Scrivere una storia del nazionalismo è sempre una sfida ermeneutica delicata e irta di insidie. Nel suo classico studio sulla costruzione della nazione, Eric J. Hobsbawm ha osservato che «nessuno
storico serio delle nazioni e del nazionalismo può in alcun modo essere un nazionalista impegnato sul piano politico», giacché «il nazionalismo esige un’eccessiva credenza in ciò che patentemente
non è tale». Il caso del nazionalismo palestinese è ulteriormente problematico proprio perché coinvolge soggetti impegnati in una lotta politica tutt’altro che risolta. Il lavoro di Rashid Khalidi,
docente di storia presso l’Università di Chicago, percorre la pista costruttivista inaugurata dal marxismo anglosassone cercando di evitare la trappola sostanzialistica dei nazionalisti o quella
scettica degli avversari. Questo saggio sulla “invenzione della tradizione” si pone un obiettivo ambizioso e affatto compiaciuto dalle derive soggettivistiche post-moderne: se è vero che alla base
di ogni processo di formazione dell’identità nazionale vi è una costruzione storica “artificiosa”, lo è altrettanto che la pluralità di soggetti che lo informano (le élites e le classi subalterne
innanzitutto) rendono tale identità un costrutto dinamico e – fatto di non poco conto – reale.
Che l’autore abbia applicato con successo il metodo integrativo ci pare discutibile. Lo studio non è omogeneo. Khalidi, infatti, conduce la propria storia intellettuale e sociale del nazionalismo
palestinese utilizzando tanto fonti qualitative (vedi le testimonianze degli intellettuali Yusuf e Ruhi al-Khalidi), quanto fonti quantitative (la risposta contadina alla compravendita di terreni
sionista negli anni precedenti la Prima Guerra mondiale). In questo passaggio, che divide il saggio in due parti, è possibile ravvisare tutta la problematicità che, su un piano epistemologico,
comporta l’applicazione di una metodologia unica a fonti così disparate. Benché resti apprezzabile la petizione di principio esposta nell’introduzione (che – non a caso – è espressa nelle vesti di
un augurio per una nuova generazione di studiosi), la discriminante coscienziale utilizzata dall’autore nell’esame del materiale custodito presso la Biblioteca Khalidi di Gerusalemme solleva più
dubbi che risposte soddisfacenti: come valutare la percezione della colonizzazione sionista basandosi sulle contraddittorie reazioni dei contadini e dei braccianti arabi? Può un’analisi sociologica
sulla diffusione della stampa consentire una valutazione storica sostenibile della sedimentazione di una identità palestinese “palestino-centrata”?
I limiti di questo saggio finiscono laddove sono chiaramente ravvisabili i suoi pregi: l’utilizzo di un apparato documentario inedito; il tentativo di costruire uno spaccato trasversale
dell’opinione pubblica palestinese negli anni pre-mandatari; una visione pluralistica dell’identità palestinese, letta non più come la risposta alla sola colonizzazione sionista, ma come un lungo e
contraddittorio processo storico-culturale. Dietro a una diatriba storiografica che ha finito per trasformarsi inevitabilmente in uno scontro politico e ideologico, riduttivo per principio, è da
apprezzare la lettura integrata proposta da Khalidi che, pur concordando con la tesi di fondo di Edward Said («lo sviluppo e la conservazione di ogni cultura esige l’esistenza di un alter
ego diverso e in competizione con essa»), sottolinea come l’identità palestinese sia il frutto serotino di identità transnazionali (religiose o nazionali), del patriottismo locale e delle
affiliazioni familiari e tribali in competizione tra di loro.
Abbiamo rimarcato la linea divisoria idealmente sottesa a questo studio tra una storia intellettuale delle élites e una storia socio-economica della Palestina ottomana. Khalidi suddivide gli otto
capitoli del suo libro in cinque parti: dopo una premessa metodologica, che fornisce un quadro d’insieme sulle contrastanti narrazioni storiche dell’identità palestinese, egli rilegge il ruolo
della Gerusalemme ottomana attraverso la nuova intellighenzia prodotta dal riassetto giuridico-istituzionale elaborato dalla riforma dei Tanzimat. Seguono due densi capitoli intitolati
emblematicamente Elementi di identità, che scandagliano la resistenza contadina alla colonizzazione sionista e il dibattito sul sionismo nella stampa araba nel periodo “giovane-turco”
(1908-1914). Il capitolo successivo è dedicato al fondamentale spartiacque costituito dalla nascita del moderno Medio Oriente (1917-1923), che presenta la diffusione di un più ampio concetto di
patriottismo in concomitanza con l’estensione dell’istruzione. L’ultimo capitolo è uno sguardo a volo d’uccello sull’identità palestinese post-1948, dapprima sommersa dalla sconfitta bellica e poi
“riemersa” attraverso le travagliate vicende del panarabismo nasseriano e del nazionalismo palestinese dell’OLP.
Khalidi conclude la sua disamina con un pacato ottimismo: «la storia dell’identità palestinese è stata un successo nel senso che si è affermata ed è riuscita a sopravvivere contro tutte le
avversità e nonostante i molti esiti negativi». Resta aperto l’interrogativo se tale successo consentirà ai palestinesi di ottenere l’autodeterminazione nazionale sotto forma statuale, che –
osserva l’autore con tono icastico – è la «condizione naturale» dei popoli moderni.
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