La copertina del volume riproduce un disegno di Annibale Carracci che a metà Cinquecento rappresenta la stessa scena che sarà raffigurata in un’incisione, più di due secoli dopo, da Francisco Goya, e intitolata «el díficil paso», il difficile passo: un frate sulla scala del patibolo si avvicina al condannato che lo precede di alcuni gradini. Ma nelle città italiane da fine ‘400 non erano ecclesiastici a confortare, e cercar di convertire, i morituri, ma laici che, riuniti in apposite confraternite, cercavano misericordia per sé invitando ai sacramenti e alla conversione le vittime della giustizia, preparando i condannati alla morte cristiana. È questo lo scabro argomento oggetto di questi voluminosi atti.
Da un seminario che, evidentemente con passione, ha coinvolto attorno a un tavolo, e alla lettura di un testo, «studentesse e studenti, studiose e studiosi meno giovani, ricercatori più esperti, un docente, in qualche caso studiosi e docenti ospiti, talvolta persino qualche ‘curioso’ di passaggio» (p. 493) (A. Malena), ha preso avvio il lavoro di ricerca. Il testo letto è l’anonimo manuale quattrocentesco della conforteria bolognese di Santa Maria della morte – «la più riccamente documentata» (p. XV) fra simili confraternite - e contiene appunto le istruzioni ad uso dei confortatori. Si tratta dunque della «realtà tragica ed estrema, come quella delle ultime ore del condannato a morte» (p. 496), e di un manuale che è servito a chi si era assunto il compito di accompagnare il condannato all’«ultimo passo», cercando di convertirlo poiché «non che Idio sia contento de la morte violente de nessuno e specialmente de la morte de l’anima, ma ello lassa correre e permette la pena del mondo dare al corpo ciò che l’anima non porti pena e martíri eterni» (p. 369). «Molte volte il successo coronava l’impresa» (p. 3) , quando cioè i condannati arrivavano grazie all’opera dei confortatori «ad accettare la sentenza come modo per morire in grazia di Dio e dunque per accedere alla vita eterna» (p. 3). Attorno al tema centrale, a cui sono dedicati i contributi di Prosperi e di Nicholas Terpstra, gli altri saggi si occupano delle pitture sacre prodotte per assistere/convertire i condannati (Massimo Ferretti), di Inquisizione romana e persecuzione dei valdesi nel Piemonte di Carlo Emanuele I (Vincenzo Lavenia), di condanne a morte e conversioni in Portogallo in età moderna (Giuseppe Marcocci), del manuale di conforto del gesuita Pere Gil (Michele Olivari). La seconda parte è dedicata alle fonti (Luca Della Robbia, Alfredo Troiano, Silvia Ferrari) – ove si presenta anche un’edizione del Manuale quattrocentesco della Conforteria di Bologna - mentre la terza parte, introdotta da Adelisa Malena, contiene nove schede, “materiali di commento” di diverse parti del Manuale studiato nel seminario, redatte dai frequentatori.
La storia delle confraternite dei confortatori è ripercorsa nel saggio introduttivo di Adriano Prosperi, “il docente”. In un momento storico in cui «la violenza sembrava dominare come non mai la vita associata… la giustizia come severa amministrazione delle regole vestiva i panni candidi della pace e simboleggiava l’idea stessa di buon governo… Il suo strumento era la forca» (p. XI). Per conciliare la «violenza omicida della legge con la religione della misericordia e del perdono» (p. XI) , si distinse fra il destino dell’anima e quello del corpo, spingendo appunto il condannato ad accettare “la giustizia” terrena per avere l’anima salva. Nelle città dell’Italia centro-settentrionale del XIV secolo, in quell’opera di conforto e conversione, già di competenza di monaci, si introdussero laici - donne e uomini - a cercare di salvare le anime «nel vivo della società» (p. X). Si trattò, scrive Prosperi, «del punto di arrivo di un processo lungo e complicato, di cui ignoriamo ancora molti passaggi» (p. XI), non essendo del tutto chiarito dalla ricerca, ad esempio, «il rapporto fra conforto religioso e amministrazione della giustizia penale» (p. XII) . Si trattava di salvare anime, attraverso l’esercizio della misericordia, ma anche di «organizzare il consenso religioso e politico di intere collettività» (p. XII). La pubblicità data alle “giustizie” - cioè le esecuzioni capitali - trasformava l’evento in «una funzione di importante rilevanza: non si trattava solo di salvare l’anima del condannato ma anche di offrire alla città l’esempio e la prova di una giustizia legittimata da Dio per bocca del condannato» (p. XIV). La scena pubblica delle esecuzioni diventa luogo di sentimenti accesi, prevalentemente violenti, ma anche della disperazione, dell’ansia, della vergogna (di morire senza sepoltura) o, viceversa, della consolazione. Il «canovaccio apparentemente ripetitivo» prevede parti e ruoli: il condannato, il boia la folla, «e ci sono da un lato il potere che condanna e dall’altro il potere salvifico degli uomini di Chiesa» (p. 6) . Ma, ricorda Prosperi, «anche il potere terreno che condannava a morte era un potere cittadino e cristiani erano gli operatori e gli spettatori delle esecuzioni capitali. Da qui dovevano nascere molte contraddizioni» (p. 6). «Documenti di tempi duri» (p. 14) parlano di dubbi, poiché la chiarezza teorica si confrontava con piccolezze e tragedie, peccati e crimini. Complesso era anche il rapporto fra la richiesta “sociale” di condanna totale, di corpo e anima, e il bisogno di misericordia e consolazione. Ad altro livello complesso era anche il rapporto fra potere ecclesiastico e sovrani europei, infatti «alla confessione segreta e spontanea del peccatore il sacerdote garantiva il perdono; a quella pubblicamente fatta al giudice seguiva inesorabile l’esecuzione della condanna. Tra il perdono del confessore che apriva la strada alla vita eterna dell’anima e la condanna del giudice che toglieva al reo la vita terrena ci fu dunque una divisione che in alcuni casi si tradusse in vera e propria opposizione» (p. 23). Muterà nel tempo il collegamento con il potere delle conforterie (muterà anche la loro composizione sociale).
«Spiccava nel contesto europeo la tradizione delle città italiane dove si avviò molto presto un elaborato rito del conforto con la presenza di confraternite laicali impegnate nell’esercizio della conversione del condannato e titolari del compito di seppellirlo in terra consacrata dopo avergli amministrato i sacramenti. Non così fuori d’Italia…»(p. 43). Il compromesso offerto dalla distinzione fra sorte del corpo e sorte dell’anima, e la storia delle conforterie d’origine quattrocentesca, portò infine a un compromesso fra Chiesa e stato: «in cambio del diritto per il clero di avere accesso alla coscienza del condannato si era offerta una legittimazione teologica del potere di uccidere» (p. 53), fino a far sembrare la sentenza capitale come voluta dal Signore Iddio.