruolo della storiografia relativa agli ebrei romani e italiani in genere. La studiosa afferma infatti nell’introduzione al testo come gli ultimi vent’anni abbiano visto un cambiamento in tal senso, con il graduale riconoscimento del processo di rimozione dalla storia generale subito dalla storia ebraica, e l’attuale volontà di porre quest’ultima «in relazione con i meccanismi più generali della società, con l’apparato delle leggi e con le istituzioni, civili ed ecclesiastiche [...]» (p. 10). In particolare la Caffiero va a sottolineare alcuni punti nodali della storia italiana sei e settecentesca, individuando nei rapporti ebraico-cristiani un carattere di tipo negoziale e affermando un progressivo peggioramento della condizione della Natione Hebraea.
Partendo con una dettagliata e interessante descrizione delle traversie conversionistiche che avevano colpito profondamente anche la famiglia Corcos – poi Boncompagni – la studiosa incentra la sua analisi sul vissuto e gli scritti del rabbino romano. Tranquillo Vita Corcos (1660-1730) faceva parte dell’élite culturale ed economica della comunità romana e aveva rapporti sia con esponenti di spicco della politica italiana e dell’apparato ecclesiastico, sia con le altre comunità ebraiche europee, che lo consideravano un punto di riferimento particolarmente valido nelle operazioni di contrattazione con il potere papale.
L’analisi puntuale di questa figura a lungo sottovalutata nella sua complessità ci aiuta, come sottolinea l’autrice, a rovesciare alcune tesi storiografiche che seppur consolidate si rivelano errate o quantomeno parziali, come quelle relative alla miseria economica e culturale e alla marginalità della comunità ebraica romana. In questo senso la Caffiero si spinge fino a domandarsi se possa essere accettabile una lettura di Corcos che lo dipinge come «un esponente di una classe dirigente ebraica locale aperta e avviata sulla strada della modernizzazione e perfino dei processi d’imborghesimento, come avveniva in altre comunità italiane, ad esempio in quelle di Livorno e Venezia» (p. 130). A tale riguardo è molto interessante la descrizione che ci viene fornita dello stemma di cui si era avvalsa la famiglia, elemento che va ad arricchire e completare «uno stile di vita che si potrebbe definire “integrato” almeno all’apparenza» (p. 130), come si vede attraverso il ritratto di Corcos nei panni di un gentiluomo borghese fatto dal pittore Pier Leone Ghezzi (1674-1755).
Per quanto riguarda la produzione testuale, gli scritti del rabbino romano analizzati e utilizzati ampiamente lungo tutto lo scorrere del testo, testimoniano una precisa volontà di collaborazione con l’autorità ecclesiastica, supportata da una certa tenacia nell’affermare una vicinanza teologica tra le due fedi, che Corcos sosteneva differire essenzialmente sulla visione messianica. L’autrice continua mettendo in risalto l’arte della mediazione da lui esercitata, riconoscendovi non solo un elemento fondamentale per comprendere a pieno le strategie utilizzate nel quotidiano dagli ebrei dell’epoca, ma anche un interesse di natura teologica. Corcos infatti, come si evince dalla lettura dei suoi Memoriali (1697, 1705 e 1706), oltre a confutare le accuse inerenti - che fossero di superstizione e ispirazione demoniaca o di omicidio rituale - desiderava ardentemente presentare e diffondere un’immagine della propria religione e dei riti e costumi che ne conseguivano come accettabili e ragionevoli, sulla scia di altri illustri correligionari coevi come Leone Modena (1571-1648).
Oltre all’aspetto razionale di Corcos è però necessario, per poterne dare un quadro completo, considerare l’altra faccia della medaglia: uno spiccato interesse per la Kabbalah e un supposto vago sentore di simpatie sabbatiane (l’autrice si riferisce in particolare al rifiuto di Corcos d’intercedere col Papa per conto della comunità ebraica di Praga affinché fosse proibita la pubblicazione di un Talmud editato in ambiente sabbatiano). Ed ecco che attraverso le vicende del rabbino romano la studiosa va a scardinare un’altra imprecisione storiografica, che vedeva prevalente la convinzione che l’élite rabbinica fosse ostile alla mistica ebraica – per non parlare del Sabbatianesimo: figure come Corcos, Leone Modena (1571-1648) e Moshe Chayyim Luzzatto (1707-1746) incarnano invece una commistione, seppur sottesa, di razionalità e mistica. Questo dualismo, a mio parere tipico dell’epoca e che si può riscontrare in altre figure rilevanti e coeve come, ad esempio, Benjamin Coen Vitale da Reggio (1651-1730) e Avraham Rovigo (1650-1713), viene espresso perfettamente da Corcos nella Spiegazione del 1713, testo in cui, pur affermando ancora una volta la razionalità dei rituali ebraici per confutare l’accusa di superstizione, fa trasparire le sue aspirazioni cabalistiche.
È quest’ultima riflessione che va ad inserirsi in un orizzonte innovativo ancora da approfondire e definire, l’interpretazione di figure ebraiche complesse e duali, da inserire in quel momento di passaggio tra Medioevo e età moderna in cui la mistica ebraica, come scrisse Bonfil e come ricordano la Caffiero, ma anche altri studiosi come Roni Weinstein e David Ruderman, fu uno tra gli agenti di modernità.