L’opera curata da Elena Lamberti e Vita Fortunati raccoglie i contributi di 19 autori italiani, tedeschi, spagnoli, inglesi intorno a un progetto sul trauma, ideato all’interno del Dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università di Bologna. La caratteristica del testo è l’interdisciplinarietà tra storia e letteratura. Appare nitida la funzione anticipatrice della letteratura su temi dirimenti come la memoria della guerra che la storiografia comincia ad affrontare proficuamente soltanto a partire dall’inizio degli anni ’90. Già nel 1964, Calvino, riflettendo sul senso del suo breve romanzo resistenziale del 1947 – Il sentiero dei nidi di ragno – costruisce un’importante articolazione tra memoria ed esperienza che si riallaccia alle successive riflessioni dei sociologi Maurice Halbwachs (La mémoire collective, 1968) e Paolo Jedlowski le cui categorie interpretative sono state riprese dagli storici.
La letteratura non è un terreno incontaminato, ci si può chiedere quanto il linguaggio imprigioni la realtà, tuttavia ci sono narratori – è il caso di Günther Grass analizzato da Cesare Giacobazzi – che hanno nel loro stile una sorta di testo nascosto, utile al discernimento critico del lettore. Sono proposti molti sguardi al femminile delle vicende belliche, quasi sempre antiretorici ritratti del dolore, quasi lasciati sommersi dentro al privato, ma ricchi di dati e pulsioni (Annamaria Lamarra). Diverso è il caso delle donne scrittrici straniere, impegnate nel fronte repubblicano della guerra civile spagnola anche come combattenti, esperienza spinta dall’idealismo e dalla ricerca di se stesse che si scontra con le disorientati asprezze e ambiguità dello scenario spagnolo (Arancia Aránzazu Usandizaga).
La memoria di guerra è assunta come l’esperienza traumatica, la ferita che cambia la vita e l’identità. Dentro a questa dimensione personale le classi dirigenti - dalla Spagna alla Germania, all’Italia - costruiscono una memoria collettiva attraverso rappresentazioni del passato che si riflettono, oltre che nelle celebrazioni ufficiali, nella toponomastica e nella realizzazione di monumenti.
Dopo la Prima guerra mondiale (Oliver Janz) si accentua la sacralizzazione della nazione, per l’Italia in corso già nell’epoca liberale. La figura del milite ignoto, il soldato di tutti, nella sua prematura morte assume una veste eroica che incarna, nel mito del giovane guerriero, le autorappresentazioni nazionali, specialmente dei fascismi. Ne risente in misura evidente anche la toponomastica (Roberto Balzani) quando nel 1927 la legge fascista «nuovi nomi per nuove strade» infittisce le arterie con i luoghi geografici del fronte (Piave, Isonzo, Monte Grappa), con i martiri e i comandanti vittoriosi. A spezzare questo legame bellico quanto eroico con la nazione, le storie dei tanti casi clinici di chi visse l’esperienza del fronte in prima linea con le patologie, le nevrosi e i traumi che dopo la Grande guerra non trovano risonanza (Antonio Gibelli).
Profondo il divario tra la pubblica elaborazione del lutto dopo la Grande guerra e quella successiva alla Seconda guerra mondiale. Si avverte lo stacco dalla sacralizzazione del corpo all’irrilevanza della morte, sia questa di un civile o di un soldato. Su questa linea la letteratura è nuovamente anticipatrice e consegna una casistica numerosa anche nei testi più ideologicamente orientati, come L’Agnese va a morire (Alberto Casadei). Con l’esperienza bellica della Seconda guerra mondiale, senza fronti delimitati e con i civili in prima linea, la riproposizione dei precedenti canoni non è più possibile; il dolore, la pietà, l’impotenza dell’uomo comune sono le corde prevalenti di nuovi discorsi nazionali, con macerie morali generate dalle guerre civili e dalle guerre ai civili che lasciano memorie divise e incomposte (Alberto De Bernardi). Lo spettro del passato si riflette nelle inibizioni del presente. Alle soglie del 2000 lo scorrere del tempo modifica le percezioni, smussa i contrasti senza eliminarli, come mostra la lunga gestazione per la costruzione del memoriale della Shoà a Berlino (Jonathan Kear). Cresce nel frattempo il gradimento per nuove forme di rappresentazione, come i contro monumenti, sorta di memoriali in continuo divenire sullo sfondo della scomparsa della memoria dei testimoni. Menzogne e rimozioni non sono certamente espunte nelle rappresentazioni della Seconda guerra mondiale, il caso più clamoroso è il massacro di circa 22.000 prigionieri di guerra polacchi a Katyn, compiuto dai sovietici tra l’aprile e il maggio 1940, massacro attribuito ai nazisti e soltanto nel 1990 riconosciuto dai sovietici (Gabriella Elina Imposti). Attorno a questa doppia tragedia, di massacro e di menzogna storica, si è cimentato il cineasta polacco Andrezej Wajda, figlio di un ufficiale ucciso a Katyn. Ancora nel 2008 nessuna concessione all’immagine di martirio o eroismo, ma una scansione di inutile attesa che permea gli sguardi femminili, dalle madri alle figlie.