Paolo Zanini, Il «pericolo protestante». Chiesa e cattolici italiani di fronte alla questione della libertà religiosa (1922-1955). Milano: Le Monnier, 2019. VII + 295 pp.
La storia politica italiana necessita sempre più di un’apertura di spazi e di riconsiderare i confini del proprio campo d’indagine, a lungo iscritti nei tradizionali territori – istituzioni, partiti, movimenti, etc. – privilegiati dall’analisi storiografica classica. Se le forme del “Politico” sono state al centro della riflessione filosofica nell’ultimo decennio, gli studi storici non hanno ancora avviato un’altrettanta profonda attenzione alla necessità di aggiornare i propri strumenti di ricerca, così come di ripensare la questione delle fonti e degli archivi in relazione a questo tema. La tanto invocata interdisciplinarità con le altre scienze sociali stenta a concretizzarsi in un vero e proprio piano di ricerche, tanto più che all’interno delle stesse scienze storiche la propensione al confronto appare intermittente, discontinua e slegata da un programma condiviso. Si tratta di un’assenza vistosa, stridente, in realtà, con la mole di studi che negli ultimi anni hanno ampliato molto l’orizzonte della ricerca storiografica.
Il volume di Paolo Zanini s’inscrive in questa tendenza, affrontando un tema di lungo periodo della storia unitaria: l’anti-protestantesimo cattolico, la libertà di culto e le ricadute politiche di questo tema sul difficile rapporto tra Chiesa, istituzioni e società. L’a. ha alle spalle una lunga esperienza di ricerca, all’incrocio tra storia politica e storia religiosa, essendosi occupato di diversi temi: dal cattolicesimo post-conciliare al rapporto tra ebraismo e cattolicesimo italiano, fino alle relazioni tra il Vaticano e il nascente Stato d’Israele. Partecipe ai lavori della rivista «Modernism», tra i periodici più attenti, nel panorama editoriale storiografico italiano, alla necessità di rafforzare il dialogo tra le diverse componenti della contemporaneistica, Zanini pone al centro della sua analisi le politiche anti-protestanti discusse, sostenute e messe in pratica dal mondo cattolico e dalle istituzioni dello Stato.
La ricerca è apparentemente circoscritta a un trentennio: dal 1922, anno di massima convergenza e d’incontro tra nazionalismo cattolico e nazionalismo italiano, fino alla prima metà degli anni Cinquanta, quando alcune sentenze della Corte costituzionale misero in discussione gli aspetti più illiberali della normativa sui culti ereditata dal fascismo, mentre nella stessa Chiesa erano avvertibili i primi segnali di cambiamento a favore della tutela delle minoranze religiose, pienamente manifestatesi, non senza ambivalenze e contraddizioni, con l’inizio dei lavori del Concilio Vaticano II. In realtà lo studio di Zanini abbraccia un lasso cronologico molto più ampio, a partire, per lo meno, dal processo di unificazione nazionale. La partecipazione delle piccole comunità protestanti al Risorgimento, infatti, pose fin da subito il problema politico del futuro assetto delle relazioni tra Stato e Chiesa, conferendo al tradizionale anti-protestantesimo cattolico una valenza diversa rispetto al passato.
Tanto più che l’attività delle Chiese evangeliche presenti in Italia viene restituita nella sua dinamicità: riflesso, al contempo, dell’attività missionaria evangelica che sul finire del XIX secolo si stava riscontrando, ovunque, su scala globale come dell’improvvisa apertura di spazi di agibilità politica e religiosa nel centro propulsore del cattolicesimo universale. Con la Grande Guerra e soprattutto dopo l’avvento del fascismo sembrò realizzarsi per molti credenti la possibilità di una società integralmente cattolica e di uno Stato pienamente confessionale. Perfino la rivoluzione totalitaria fascista fu salutata, da alcuni ambienti, con favore, vista come un’occasione per chiudere i conti con una potenziale minaccia che avrebbe potuto disgregare la Chiesa di Roma. Le politiche anti-protestanti, infatti, subirono una recrudescenza in coincidenza con l’impresa d’Etiopia e la promulgazione delle leggi razziali. All’apice di questa intesa, proprio nelle fila del nazionalismo e dell’integralismo cattolici, cominciarono a sollevarsi dubbi, fino diventare correnti sotterranee d’opposizione, circa la statolatria e il culto della personalità imperanti nel regime fascista. In molti guardavano con preoccupazione alla Germania hitleriana e all’asservimento delle chiese protestanti lì conseguito. Un destino analogo poteva ripetersi in Italia qualora il fascismo fosse riuscito nella rivoluzione antropologica e culturale del paese.
Paradossalmente per le comunità evangeliche italiane, tra i centri propulsori dell’antifascismo, questo atteggiamento di chiusura nei confronti della dittatura comportò un’accentuazione delle discriminazioni, con le Chiese protestanti viste come potenziale e pericoloso instrumentum regni del regime. Al punto che la caduta di Mussolini riaprì, agli occhi dei cattolici intransigenti, la possibilità di edificare un nuovo Stato su basi confessionali, tanto più che una nuova classe dirigente di cristiani si apprestava a conquistare la guida della nazione. Il lungo dopoguerra e gli anni del centrismo rappresentarono, così, una fase difficilissima dei rapporti tra cattolicesimo italiano, Stato e comunità protestanti, anche in virtù della maggiore influenza che ora la Chiesa di Roma riusciva ad esercitare sulle istituzioni. I rapporti si complicarono, ulteriormente, per l’attivismo delle Chiese evangeliche d’oltreoceano, entrate in un rapporto di diretta competizione con il cattolicesimo italiano, all’indomani del secondo conflitto mondiale, sull’onda lunga dell’espansione della sfera d’influenza statunitense.
Per lungo tempo le garanzie formali, inserite nella Costituzione del 1948, non vennero, così, pienamente rispettate. Si trattò di una stortura, per la prima volta ricostruita nella sua interezza da Zanini, che rese la democrazia italiana vulnerabile su due punti fondamentali: la questione della laicità dello Stato e il tema dell’agibilità pubblica delle confessioni di minoranza. L’Italia repubblicana sembrò così mancare di un principio universalmente sancito e rispettato che garantisse la libertà di culto. Un’assenza vistosa le cui conseguenze sono visibili ancora oggi.