I prodotti contadini tra immagine letteraria e presenza nei libri di cucina
Tra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’Età moderna l’alimentazione assume un ruolo particolarmente marcato come vettore di comunicazione sociale: mangiare determinati alimenti diviene infatti un forte segno di appartenenza a un determinato strato della società. Si instaura così una limpida corrispondenza tra qualità del cibo e qualità della persona, ossia tra alimentazione e identità sociale (Montanari 1991, IX–XII; Grieco 1991).
Agli strati più alti della società spettano i cibi più raffinati, come la selvaggina di piuma o la carne dei quadrupedi giovani (vitello e capretto in particolare), i frutti degli alberi ‒ che crescono in alto, proiettati verso il cielo ‒ e il pane bianco di frumento, pregiato per il suo colore e per la sua delicatezza, oltre che le esotiche e costosissime spezie, apprezzate anche dal pensiero dietetico per le loro qualità digestive. Agli strati più bassi, ai ceti lavoratori e in particolare ai contadini, spettano invece alimenti comuni e ritenuti in genere molto nutrienti ma difficilissimi da digerire, quali pane e polente di cereali minori, fave, rape, interiora di quadrupedi grossi e carne salata, ma soprattutto quegli ortaggi dal sapore pungente come agli, cipolle, porri e scalogni.
In Italia è a partire dal XIV secolo che vediamo dispiegarsi tale fenomeno con più evidenza: una fitta schiera di trattati di dietetica si erge infatti a difendere il privilegio alimentare degli strati sociali più alti, mentre l’alimentazione assume un ruolo centrale nei tanti testi di satira anticontadina che cominciano a comparire in questo periodo, volti a ribadire la condizione di totale e irrimediabile subalternità dei rustici nei confronti dei cittadini (Montanari 2000; Bagnasco 1996; Andreolli 2014).
Dall’esame dei testi di cucina italiani di XIV e XV secolo ‒ rivolti alle élites ‒ emerge tuttavia come molti ingredienti denigrati dai testi letterari e dal pensiero dietetico rientrino anche nelle pratiche gastronomiche degli strati sociali più alti. Nei ricettari dei cuochi bassomedievali si ritrovano infatti ortaggi, legumi, cereali minori e carne salata, con un ruolo e un’importanza variabile da ricetta a ricetta (Montanari 2012, 183–93).
Innanzitutto, tali alimenti possono costituire semplici componenti accessori di preparazioni ricche e complesse, come si vedono spesso comparire agli e cipolle, che arricchiscono del loro caratteristico sapore una larga fetta di ricette a base soprattutto di carne, ad esempio il “civerio” di lepre o coniglio ‒ con una salsa di vino annacquato e speziato a cui si aggiungono pane, fegatelli e cipolle ‒ del trecentesco Liber de coquina [1], oppure il quarto di capretto arrosto lardato, farcito con aglio e cosparso di una salsa acida e speziata proposto un secolo e mezzo dopo da Maestro Martino [2], “principe dei cuochi del suo tempo” secondo l’umanista Platina [3].
Si possono trovare ingredienti contadini anche nel ruolo di veri protagonisti delle ricette proposte dai libri di cucina. In molte di queste preparazioni il procedimento gastronomico viene però complicato dall’aggiunta di diversi elementi, che contribuiscono a impreziosire la ricetta. Così, l’alimento rustico può essere nobilitato tramite un elemento di statuto signorile posto sopra o insieme a esso ‒ è il caso soprattutto delle spezie ‒ o a questo accostato, come avviene spesso con le carni.
Una vivanda di matrice contadina nobilitata ‘per arricchimento’ è costituita ad esempio dagli spinaci e bietole proposti dalla tradizione del Liber de coquina [4], prima bolliti, poi scolati e quindi fritti in olio ‒ o, dicono i ricettari, nel lardo, un fondo di cottura decisamente più umile dell’olio (Montanari 2012, 106), nel caso probabile che quest’ultimo fosse di oliva ‒ con cipolle, aggiungendovi a cottura ultimata una spolverata di spezie [5]. Allo stesso modo è arricchita la “minestra di ravazolli” di Maestro Martino, composta di rape prima tritate, poi messe sotto aceto e infine bollite in brodo di carne salata, con l’aggiunta di un po’ di pepe solo sulle scodelle già pronte [6]. Due esempi tra i tanti di vivande che rimangono del tutto contadine durante il procedimento culinario, fino al ritocco finale, che ne causa l’uscita dalla sfera gastronomica tipicamente contadina.
Naturalmente, l’aggiunta di spezie può avvenire anche prima della cottura o a cottura in corso, e il tocco signorile può essere dato da ulteriori elementi di pregio, come il delicato latte di mandorle ‒ un liquido di cottura previsto in molte vivande di magro ‒ o le carni pregiate, inserite in complesse preparazioni di torte insieme a ingredienti di statuto sociale inferiore, o ancora la frutta fresca, come avviene nel caso delle fave fritte in padella di Maestro Martino, in cui all’olio di cottura vengono aggiunte non solo salvia, cipolle ed erbette, ma anche fichi e mele, oltre alla solita spolverata di spezie in uscita [7].
I metodi per nobilitare gli ingredienti contadini possono dunque combinarsi tra loro, arricchendo la ricetta di diversi alimenti signorili e rendendo articolato e complesso il procedimento gastronomico, che in qualche caso sembra davvero il frutto della maestria del cuoco di professione e non della quotidianità della gastronomia casalinga, nonostante gli ingredienti principali siano davvero poveri e comuni.
Alla nobilitazione ‘per arricchimento’ si affianca poi quella ‘per accostamento’ (Montanari 2012, 186–87), in cui vivande tipicamente contadine costituiscono il contorno a preparazioni di solito a base carnea. Fa parte di questa categoria la “paniccia” descritta da un paio di ricettari della tradizione del Liber de coquina, ovvero una semplice preparazione di panico cotto nel latte insieme a grasso di maiale. “Questo cibo tu puoi mangiare col capretto arrosto”, dicono i ricettari [8].
Dunque, al di là delle denigratorie rappresentazioni ideologiche, “qualsiasi cibo è degno della mensa signorile” (Montanari 2012, 187), se opportunamente arricchito o accostato ad alimenti di pregio.
Inoltre, sembra di dover aggiungere che in una minoranza ‒ a volte nient’affatto trascurabile ‒ di ricette di quasi tutti i libri di cucina italiani, l’elemento povero (verdure, ortaggi, legumi, carne salata o interiora di maiale) non risulta essere arricchito o nobilitato in nessuna maniera.
Appartengono a questa categoria le rape proposte da un ricettario meridionale, noto come Libro A e appartenente alla tradizione del Liber de coquina. “Affare rape maritate micte le rape entro a cocere in su la brascia, et quando ello è cocte, talliale sì che non se parta, et micti per dentro le talgliature fiecte de cascio grasso et stringele forte” [9]: una sorta di moderno panino al formaggio, con la rapa al posto del pane, privo di ingredienti signorili.
Un ricettario della medesima tradizione, ma scritto in lingua toscana e inserito nel codice 158 della Biblioteca Universitaria di Bologna, presenta invece una “suppa di fanti”, ottenuta bollendo le rape e aggiungendovi strati di pane imbevuto nel brodo di carne, formaggio grattato e ancora “grasso di carne” [10]. Anche qui nessun alimento di particolare pregio compare a nobilitare le umili rape.
Passando ai ricettari della tradizione dei ‘12 ghiotti’, di origine non più cortese ma cittadina (Bertolini e Redon 1993), ritroviamo l’abbinamento rape-formaggio nel manoscritto Casanatense 255, in una ricetta che prevede di lessare le rape e servirle cosparse del formaggio prima grattugiato e poi fuso in pentola insieme a esse, senza aggiungere nessun ingrediente di statuto sociale superiore [11].
Le verdure e le “foglie minute”, poi, costituiscono gli ingredienti principali delle ricette con cui si apre il Liber de coquina (Capatti e Montanari 1999, 41), e alcune di queste, come i “caulles virides secundum usum imperatoris” ‒ che nonostante il nome altisonante risultano essere semplici cavoli bolliti con carni e finocchi ‒ o i “caulles delicatos ad usum dominorum” ‒ con bianchi d’uova, finocchi e ancora “omnibus carnibus” ‒ non sembrano presentare ingredienti di particolare pregio, se non le carni, di cui però non viene specificata la natura [12].
La compilazione gastronomica copiata a Padova nei primissimi anni del Cinquecento e contenuta nel codice R3550 della Ruskin Gallery di Sheffield si apre invece con 20 ricette di insalate, sempre più in voga a quei tempi come vivande di credenza con cui aprire il banchetto e stuzzicare l’appetito dei convitati (Carnevale Schianca 2007, 91–94; Benporat 2007). Tra gli ingredienti di queste insalate vediamo comparire cipolla, raperonzoli, aglietti, capperi, carote, cavoli cappucci, asparagi, ruchetta, radicchio, lattuga, oltre a diverse erbette amare o aromatiche, e spesso l’unico condimento è costituito dalla terna sale, olio e aceto [13]. Di frequente, dunque, erano le semplici e crude erbe dell’orto, condite con pochi ingredienti, ad aprire i pasti delle aristocrazie, non diversamente da quelli delle classi rustiche [14].
Tornando alla materia di spettanza del cuoco e non del credenziere, molto ben rappresentati nei ricettari italiani sono i legumi, tra cui le fave: una “torta de favi” composta solamente di fave bollite e pestate con lardo, formaggio, sale e uova è descritta dal Libro B della tradizione dei ‘12 ghiotti’ [15], mentre Maestro Martino le propone ben mondate e bollite in brodo di carne salata, con l’aggiunta di un tocco di prezzemolo e menta battuta a cottura quasi ultimata. Totalmente priva di elementi di pregio, “questa minestra vole esse un pocho verde che parra più bella”, dice Martino, e “similmente poi fare li peselli e ogni altro legume fresco” [16].
Anche porri e cipolle ‒ che insieme all’aglio sono forse i prodotti del terreno che maggiormente rappresentano l’inferiorità del mondo contadino nella letteratura del pieno e del basso Medioevo (Montanari 2000, 205) ‒ possono costituire gli ingredienti principali di ricette non impreziosite in alcuna maniera. Tra queste figurano la “porata ad usanza de Francia” proposta dal già citato Libro A, ovvero una semplice ricetta di porri cotti insieme a carne di maiale salata o a carne fresca di castrone o vacca [17], e la “vivanda de cepolle nommata aqua e sale” descritta dal manoscritto Western 211 del Wellcome Institute di Londra (una compilazione culinaria databile al tardo Quattrocento nell’Italia meridionale): a un soffritto di cipolle “cum grasso e cum olio” ‒ quest’ultimo, se di oliva, è l’unico ingrediente della ricetta che si discosti un poco dalla sfera alimentare tipicamente contadina ‒ si aggiungono acqua, formaggio tagliato minuto, uova e agresto, per ottenere un piatto che “in omne modo e bono”, rassicura il ricettario [18].
Tutti gli alimenti tacciati di rusticità dalle fonti letterarie rientrano insomma nei testi italiani di alta cucina: in maniera evidente in quelli della tradizione meridionale e signorile del Liber de coquina, in misura minore nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino. Nella tradizione dei ‘12 ghiotti’, invece, gli alimenti contadini in generale, e le ricette contadine senza elementi signorili in particolare, hanno una presenza numerica assai limitata, nel migliore dei casi del tutto marginale. Ha ragione dunque Giovanni Rebora (1996, 80) ad affermare che è la maggiore prossimità sociale con il mondo contadino del pubblico a cui sono rivolti i ricettari dei ‘12 ghiotti’ a determinare la sovrabbondante ricchezza delle ricette da questi proposte, atte a soddisfare un forte bisogno di distinzione, sentito viceversa in maniera meno impellente dall’aristocrazia di corte destinataria delle altre tradizioni testuali.
Al di fuori delle tre ‘famiglie’ di manoscritti culinari appena citate, il curioso ed enigmatico Registrum coquine di Johannes de Bockenheim costituisce, anche sotto questo punto di vista, uno scoglio interpretativo notevole. Sebbene, forse, il cuoco di papa Martino V non abbia seguito il pontefice a Roma dopo chiusura del Concilio di Costanza, e quindi non abbia mai lavorato in Italia come cuoco (Laurioux 2005, 315–17), il suo ricettario risulta essere qui di grande interesse, in quanto specifica quasi sempre la destinazione etnica o sociale più consona per ciascuna sua ricetta.
Ebbene, pur presentando diverse ricette “pro rusticis” [19] e “pro villanis” [20], composte spesso di ingredienti di estrazione umile come ortaggi o legumi ‒ ma non sempre: anche volatili, caprioli e cinghiali figurano come ingredienti principali di una ricetta destinata ai rustici, almeno nella versione tramandata dal manoscritto Lat. 7054 della B.N.F. [21] ‒ il cuoco di papa Martino V non manca mai di impreziosire la composizione con qualche elemento signorile, in particolare le spezie. Anche se queste ultime non sono generalmente tra le più pregiate, come sottolinea Bruno Laurioux (1988, 717–718), rimangono comunque un prodotto al di fuori della portata della popolazione contadina. Il risultato è che nel ricettario del cuoco tedesco, che pure è l’unico a dedicare esplicitamente alcune sue ricette ai rustici, non vi è traccia di preparazioni che possano interamente rientrare nella sfera gastronomica contadina.
Difficile dare una spiegazione plausibile per questo fenomeno, in particolare alla luce del fatto che, come si è cercato di mostrare fin qui, ricette del tutto contadine sia negli ingredienti che nei metodi di cottura non sono affatto assenti dai coevi ricettari italiani destinati a un pubblico signorile. Un ulteriore punto interrogativo legato a una fonte decisamente controversa e unica nel panorama gastronomico medievale.
Ricette povere e mense ricche
Le composte sono un prodotto gastronomico che mira alla conservazione, grazie soprattutto all’aceto, di frutti od ortaggi quali rape, cavoli e lattughe. Nonostante siano cibi di conserva, esse sono ben presenti nei libri di cucina trecenteschi, a partire dalla famiglia del Liber de coquina [22] per arrivare almeno al ricettario conservato nel fondo Aliati della Società Storica Comense ‒ non appartenente a nessuna delle tradizioni citate sin qui ‒ dove l’insieme delle diverse ricette per composte assume una rilevanza numerica davvero notevole [23].
Proprio per via della loro natura di cibo di magro dall’immagine non particolarmente ricca, le composte si ritrovano sulle mense dei conventi degli ordini mendicanti, come i Domenicani di Bologna, di cui ci sono fortunatamente giunti i registri di spesa. Da questi registri ricaviamo che il convento bolognese comprava sul mercato cavoli e rape proprio per fare la composta o compositum, di cui si riporta anche una ricetta comprensiva di miele, senape, zafferano, uva passa e altri ingredienti non specificati (Cò 2016, 142). La composta di rape, poi, era uno dei piatti di Quaresima preferiti dal ricco mercante Francesco Datini, come scrive egli stesso in una lettera inviata alla moglie (citata da Giagnacovo 2002, 250): un cibo di magro piuttosto apprezzato non solo in ambito religioso, dunque, nonostante la povertà degli ingredienti di base.
Gli ortaggi apparivano frequentemente sulla mensa dei religiosi anche non in forma di composte, e lo stesso si può dire dei legumi. Il monastero di Santa Trinita di Firenze (la più importante sede cittadina dell’ordine vallombrosano, di cui ci sono giunti i registri di spesa per gli anni 1360-1363) si riforniva abitualmente di cavoli, fave fresche, fave menate, bietoloni, scalogni, “porri per mettere ne’ fagiuoli”, cipolle e agli freschi. Della lattuga, i registri specificano talvolta che era stata comprata e cucinata per l’abate in persona, e lo stesso vale per l’enula, preparata una mattina di gennaio con uova e due milze di porco per l’abate e il suo ospite, l’abate di Poppi [24].
Anche la mensa dei laici doveva fare grande uso di questi alimenti nei periodi di magro, quando la carne e i suoi derivati erano vietati dalla normativa religiosa. Rimanendo nella Firenze del pieno Trecento, il poeta Antonio Pucci descrive infatti come sul Mercato Vecchio “di quaresima poi agli e cipolle, | e pastinache sonvi, e non più carne, | siccom’a santa Chiesa piacque e volle: | erbette forti da frittelle farne, | fave con ceci e ogni altra civaia, | che di quel tempo s’usa di mangiarne” [25].
Certo la Quaresima era un momento in cui la mensa ricca si avvicinava particolarmente a quella povera, ma il consumo di ortaggi e legumi dal forte sapore contadino non era limitato ai periodi di digiuno religioso, nemmeno tra gli strati sociali più alti.
In una delle sue facezie, l’umanista Poggio Bracciolini testimonia infatti che i cittadini romani a lui contemporanei avevano la tradizione, per il pranzo del primo maggio, di cuocere e mangiare “varia leguminum genera”, da loro chiamati virtù [26]. Spostandoci da Roma a Prato, poi, sappiamo che Margherita, moglie del già citato Datini, cucinava piselli con una certa frequenza, aggiungendovi solamente un po’ di cipolla ed erbette: una ricetta che incontrava il gusto del marito, che in una sua lettera (citata da Mazzi 1980, 93 nota 123) gliene chiedeva i segreti. Rimanendo ancora in ambito datiniano, i libri contabili tardo trecenteschi del fondaco pisano mostrano che una parte ‒ seppur piccola ‒ della spesa alimentare, affrontata per il sostentamento degli operatori mercantili che lì lavoravano, era costantemente dedicata all’acquisto di radici, bulbi e ortaggi assortiti, segno di una presenza non sporadica di tali elementi sulla mensa dei collaboratori del grande mercante pratese (Giagnacovo 2002, 241–61).
Risalendo verso nord, nella Ferrara della metà del Quattrocento sentiamo il medico Michele Savonarola deplorare “la detestanda consuetudine de’ feraresi che tanta fava fresca manzano e peço cum il caxo salato, […] casone de molte infirmità in Ferrara” [27]. Al di là del parere negativo dell’illustre medico, dalle sue parole possiamo dedurre che le fave si abbinassero bene con il formaggio stagionato, non solo nei pasti frugali di campagna.
Nei momenti di carestia, poi, anche i più alti ceti cittadini erano costretti a cibarsi di alimenti che normalmente avrebbero disprezzato. Nel 1483, in un momento particolarmente difficile per la città, perfino il duca estense Ercole I fu costretto a cibarsi di pani di mistura, mentre gran parte della popolazione attorno a lui moriva di fame (Marini 1973, 44).
Al di là di congiunture negative o carestie, è tuttavia vero che il grande e frequente consumo di carne ‒ e di carne pregiata in particolare ‒ era un segno di privilegio a cui le classi dirigenti cittadine non potevano e non volevano rinunciare (Grieco 1997, 373–374; Montanari 2012, 75–77). I conti della mensa dei Priori di Firenze, non a caso, mostrano che proprio di carni pregiate ‒ tra vitello, capretto e volatili in genere ‒ consisteva il 47% dell’ammontare complessivo degli acquisti effettuati negli anni 1344-1345 dalla più alta istituzione politica fiorentina. Una percentuale che saliva a oltre il 55% negli anni 1397-1402 e 1428.
Naturalmente, verdure, ortaggi e legumi erano ben presenti anche su questa mensa elitaria, molto di più di quanto non alluda quel 2% scarso che rappresenta l’incidenza del loro acquisto sull’ammontare complessivo della spesa [28]. Questo non perché la mensa dei Priori avesse la possibilità di rifornirsi di derrate agricole da proprietà terriere ‒ ne era infatti priva (Grieco 1987, XV–XVI) ‒ senza dover ricorrere al mercato, ma perché la quantità di prodotto acquistato, e quindi consumato, era inversamente proporzionale al costo unitario del prodotto stesso: pertanto, la carne che costava molto di più delle verdure incideva molto più di queste a livello di spesa, ma la sua preminenza sul piano dei consumi doveva risultare meno accentuata (Grieco 1987, 22).
Anche le classi dirigenti cittadine avevano quindi una certa familiarità con alimenti appartenenti alla sfera alimentare contadina, e lo stesso può dirsi per le grandi famiglie signorili protagoniste del Rinascimento italiano. Ortaggi, legumi e gli altri elementi tradizionalmente associati al mondo contadino erano infatti presenti sulla mensa quotidiana di queste aristocrazie, e potevano essere oggetto di donativi e missive tra i loro membri. Alcune testimonianze particolarmente interessanti in tal senso giungono dal ricchissimo epistolario di Isabella d’Este, marchesa di Mantova dal 1490.
Da una lettera del 16 novembre 1500 apprendiamo che la marchesa inviava al fratello Alfonso duca di Ferrara un “cistello de endivia sotterata da insalata”, scusandosi per la scarsa quantità ma assicurando di mandarne altra appena fosse pronta [29]. Quasi vent’anni dopo, ancora da una lettera di Isabella si scopre che la marchesa aveva da tempo spedito allo stesso Alfonso delle sementi per coltivare verze, e ora mandava piuttosto le verze stesse, non mancando di indicare il modo di cuocerle e condirle in insalata: “bisogna tagliar via quello torso duro, poi il resto metterlo a bollire in acqua per uno pochetto, sino a tanto che sia divenuta la verza alquanto tenera; poi levarla di l’aqua et conciarla con olio et accete, in foggia di salatta” [30]. Semplice ricetta piaciuta molto ad Alfonso, che rispondeva chiedendo l’invio di ulteriori sementi [31].
Se non si può negare il ruolo ricoperto dagli umili ortaggi sulla mensa signorile, bisogna però ricordare che, specie nelle grandi occasioni festive, le tavole aristocratiche traboccavano soprattutto di carni.
Il convivio signorile era d’altra parte il regno dell’ostentazione, dove attraverso la ricchezza delle vivande e la fastosità della cornice ‒ dall’arredamento scenografico della sala alla cornice a tema di attori e paggi che dovevano gli uni intrattenere gli ospiti con canti e recite, gli altri servire con eleganza e precisa ritualità le ricche imbandigioni ‒ il padrone di casa voleva mostrare la propria ricchezza e liberalità, suscitando meraviglia negli ospiti e mettendo così in scena la preminenza sociale sua e della sua famiglia [32]. In tali magnificenti occasioni alimenti contadini come ortaggi e legumi sparivano quasi del tutto, facendo saltuariamente la loro comparsa soltanto come ingredienti accessori, di accompagnamento a fiumi di carni arrosto o bollite, oppure inseriti in torte, a interrompere la consueta sequela di carni, o ancora potevano comparire come protagonisti sì, ma di portate di apertura, destinate a suscitare l’appetito dei convitati e prepararli a pietanze di ben altro spessore e statuto sociale.
Appartengono a quest’ultima tipologia gli asparagi serviti nell’aprile del 1488 all’inizio del banchetto napoletano in occasione delle nozze tra Gian Giacomo Trivulzio e Beatrice d’Avalos [33], o i quattro bacini di finocchi, cavoli e lattughe presentate ‒ insieme a uova, ostriche, frutta fresca e molte altre cose, tra cui castagne ed erbette ‒ al principio del banchetto celebrato a Rimini nel 1475 per le nozze di Roberto Malatesta e Isabella da Montefeltro [34].
Abbiamo poi casi di “torte in herbigli de piselli” e di “salviate” (torte a base di salvia e altre erbette) che compaiono tra numerose portate di arrosti, lessi e fegatelli in alcuni banchetti descritti dal manoscritto Buhler 19 della Pierpont Morgan Library di New York [35] (lo stesso che trasmette il ricettario dell’Anonimo napoletano, in parte tratto da Maestro Martino).
Tra i contorni, troviamo dei ceci ad accompagnare una portata di tinca affumicata in un banchetto di magro tenutosi a Siena tra alcuni “armegiatori”, lì riunitisi nell’antivigilia di Natale dell’anno 1326 per celebrare armeggiando e pranzando insieme l’entrata nella cavalleria di Francesco Bandinelli, figlio di Sozzo [36]. E così anche verze, fagioli e lingue salate possono fungere da contorno a coreografici pavoni, al pari dell’agliata che immancabilmente accompagna la carne di bue e di capponi grassi, in due delle diciotto portate del banchetto tenutosi a Milano presso la corte di Galeazzo II Visconti, il 15 giugno 1368, in onore del matrimonio della figlia Violante con Lionello d’Anversa [37].
Detto di verdure e ortaggi, la presenza di alimenti umili nei grandi banchetti ‒ sia signorili che dell’alta borghesia affaristica, la quale certo non tardò ad adeguarsi ai canoni di splendore tradizionalmente associati alla liberalità signorile (Montanari 1989, 488) ‒ è rilevabile anche nel campo delle carni. Tra un’infinita sequela di carni di vitello, capretto, agnello, cappone, starne, fagiani e pavoni, infatti, quasi immancabilmente compaiono anche insaccati e salumi, quali prosciutti, salami e salsicce di vario genere. Prodotti salati o stagionati per una lunga conservazione, oppure ottenuti con il quinto quarto dell’animale meno pregiato ‒ il maiale ‒ questi ultimi sono elementi che rientrano perfettamente nell’economia gastronomica della famiglia contadina, preoccupata di immagazzinare risorse in vista di periodi difficili e di sfruttare al massimo tutto il disponibile [38], ma che in molti casi non tardarono a essere riconosciuti come prodotti di pregio e a godere di una buona fortuna commerciale, costituendo un’importante anello d’intersezione tra la mensa povera e quella signorile (Rebora 1998, 77–94; Caradonna 2002).
Così, il trionfale banchetto celebrato a Pesaro nel 1475 in onore delle nozze di Costanzo Sforza e Camilla d’Aragona è diviso dai suoi raffinati artefici in due parti distinte ‒ dedicate una al Sole e l’altra alla Luna ‒ suddivise a loro volta in sei portate dedicate ciascuna a un dio pagano, il quale nella rappresentazione scenica precedente alla messa in tavola delle vivande presenta queste ultime ai commensali, declamando alcuni versi. Ebbene, la terza portata è dedicata a Giove, “dio de li imperii et de li signori”, ed è suo figlio Perseo a presentare le vivande, tra cui figurano anche “salami de più ragione im piatelli del paese” [39]. Nella quinta portata di questo ricchissimo banchetto, invece, è Orfeo, figlio di Apollo, a declamare versi dedicatori ai due sposi delle cibarie presentate, ovvero crostate zuccherine e frutta, ma soprattutto forme “di caso parmisano grandissime” e di “casio nostrano” [40], dorate e decorate. Abbellimenti, questi ultimi, che mascherano un prodotto divenuto ormai protagonista ‒ al pari di insaccati e salumi ‒ della mensa degli strati superiori della società, ma la cui impronta originaria rimanda decisamente al mondo contadino [41].
Anche le interiora di maiale, che molti medici del tempo sconsigliavano in quanto troppo indigeste per stomaci raffinati (Leone 2007, 115–20), appaiono ‒ in un caso almeno ‒ sulle tavole di un banchetto signorile. Siamo nell’ottobre del 1489 a Pesaro, e l’occasione è data dal matrimonio tra Giovanni Sforza e Maddalena Gonzaga. È la stessa sposa a narrare in una sua lettera al fratello (citata da Malacarne 2013b, 60) il banchetto di nozze, a cui come di consueto fanno da contorno danze e rappresentazioni teatrali.
Nella seconda di tredici portate di questo sfarzoso convito, subito dopo i pasticcini e confetti di apertura, sono serviti fegatelli di uccelli e di vitello, insieme a “fidego de porco” e “persutti cum vino biancho et vermilio dolce”. Nell’undicesima, a precedere i confetti di chiusura, troviamo nuovamente “caso parmesano” e “maroni”, anche questi un frutto di stagione ‒ il banchetto si svolge a fine ottobre ‒ dall’uso socialmente condiviso ma dalla fisionomia non certo prestigiosa nell’immaginario alimentare delle classi dominanti (Cherubini 2008).
Insomma, se prodotti contadini ‒ tali almeno nelle loro presunte origini, o perché affini ad altri alimenti marcatamente rustici ‒ non mancano sulla tavola di tutti i giorni degli strati sociali più alti della popolazione ‒ dei ceti signorili ancora più che della ricca borghesia, nei periodi di magro ancora più che in quelli di grasso ‒ lo stesso si può dire per quanto riguarda la tavola delle grandi occasioni. In questo contesto volutamente elitario e magnificente, però, la presenza di alimenti di matrice rustica si assottiglia molto, venendo relegata, qui sì, a un ruolo del tutto marginale, se si escludono i salumi, gli insaccati e i formaggi, alimenti come si è visto ben presenti e apprezzati su qualunque mensa di qualunque strato sociale.
Mensa ricca e mensa povera: trasversalità e divergenze
Al di là delle rappresentazioni ideologiche veicolate dalla letteratura, e al di là dell’impostazione dicotomica del pensiero dietetico, si è visto come gli elementi gastronomici di impronta contadina rientrino nella cucina riservata alle élites, talvolta con un ruolo di assoluto rilievo. Sembra infatti che qualunque portata, anche la più povera, non scalfisca l’immagine signorile del pasto, se affiancata, preceduta o seguita da vivande di elevato statuto sociale.
Riprendendo il parallelismo cibo-linguaggio proposto da Montanari (2012, 23‒42), il discorso gastronomico signorile può essere ‒ e spesso è ‒ infarcito di un lessico ‒ i prodotti ‒ ‘basso’, contadino. Anche la morfologia del pasto delle élites ‒ le pratiche di cucina, ovvero come i prodotti vengono lavorati ‒ aderisce in qualche caso a quella tipica del mondo campagnolo: ne sono testimonianza le ricette di chiara matrice rustica totalmente prive di ingredienti signorili presenti in quasi tutti i ricettari.
È piuttosto a livello di sintassi che le due mense cominciano a divergere in maniera significativa: il ruolo delle ricette povere sulla mensa ricca è spesso di contorno, di intermezzo o aperitivo ‒ si è visto soprattutto il caso delle insalate ‒ mentre su quella contadina è assolutamente centrale, imprescindibile. Infine, la distanza tra i due contesti diviene davvero abissale a livello retorico, ovvero in tutto ciò che non è cibo ma svolge un ruolo fondamentale nell’atto del mangiare: il luogo, le forniture, i servitori, l’apparato scenico e i codici di comportamento a tavola (in proposito Romagnoli 1997) sono tutti elementi che differenziano profondamente la mensa quotidiana e ‒ ancor di più ‒ il banchetto festivo delle classi dirigenti da quello degli strati poveri o contadini.
Tornando alla sintassi, vi sono state sicuramente delle eccezioni alla regola: eccentrici personaggi come il papa Giulio III, al secolo Giovan Maria Ciocchi Del Monte (1487-1555), amavano particolarmente le cipolle di Gaeta o il gusto pungente dell’aglio, al punto da ritenerlo una componente essenziale del proprio pasto (Pastor 1963, 37; Di Schino e Luccichenti 2007, 14). C’è tuttavia di più: alcuni prodotti dall’immagine contadina ma di riconosciuta qualità ‒ ad esempio le cipolle di Certaldo o le rape di Terni, per rimanere nel solo ambito italiano ‒ godevano già alla fine del Medioevo di una più che discreta fortuna commerciale, che si estendeva anche oltre i confini regionali, segno di un apprezzamento abbastanza diffuso e condiviso dagli strati più alti della società (Cortonesi 1997, 330).
Come si possa coniugare tutto questo con l’ “ideologia della differenza” (Montanari 2008, 47) veicolata dai testi letterari e teorizzata dai medici, che ancora nel XVI secolo continuavano a sconsigliare l’assunzione di bulbi e radici da parte degli esponenti delle classi dirigenti, è spiegato bene da Domenico Romoli, detto “Panunto”, nella sua Singolare dottrina (1560), enciclopedico trattato di gastronomia scritto per gli scalchi delle grandi corti rinascimentali: “Lasciate pur dir chi vuole, che le dottrine che son scritte per conservatione della sanità son per i mal complessionati, ò che declinino alla vecchiaia, ò che sieno infermi, ò che si lievino dal male, che a sani nodrisce quel che gli sà buono, pur che sia mangiato temperatamente, et con misura”.
Romoli continuava portando esempi a sostegno delle sue affermazioni: “Perché ho io veduto per isperienza, che havendo un mio signore (che era da picciolo allevato in mangiar cibi grossi, di ogni cosa) voluto regolarsi per tema di ammalare, et darsi a regole di medici, si infermò, et venne a morte”. Più delle prescrizioni dei medici contava il gusto individuale: “Quanto alla regola del vivere, niuno è miglior medico à noi, che noi stessi”, chiudeva Romoli [42].
Il basso statuto sociale degli alimenti contadini rimaneva un aspetto ben evidente agli occhi di tutti, ma era efficacemente contrastato dall’abbondanza e dalla varietà della mensa, e in qualche caso, come si è appena visto, anche da una particolare predisposizione personale nei confronti di tali prodotti, che spingeva a infrangere con insolita continuità i pregiudizi sociali legati al loro consumo.
Il rapporto tra alta e bassa cultura alimentare era costituito insomma da stridenti divergenze ma anche da evidenti trasversalità, che talvolta si traducevano in vere e proprie aderenze o sovrapposizioni. Qualche caso limite, sottolineato dalle fonti come eccezionale, conferma l’assunto generale: l’ideologia della differenza non si realizzava mai in maniera perfetta nelle pratiche alimentari reali, anche se indubbiamente le condizionava e ne era a sua volta ispirata.
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Note
1. Martellotti 2005, 240.
2. Benporat 1996, 96 nr. 25.
3. Platina 2015, lib. I, cap. 12, p. 114: “Novicomensi nostra aetate coquorum principi”.
4. Esistono due grandi ‘famiglie’ o tradizioni testuali dei ricettari italiani bassomedievali: una di origine meridionale e cortese facente capo al Liber de coquina, l’altra di ambiente toscano e cittadino, cosiddetta dei ‘12 ghiotti’. A queste due, nella seconda metà del XV secolo, si aggiunge la tradizione del ricettario di Maestro Martino: Laurioux 1996.
5. Martellotti 2005, 204.
6. Benporat 1996, 192 nr. 109.
7. Benporat 1996, 103 nr. 58.
8. Bergonzoni 2006, 99 nr. LXXXIX; Benporat 1997, 58 nr. 112.
9. Anonimo Meridionale 1985, 23 nr. 99.
10. Bergonzoni 2006, 72 nr. XIII.
11. Frati [1899] 1986, 23 nr. 43.
12. Martellotti 2005, 201–203.
13. Benporat 2012a, 14–15 nr. 1–20.
14. Per una famosa scena letteraria di pasto frugale contadino aperto con un’insalata: Folengo 1997, vol. I, lib. II, p. 138 vv. 261–274.
15. Anonimo Meridionale 1985, 42 nr. 34.
16. Benporat 1996, 110 nr. 89, 181 nr. 60; Faccioli 1992, 162.
17. Anonimo Meridionale 1985, 24 nr. 109.
18. Benporat 2011, 40–41 nr. 105.
19. Laurioux 1988, 739–740 nr. 58, 740–741 nr. 63 (“pro divitibus rusticis”); Maier 2013, 6 nr. 2, 7 nr. 5, 12 nr. 27, 15 nr. 39, 19–20 nr. 56, 24 nr. 73, 25 nr. 76.
20. Laurioux 1988, 730 nr. 6 (“pro nobilibus villanis”), 739 nr. 56, 742 nr. 70; Maier 2013, 7 nr. 5, 11 nr. 23, 19–20 nr. 56, 20 nr. 57, 23 nr. 70.
21. Maier 2013, 12 nr. 27.
22. Martellotti 2005, 277–278; Bergonzoni 2006, 76–77 nr. XXI; Anonimo Meridionale 1985, 22 nr. 91; Benporat 1997, 59 nr. 116.
23. Benporat 2012b, 45–46 nr. 84‒86, 47 nr. 91; 62–65 nr. 142–143 e 145; 68–69 nr. 150.
24. Zazzeri 2003, 4 e passim.
25. Pucci 1952, 407–408 vv. 142–147.
26. Bracciolini 1995, 222 nr. 206: “Calendis Maii Romani varia leguminum genera, quae “virtutes” appellant, simul coquunt mane eduntque”.
27. Savonarola 1988, 67 rr. 280–285.
28. Elaborazione dei dati raccolti da Grieco 1987, 21 tav. 3, 27 tav. 4. Sulla grande varietà di ortaggi, verdure e legumi acquistata dalla mensa dei Priori: Frosini 1993, 103–122.
29. Archivio di Stato di Mantova. Archivio Gonzaga b. 2993, l. 12, c. 4v, nr. 11: “Mando a Vostra Signoria per lo presente cavallaro uno cistello de endivia sotterata da insalata quale goderà per mio amore, et haverome excusata se la serrà pocha, perché non s’è ritrovata più de aconza. Ho bene commisso ne sii preparata de l’altra et mandarone a Vostra Signoria”.
30. Archivio di Stato di Mantova. Archivio Gonzaga b. 2997, l. 36, c. 32r, nr. 105, 27 febbraio 1519. Cfr. Malacarne 2000, 108–109.
31. Archivio di Stato di Mantova. Archivio Gonzaga b. 1197, 3 marzo 1519, Alfonso d’Este a Isabella d’Este: “Ho avute le verze che mi ha mandate V. S. et n’ho provato in salata, che mi è molto piacciuta, et così ne rendo molte grazie a V. Ex. et pregola chella mi faccia mandare de le sementi, perché non hebbi mai quelle chella mi scrive havermi già mandate”. Cfr. Malacarne 2013a, 190–191.
32. Montanari 2012, 217–237; Romani 1997; Benporat 2001; Malacarne 2007.
33. Benporat 2001, 256.
34. Ivi, 231.
35. Benporat 1996, 282, 284–285 e 287.
36. Benporat 2001, 123.
37. Ivi, 132–133.
38. Interessante l’opinione di Platina 2015, lib. II, cap. 21, 161: “a ragione i contadini hanno chiamato succidia le carni salate, perché se ne possono succidere ‒ cioè letteralmente ‘recidere’ ‒ tante cose da mangiare, come si fa nell’orto, che la gente di campagna ha appunto soprannominato ‘seconda succidia’” (160: “non immerito rustici salsuram succidiam vocitarunt, quod inde succidi ad esum multa possunt, ut ex horto fit, quem eundem secundam succidiam rustici appellavere”).
39. Benporat 2001, 190.
40. Ivi, 192.
41. Montanari 2008, 31‒38. Sul formaggio parmigiano, esportato fuori d’Italia già nel XIV secolo: Montanari 2012, 96‒97; Naso 1990, 47‒48.
42. Romoli 1593, 230v-231r.