Proposto nella nuova collana einaudiana “Vele”, il libro traccia un profilo storico della fragile identità patriottica che contraddistingue la società italiana, in base all’ipotesi che la
difficoltà del concetto di patria a diventare una categoria del senso comune vada considerata come uno svantaggio per la società stessa, poiché implica l’inclinazione all’individualismo e
all’intolleranza. In altri termini, secondo l’autore sarebbero proprio i popoli privi del senso di appartenenza a una comunità, che non si riconoscono cioè in un’idea di patria, quelli più propensi
a fare scelte estranee a un interesse generale. (Ne è una prova, fra le tante riportate, l’indifferenza degli italiani alla difesa del proprio patrimonio artistico e territoriale.) Per affrontare
tale questione, prendendo le distanze da quelle interpretazioni storiografiche che la fanno risalire all’8 settembre 1943, Barberis adotta una prospettiva di lunga durata: è sua convinzione,
infatti, non solo che l’Italia contemporanea soffra della mancanza di una condivisa cultura patriottica, ma che le radici di questa scarsa sensibilità comunitaria siano da ricercare fin
dall’infanzia della storia nazionale, ovvero negli ultimi cinque secoli almeno.
Divisa in tre capitoli, la riflessione sul «bisogno di patria» degli italiani muove dall’individuazione di altri due bisogni correlati, e a lungo o tuttora inappagati: quello di uno Stato unitario
e quello di una storia in grado di assumere una funzione morale, ricomponendo le fratture prodotte dalle innumerevoli memorie particolari. Il primo capitolo è quindi dedicato al tortuoso processo
di unificazione istituzionale, reso impervio innanzitutto dalla tendenza degli italiani a difendere le proprie ragioni individuali, o al più gli interessi del proprio nucleo famigliare. Una
mentalità individualistica e opportunistica - spesso legittimata anche dagli intellettuali, a partire da Francesco Guicciardini e Giovanni Della Casa - che non ha giovato neppure alle sorti
dell’economia italiana: forme di «capitalismo personale» si sono infatti sovrapposte all’assenza di una dimensione statuale unitaria nel determinare un ritardo sul piano della competitività
economica. D’altra parte, né l’unità concepita e raggiunta dallo Stato piemontese, dotato di un «bagaglio eccentrico» costituito da senso del dovere e tecnica amministrativa e militare, né
l’esperienza della Prima guerra mondiale, fonte di riflessione sul significato della morte per la patria, sono riuscite a realizzare davvero un’alleanza tra il privato e il pubblico.
A questo «bisogno di Stato» si affianca un «bisogno di storia», di «qualcosa che rimetta in ordine, oltre lo spirito di parte, la dinamica degli avvenimenti e le loro molteplici ragioni» (p. 51),
al fine di comprendere il passato millenario di una «Italia dei municipi», il cui unico tessuto unitario è stato offerto - almeno finché non si è affermata la moderna società dei consumi - dalla
morale e dai rituali della Chiesa cattolica. E non ha minor «bisogno di storia» questa «Italia dei campanili», in cui la Chiesa ha sì svolto una funzione di supplenza di compiti altrove affidati
allo Stato, ma ostacolando a sua volta la creazione di una comunità nazionale. È allora necessario, suggerisce l’autore, mettere in luce come siano stati i «particolarismi» a rappresentare la cifra
di tutta la storia italiana; compresa quella più recente, in cui una nuova idea di patria è nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, è stata codificata dalla Costituzione, ma è rimasta confinata
a élites politiche e intellettuali ristrette: a prevalere, ancora una volta, sono state «sensibilità separate dalla molteplicità delle situazioni vissute» (p. 82).
Attraverso una conoscenza storica con una lunga profondità di campo, in grado di allargare la prospettiva oltre la parzialità delle memorie e le urgenze dell’attualità, Barberis giunge - nel
capitolo conclusivo - a delineare la propria tesi: è la diversità, sono l’incontro e lo scambio fra culture diverse, a costituire l’identità degli italiani. Di conseguenza, se l’unità può essere un
valore e una risorsa anche per gli italiani, la loro idea di patria non può tuttavia fondarsi su un’identità chiusa ed esclusiva, bensì sulla consapevolezza della propria pluralità. Ed è questa
«identità della diversità», il suo essere un «ponte fra civiltà», il contributo storico che l’Italia può fornire all’Europa.
Biblioteca